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Fiorenza Tarozzi

Il contesto storico-sociale bolognese nella stagione del Risorgimento

Il ruolo di Bologna nel Risorgimento non fu marginale, come a volte si è creduto. La città felsinea era certamente una realtà periferica nel complesso Stato Pontificio e mal viveva questa sua posizione, lei che era stata, sia pur per poco tempo (gennaio-luglio 1797) capitale della Repubblica Cispadana e poi ancor brevemente capitale del Dipartimento del Reno. Nella stagione napoleonica, poi, aveva visto riforme e ammodernamenti grazie anche all’impegno di una borghesia – arricchitasi con la vendita dei beni della Chiesa e successivamente nobilitata – capace di rinnovamenti in campo agricolo e allo sviluppo di prime piccole industrie che andavano ad arricchire il già articolato tessuto artigianale cittadino (Nota 1).
Bologna, come le Romagne, soffrì le disposizioni del Congresso di Vienna che ne fecero la periferia dello Stato Pontificio; a Vienna Antonio Aldini si era espresso per la soluzione austriaca (inserimento nei domini asburgici), ma la maggiore autorevolezza del cardinal Consalvi (delegato pontificio) portò all’assetto che ben conosciamo: restituzione delle Legazioni allo Stato della Chiesa con alla guida un legato rappresentante del papa, mentre l’Austria si assicurava il diritto di mantenere un presidio armato a Ferrara e a Comacchio, di fatto una permanente testa di ponte a sud del Po. Il delegato pontificio si trovò anche a dover accettare come condizioni limitanti del suo successo la concessione di uno speciale ordinamento per le Legazioni e il principio dell’irrevocabilità delle alienazioni dei beni ecclesiastici già avvenute. Del resto il Consalvi si rendeva perfettamente conto dell’impossibilità di cancellare le forme di modernizzazione e le trasformazioni mentali e culturali avvenute nella stagione “francese” (Nota 2). Nel caso di Bologna si mostrava, poi, di fatto impossibile conciliare la riaffermazione del potere politico papale con le aspirazioni antiche e nuove di una città il cui tessuto sociale vedeva interagire diversi protagonisti economici proiettati verso il dinamismo della valle padana ben lontano dal sistema economico statico dello Stato della Chiesa, mentre sul versante politico largamente condiviso era il rifiuto di un governo clericale che non lasciava spazio ai laici.
Quale era dunque il volto di Bologna nel primo Ottocento?
Sul piano economico il carattere dominante restava una netta vocazione agricola, pur in presenza di un articolato e qualificato mondo artigianale (ne erano esempio i fratelli Carlo e Paolo Lollini titolari di una azienda produttrice di ferri chirurgici rinomatissima in tutta Europa) e di non nascoste propensioni verso l’industrializzazione. In tal senso va letta la nascita, nel 1844, a seguito dei lasciti testamentari di Giovanni Aldini e Luigi Valeriani, delle Scuole tecniche bolognesi (dal 1878 Istituto Aldini Valeriani per arti e mestieri), il cui compito era di formare “buoni artigiani”, “buoni capi bottega”, “buoni piccoli industriali”, elementi preziosi, specie questi ultimi, per lo sviluppo economico cittadino.
L’agricoltura bolognese, nella stagione della Restaurazione e del Risorgimento, mostrava notevoli progressi grazie anche agli studi e alla passione della parte più avanzata del ceto proprietario, al cui interno la componente borghese si veniva affiancando all’aristocrazia tradizionale e alla nobiltà di origine napoleonica.
Uno dei centri del dibattito economico era la Società agraria (Nota 3). Nata nel 1802 con il compito di «promuovere le arti campestri» (Nota 4) al fine di migliorare le coltivazioni, essa fu soprattutto un cenacolo di esperti che avanzavano proposte frutto di studi teorici «per bene indirizzare ogni pratica» agricola. La presenza al suo interno di uomini di carattere moderato l’aveva resa tollerabile al governo pontificio, ma finì col farla apparire troppo immobile agli occhi di nuovi protagonisti, quali Marco Minghetti e Carlo Berti-Pichat, che – ponendola a confronto con i più decisi movimenti innovatori – la giudicavano un istituto tutto sommato poco incisivo, non idoneo a rappresentare i proprietari di ispirazione liberale, gli agricoltori e i tecnici più dinamici sia nella sperimentazione agricola che nel prospettare in termini rinnovati il rapporto città-campagna.
Proprio questi giovani si fecero promotori, attorno al 1842, di conferenze agrarie che si tenevano in casa Berti-Pichat – dove spesso erano ospiti, durante i loro viaggi in Italia, anche personaggi di livello europeo come Riccardo Cobden – e diedero vita ad un giornale, «Il Felsineo», particolarmente attento ai temi economici, morali, politici e sociali, e meno legato alle discussioni di tecnica agricola. Così Marco Minghetti descriveva ne I miei ricordi quell’esperienza:

Ho detto che nelle nostre Conferenze Agrarie delle quali era organo il Felsineo, si toccavano anche prima, sebbene timidamente, argomenti economici e morali. Ora questa parte pigliava il primato e distaccavasi dall’altra e si facevano adunanze settimanali, delle quali io era Presidente o come dicevasi allora, moderatore. Anche il Felsineo mutava indole. Alle materie agrarie sottentravano le materie civili, al Berti-Pichat, direttore-proprietario, una Società editrice (Nota 5).

Altro luogo simbolo del potere economico cittadino era divenuta la Cassa di Risparmio, fondata nel 1837, ma consacrata nel suo ruolo di centro motore ed equilibratore degli interessi agrari e commerciali della città e del suo territorio negli anni post-unitari, con l’inaugurazione della imponente sede in via Farini (Nota 6). La Cassa di Risparmio scaturiva dalla consapevolezza di un ceto dirigente in cui la componente nobiliare (vi figuravano i più consolidati nomi dell’aristocrazia bolognese dagli Amorini ai Bevilacqua, Hercolani, Isolani, Malvezzi, Mazzacorati, Pepoli, Pizzardi, Ranuzzi, Sassoli, Spada, Zambeccari) era opportunamente integrata dalla presenza di borghesi consapevoli che la centralizzazione della raccolta del risparmio era strumento efficace e fondamentale non solo per combattere l’usura, ma anche per la pratica di una moderna forma di controllo sociale e di affermazione del primato della città sul territorio. Questo modello era alla base dello sviluppo non solo della raccolta del piccolo risparmio ma anche di una attività di credito particolarmente attenta agli artigiani e ai piccoli commercianti.
Dal 1855, dopo un periodo di lunghi dibattiti, ebbe vita, in città, anche una banca detta “di sconto” in grado di servire agli interessi di commercianti e possidenti nello sviluppo delle loro attività. Promotori ne erano stati gli esponenti della classe liberale moderata e, fin dal suo avvio, la Banca delle quattro legazioni (questo il suo nome) operò principalmente come finanziatrice delle attività di un gruppo ristretto di nobili e notabili cittadini con un giro d’affari molto ridotto e causa, nel volgere di pochi anni, della sua fusione con la Banca nazionale sarda (1861) (Nota 7).
Oltreché sul terreno economico Bologna era una città vivace e interessante anche per le iniziative culturali e sociali che sapeva proporre. I suoi numerosi teatri ne facevano, ad esempio, un centro importante per presenza di compagnie teatrali, di autori allora famosi, di compagnie dilettantesche spesso politicamente segnate (Nota 8).
Al teatro Comunale, dal primo Ottocento, si affiancò per importanza il teatro del Corso, prediletto dalla bella società, ma amato soprattutto dalla borghesia e dagli intellettuali; vi si rappresentavano opere serie ma anche testi allegri e vi si svolgevano anche feste da ballo. E poi c’era l’Arena del Sole che, inaugurata nel 1810, divenne in breve tempo una delle istituzioni più solide e radicate della città. E ancora il teatro Contavalli, inaugurato nel 1814 con la messa in scena di un dramma eroico per musica e dove si ebbe anche la prima rappresentazione in città de L’Italiana in Algeri di Rossini. Attorno al 1820 i bolognesi potevano contare su cinque teatri pubblici (a quelli su ricordati va aggiunto il teatro Marsigli, collocato in un’area tra Strada Maggiore e via Begatto), a cui si affiancavano teatrini accademici o riservati agli spettacoli per le marionette; numerosi, infine, erano i teatri ospitati nelle ville e nei palazzi dell’aristocrazia cittadina.
Sempre a Bologna venivano pubblicati giornali e periodici di gradevole veste editoriale, zibaldoni che trattavano di novità letterarie e artistiche, di mode e di spettacoli. Non di rado le cronache degli eventi erano accompagnate da note in cui traspariva il fervore politico che animava la città: così nel 1831 e ancor più nel biennio 1846-48. Di quei giornali furono attivi collaboratori Augusto Aglebert, Savino Savini, Gioacchino Napoleone Pepoli, Agamennone Zappoli, Luigi Ploner: autori tutti, anche, di drammi storici e artistici (a cui il tempo ha posto oblio) che ci consentono di verificare come il teatro potesse essere considerato una realtà autenticamente nazionale in quanto i testi comparsi sulle scene in quel periodo e fino all’Unità avevano comunque l’intento, al di là delle facili mode, di suscitare l’orgoglio patrio, magari conservando un po’ di campanilismo nella scelta dei soggetti. Aglebert, Ploner, Zappoli, Savini, Pepoli, componendo e commentando serate teatrali, orientavano il pubblico, lo predisponevano e lo indirizzavano attribuendo un chiaro significato civile al loro impegno; i loro testi facevano leva sui sentimenti nazionali mettendo in scena momenti della storia italiana cercando di servire in tal modo alla causa nazionale prima di passare all’azione.
Sul finire degli anni Quaranta, e specie dopo il 1848, l’intreccio tra teatro e Risorgimento si fece più solido: nei teatri gli spettacoli si davano a favore della causa nazionale, erano spesso occasione per raccogliere fondi per i volontari alle guerre di indipendenza: entusiasmo patriottico e teatro patriottico avevano trovato un’identificazione quasi totale.
Al teatro, spazio pubblico, occorre affiancare, per l’importanza crescente che ebbero, i salotti, spazi privati dove trovava esplicita realizzazione il protagonismo delle donne che seppero fare delle loro case luoghi di cultura letteraria e musicale e centri di discussione politica (Nota 9). Un cenacolo di artisti e letterati fu la casa di Cornelia Rossi Martinetti (la cui fama è stata resa immortale dal Foscolo nell’inno secondo del carme Le Grazie) che si sviluppava in un’area tra via San Vitale, via delle Campane e la chiesa di San Giacomo e che ebbe tra i suoi ospiti Vincenzo Monti, Pietro Giordani, Ugo Foscolo e Antonio Canova. Non diversamente si può dire del salotto di Teresa Carniani Malvezzi, anch’esso frequentato dalle personalità intellettuali più prestigiose dell’epoca e considerato a livello europeo un centro di diffusione della cultura classicista anche quando il Romanticismo si era già affermato.
Negli anni Trenta i salotti bolognesi aprirono le loro porte anche ai giovani della generazione nata dopo la rivoluzione francese, giovani che sarebbero divenuti i protagonisti della stagione risorgimentale. Palazzo Tanari in via Galliera divenne un luogo dove si discuteva di “risorgimento” politico e sociale, dove trovavano ospitalità filosofi, letterati, economisti di fama internazionale al momento del loro passaggio per Bologna e dove, sotto la guida intelligente e vivace della marchesa Brigida, si andava formando quella classe dirigente locale che sarebbe divenuta protagonista della stagione del Risorgimento e dell’unificazione nazionale: Marco Minghetti, Carlo Berti Pichat, Annibale Ranuzzi, Rodolfo Audinot, Antonio Montanari, Giambattista Ercolani. Anche nella casa della contessa Carolina Tattini Pepoli (nata Pepoli e nipote di Gioacchino Murat) in via del Corso (oggi Santo Stefano) il conversare ebbe come centro la politica. Carolina era una giovane donna interessata a quanto accadeva attorno a lei e il fratello Gioacchino Napoleone assieme all’amico Marco Minghetti la coinvolgevano nel succedersi degli eventi e nel maturare delle emergenze politiche fino a farne una protagonista diretta nella giornata dell’8 agosto 1848, quando fu tra le prime a scendere in strada e a fare le barricate. Del resto al momento dello scoppio delle guerre per l’indipendenza il salotto di casa Tattini Pepoli era divenuto uno dei centri principali della resistenza liberale e fungeva da luogo di riunione di uomini politici e diplomatici attirati dalle conversazioni dotte e dallo spirito di libertà e di indipendenza che erano certi di trovare nel conte e nella giovane moglie.
Altro ruolo non secondario nella stagione del Risorgimento lo giocarono i professori e gli studenti dello Studio cittadino, specie a partire dal 1831, quando una nuova generazione di giovani apriva la propria esperienza di vita alla politica, giovani che non avevano conosciuto la stagione del settarismo – del resto le società segrete, compresa la Carboneria, non avevano avuto larga circolazione a Bologna – e che, invece, erano attratti dal pensiero mazziniano e dal suo appello agli italiani per dare vita ad un nuovo movimento.
Il 1831 fu un anno importante per Bologna e le Legazioni. La rivoluzione di luglio in Francia sospinse all’insurrezione i patrioti italiani, che non avevano rinunciato all’attività cospirativa, specie nei ducati padani e nelle Legazioni pontificie. Nuove parole entravano nel parlare politico: redenzione, rigenerazione, risorgimento; parole che si intrecciavano nel linguaggio degli scrittori e dei politici di quel periodo, che le usavano indifferentemente, nonostante la diversa origine e il significato non del tutto identico. Di fatto si apriva con quella rivoluzione la stagione delle lotte per un’Italia libera e indipendente e l’idea nazionale, largamente diffusa, divenne popolare: «Bastò l’annuncio del principio del non intervento perché l’Emilia e le Romagne soprattutto, e poi le Marche, l’Umbria, allontanati i sovrani e i rappresentanti papali, si coprissero del simbolo nazionale, la bandiera tricolore, nelle strade, nei palazzi, sulla sommità degli edifici monumentali» (Nota 10).
Le manifestazioni popolari assunsero aspetti diversi: dalle coccarde sui cappelli e alle vesti delle donne, dai canti rivoluzionari riesplosi per le vie di Bologna e delle Romagne alle ripetute rappresentazioni teatrali di opere come il Guglielmo Tell di Rossini; tutte conferme della larga diffusione fra le classi popolari dell’idea di patria e di nazione. Il principio del non intervento, nel breve periodo che lasciò incerte le corti e i popoli sulle reali intenzioni della Francia, permise l’avvento effimero del Governo delle Provincie Unite, e permise anche l’esplosione della stampa liberale, altro esempio della popolarità delle nuove idee di risorgimento e rigenerazione. Nel febbraio del 1831, anche se già si sapeva dell’esito fallimentare della “congiura estense”, i bolognesi insorsero contro il governo pontificio. In un clima sempre più carico di tensioni, il prolegato, anziché fare intervenire le milizie papali a sedare la sommossa, autorizzò la costituzione di una Commissione di governo provvisoria formata dai conti Carlo Pepoli, Alessandro Agucchi, Cesare Bianchetti e dal professor Francesco Orioli (docente di fisica nella Facoltà filosofica dell’Università) e dagli avvocati Antonio Zanolini e Antonio Silvani. Il primo atto del nuovo organo di governo fu quello di istituire una Guardia nazionale, seguito poi dalla formalizzazione del Governo provvisorio della città e della provincia di Bologna. Se ci soffermiamo su quei primi nomi vediamo che fin dall’inizio si trattò di una convergenza tra il moderatismo espresso dalla vecchia aristocrazia (sia pur nella sua parte liberale) e il mondo degli intellettuali, particolarmente legato allo Studio cittadino. Figura di primo piano fu, da subito, Francesco Orioli (Nota 11), che aveva fatto delle sue lezioni universitarie e della sua casa un momento e un luogo della politica. Del resto, per tutto il periodo della Restaurazione, i professori dell’Università avevano trasformato le loro case in luoghi d’incontro dove si discutevano le idee nuove e dove si intrecciavano relazioni, con forme di comportamento molto simili a quelle in uso in aggregazioni informali come i circoli e i club. Quando si delineò l’idea di una rivoluzione, Francesco Orioli era sicuramente tra i professori più conosciuti e più popolari per le sue idee liberali e a lui si rivolse la massa degli studenti, protagonisti di primo piano degli avvenimenti.
Al momento della costituzione della Guardia cittadina, il corpo degli studenti si organizzò in una legione autonoma, denominata Pallade (Nota 12). Vi era in quel nome chiaro il richiamo alla divinità antica che personificava il valore guerriero, ma anche dea dell’intelligenza, protettrice delle opere di pace, delle arti, dei filosofi e degli scienziati. Francesco Orioli e Paolo Costa ne furono gli organizzatori e «si può facilmente avanzare l’ipotesi che il Costa medesimo suggerisse di intitolare quel corpo studentesco Legione di Pallade, che tanto bene si conveniva allo spirito classicheggiante del letterato ed alla comune retorica di quei giorni» (Nota 13). Organizzata come un vero corpo militare e divisa in tre compagnie la Legione Pallade – il cui addestramento militare venne affidato a Domenico Brighenti, segretario dell’Accademia di belle arti - all’inizio venne utilizzata con funzioni di tutela dell’ordine pubblico cittadino; non avendo una loro divisa i giovani della Legione erano individuabili per la fascia tricolore che portavano al braccio e la loro presenza era raccontata con attenzione nelle cronache dei giornali cittadini, due in particolare: il «Precursore» e «La Pallade italiana».
È il caso di ricordare come, nel 1831, vi fu una larga fioritura di giornali, che si andarono ad aggiungere alla preesistente «Gazzetta di Bologna» (poi «Monitore Bolognese»), giornali che vissero solo per il breve tempo della “rivoluzione”: «Il Moderno quotidiano bolognese», «Il Precursore», «La Pallade italiana», «La Sentinella della libertà» (Nota 14). Si trattò prevalentemente di giornali formativi (l’informazione era lasciata al «Monitore»), dedicati al popolo anche se il linguaggio usato era eccessivamente forbito, ricco di richiami classici e storico-allegorico; dal punto di visto delle qualità formale, invece, furono tutti molto scarsi: la carta e la stampa infatti erano a dir poco pessime.
La fine del Governo delle Provincie Unite, che si era costituito il 4 marzo e che è stato letto come la prima forma moderna si stato laico liberamente creata in Italia, segnò anche la fine di quella rivoluzione. Colpiti dalla “nuova restaurazione” molti professori compromessi nei moti vennero allontanati dall’Università: Paolo Costa prese la via dell’esilio, a Orioli, Silvani, Lapi, Ghepardi, Ferrucci e Feletti venne sospeso lo stipendio. Il 5 ottobre, mentre restava confermata la sospensione per Orioli e Silvani, gli altri furono riammessi all’insegnamento. Paolo Costa potè tornare a Bologna nel 1832 con l’obbligo di residenza nella sua villa di campagna e con il divieto di rientrare in città. Nella sua villa “Il Cipresso”, il professore che tanta parte aveva avuto nei moti del 1831 aprì un cenacolo di intelletti da formare e di lì passarono Antonio Montanari, Rodolfo Audinot, Marco Minghetti, Cesare Mattei, tutti destinati a divenire dei protagonisti della storia del movimento liberale negli anni del Risorgimento. Alla rivoluzione del 1831, del resto, si erano formati molti di quelli che furono partecipi dei moti risorgimentali, dai fratelli Muratori, noti per il moto di Savigno del 1843, ad Angelo Masina, morto alla difesa della Repubblica Romana del 1849, a Giuseppe Petroni, a Rodolfo Audinot, ad Augusto Aglebert.
Poi venne il 1848 quando una nuova ondata rivoluzionaria travolse l’Europa e per l’Italia si apriva la stagione delle guerre risorgimentali: le cinque giornate di Milano, la proclamazione della Repubblica di Venezia e le agitazioni nelle principali città furono la premessa della prima guerra d’indipendenza, che seppur sfortunatissima sul piano militare, pose le basi per l’unificazione nazionale.
In questo quadro si svolse una vicenda tutta bolognese (Nota 15). La mattina dell’8 agosto 1848, a due settimane dalla cocente sconfitta piemontese a Custoza, nei pressi di porta San Felice un drappello di soldati austriaci ingaggiò, quasi per caso, tra caffè e osterie, una scaramuccia con alcuni popolani del Pratello, i quali incontrarono la solidarietà degli abitanti di via delle Lame e di Riva di Reno. In quel quartiere tutti avevano le armi perché lavandai e lavandaie ne facevano uso ricorrente per salvaguardarsi dai furti di biancheria loro affidata dai cittadini abbienti. Tra vecchie povertà e nuovo patriottismo in poche ore prese corpo una vera e propria sommossa popolare che culminò, tra porta Galliera e la Montagnola, con la cacciata delle truppe austriache. Fu soprattutto un moto popolare, del resto gran parte dei giovani rappresentanti della borghesia e delle aristocrazia liberale era impegnata sui campi di battaglia, a “sostituirli” furono le donne che, come la marchesa Carolina Tattini Pepoli, scesero in strada a montare le barricate.
La giornata dell’8 agosto è rimasta nella memoria dei bolognesi come il più importante avvenimento cittadino del Risorgimento, divenendo nei decenni che seguirono l’unificazione una delle più importanti ricorrenze civili della città.
Dopo l’8 agosto 1848 i bolognesi parvero essersi assopiti e aver accettato rassegnati il governo papalino e il presidio austriaco. In realtà nei suoi uomini e nelle sue donne andava crescendo un’energia propositiva pronta a manifestarsi al primo momento utile.
Del resto dal 1858 a Bologna, grazie a uomini come Luigi Tanari, Camillo Casarini, Pietro Inviti, aveva preso forza il Comitato rivoluzionario della Società Nazionale (Nota 16) diramatosi anche nelle Romagne. In città l’adesione al movimento comprendeva un arco di forze politiche che si estendeva dai liberali progressisti ai democratici e nella primavera del 1859 la Società Nazionale poteva contare già su alcune migliaia di militanti e progressivamente l’intera cittadinanza divenne gradualmente consapevole di un vasto movimento che si opponeva a un potere politico ormai del tutto squalificato. Nei salotti come nei caffè cittadini si tenevano incontri e riunioni politiche; allegre passeggiate sui colli mascheravano severe esercitazioni militari della gioventù liberale; al piano terreno di via Castiglione 6, in un locale di Palazzo Pepoli con apertura sul grande cortile interno, nel fondaco di legnami di Cesare Ghedini si raccoglievano armi e munizioni.
Quando il 25 aprile giunse notizia dell’ultimatum dell’Austria al Regno di Sardegna, la città si animò di «crocchi» di persone sollecitate da «un interesse generale per la causa italiana» e manifestazioni di entusiasmo seguirono dopo la vittoria dei franco-piemontesi a Magenta. Intanto all’interno del Comitato bolognese si apriva la discussione sul futuro della città: se unanime fu la decisone di impadronirsi del potere e di invocare immediatamente la dittatura di Vittorio Emanuele in vista dell’annessione al Regno sardo, più sofferta la necessità di contenere gli impeti rivoluzionari e radicali a fronte di una linea politica che richiedeva (o imponeva) risposte di equilibrio all’evolversi degli eventi. Da quei dibattiti uscirono i nomi di quelli che avrebbero dato vita al primo Governo provvisorio nella città liberata, di fatto un abile dosaggio diplomatico tra le esigenze interne e quelle esterne: Gioacchino Napoleone Pepoli era la garanzia offerta a Napoleone III, Luigi Tanari e Camillo Casarini rappresentavano l’organizzazione insurrezionale, Giovanni Malvezzi era l’uomo del liberalismo legalitario gradito al Minghetti, il neoguelfo moderato Antonio Montanari, infine, la garanzia offerta ai cattolici.
Nelle prime ore della notte del 12 giugno gli austriaci uscirono dalla città, mentre i futuri uomini di governo vegliavano a Palazzo Pepoli. Alle prime luci dell’alba i bolognesi cominciarono a uscire nelle strade, a riempire le piazze, a occupare le porte della città, le carceri e le sedi delle rappresentanze del governo. Giunsero poi in piazza i membri della Giunta provvisoria; venne tolta dal palazzo del governo l’insegna pontificia al cui posto fu innalzata la bandiera tricolore. Il cardinal legato lasciava la città per raggiungere Ferrara. Tutto si svolse sotto il segno di una entusiasta tranquillità. La Giunta provvisoria di governo, rilevando una pesante eredità, vegliò al mantenimento dell’ordine che non fu mai turbato né quel giorno né poi. Bologna si lasciava alle spalle tre secoli di governo pontificio e, anche se sarebbero dovuti passare ancora nove mesi prima di giungere all’annessione al Regno sardo, sin da quel 12 giugno, diversamente dal 1831 e dal 1848, i bolognesi furono certi che il governo pontificio era cessato per sempre. Fu un cambio pacifico, corrispondente alle ispirazioni politiche maturate negli animi dei cittadini e della classe dirigente, desiderosi tutti di preparare e attuare questo rivolgimento nell’unico modo capace di ottenere successo, offrendo cioè a Napoleone III una concorde dimostrazione di volontà popolare tale da impedirgli valide giustificazioni per opporsi a un intervento piemontese nelle Romagne (Nota 17).
Nel 1860, infine, Bologna entrava nel nuovo Regno. Il 1° marzo Farini convocava i comizi elettorali per l’11 e il 12 successivi; gli elettori erano chiamati a votare su due proposte: «Annessione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele. Ovvero regno separato». Nel testo – richiamati i voti precedentemente espressi dalle assemblee «considerando che le Assemblee convocate a Modena, Parma e Bologna deliberarono a suffragio unanime l’annessione alla Monarchia costituzionale di casa Savoia» – si affermava che era venuto il momento di consultare liberamente il popolo «con ogni ampiezza di forme legali, ed anche in confronto di un’altra proposta discussa in Europa, mentre si ha sicurtà che, qualunque sia il voto popolare esso sarà rispettato e fatto rispettare» e si rispondeva a eventuali obiezioni politiche «considerando che in questo modo si toglie ogni dubbio all’Europa sulla piena libertà dei voti precedenti, e sulla sincerità e costanza della volontà nazionale» (Nota 18).
Erano chiamati a dare il loro voto tutti i cittadini maschi di 21 anni compiuti e godenti dei diritti civili, intendendo in tal modo sollecitare le popolazioni a esprimersi circa la volontà relativamente ai loro futuri destini, misurando al contempo l’esistenza di una diffusa coscienza nazionale.
L’8 marzo, a Bologna, il senatore Luigi Pizzardi faceva diffondere in tutta la città un manifesto in cui, oltre a ribadirsi la solennità dell’atto cui si veniva chiamati, si indicavano le sedi dove si sarebbe votato: luoghi pubblici come la Sala dei Notai e la sala del Liceo comunale, ma anche e soprattutto case private che gli esponenti della democrazia liberale bolognese avevano aperto ai votanti: palazzo Loup, palazzo Cospi, palazzo Pepoli Vecchio, palazzo Pepoli detto delle Catene, palazzo Borghi, palazzo Tanari, casa Pellagri, fabbricato del signor Franceschini, casino del marchese Banzi.
Nella circolare, già citata, del 4 marzo precedente Camillo Casarini aveva anche sottolineato quale fosse il comportamento da tenere: i bolognesi dovevano andare alle urne con sul cappello coccarde tricolore portanti la scritta annessione, gli studenti e le corporazioni degli artigiani e degli operai dovevano andare “in corpo” con le proprie bandiere, le campane cittadine dovevano suonare e bande musicali dovevano accompagnare i cortei dei votanti. E così fu. A Bologna, su una popolazione di 370.762 abitanti, i votanti furono 76.500: 76.276 votarono per l’annessione, 63 per il regno separato, 161 i voti nulli. Il sì all’annessione fu plebiscitario in tutte le ex Legazioni e il 18 marzo successivo Farini era a Torino per presentare i documenti a Vittorio Emanuele che firmava il decreto di avvenuta annessione.
Il 25 marzo si tennero le prime elezioni al Parlamento che videro il prevalere dei moderati Marco Minghetti, Gioacchino Napoleone Pepoli, Rodolfo Audinot, Carlo Marsili. Minghetti era, fra questi, il politico che aveva vissuto più direttamente, dall’epoca del costituzionalismo pontificio, l’evoluzione del liberalismo moderato fino a divenirne uno dei maggiori rappresentanti. Più volte ministro, due volte presidente del Consiglio e, più tardi, protagonista con Depretis della svolta trasformista, partecipò a quel ristretto gruppo di potere, la “consorteria” come venne definita dagli avversari politici, che ebbe, dopo la morte di Cavour, un forte peso nella costruzione del nuovo Stato. Ciò determinò un’incrinatura nei suoi rapporti con Bologna e con quella élite che deteneva il diritto di voto e che nelle elezioni del 1869 finì col preferirgli il democratico Giuseppe Ceneri inducendolo a optare, di lì in avanti, per il collegio di Legnago.
Quella primavera del 1860, piena di intensi eventi e di forti emozioni, si chiuse con una serie di festeggiamenti per la venuta a Bologna del nuovo sovrano.
I bolognesi lo accolsero il pomeriggio del 1° maggio alla barriera di porta Santo Stefano. Il corteo reale si snodò lungo strade imbandierate, ad accompagnarlo fino alla piazza del Mercato già rinominata piazza Vittorio Emanuele, erano state chiamate diverse bande musicali. Dopo l’arrivo in piazza, nella basilica di San Petronio si tenne un solenne Te Deum. In serata grandiose luminarie vivacizzarono il centro cittadino. Le case dell’aristocrazia e della ricca borghesia si aprirono al sovrano, in suo onore nei teatri si svolsero feste e rappresentazioni musicali; le donne emiliane gli offrirono una bardatura completa per il cavallo; il 3 maggio si svolse una solenne parata nei giardini della Montagnola; il giorno successivo, accompagnato da una folla plaudente Vittorio Emanuele percorse per l’ultima volta le vie cittadine per recarsi alla stazione e lasciare la città. Certamente quei giorni, così come scrisse nella sua Cronaca Enrico Bottrigari rimasero nel cuore dei bolognesi che si aprivano a una nuova storia:

Oggi il nostro Re è partito da Bologna, lasciando immenso desiderio di sé, e portando seco l’affetto più sincero e le benedizioni più giuste di tutta la popolazione, che se era entusiasta per Lui, ora l’entusiasmo è aumentato d’assai, dacché s’ebbe la fortuna di ammirare il suo volto franco e leale, trovando Sua Maestà affabile e benigno con tutti […]
Bologna serberà eterna memoria delle feste e delle gioje che provò in questi giorni. La molta gente del contado e delle città vicine tornando alle case loro le racconteranno con meraviglia; e le madri narreranno ai loro figliuoli i conforti e la letizia che provarono vedendo la prima volta il Re, e loro insegneranno a benedirlo (Nota 19).

Ben presto però agli entusiasmi che avevano chiuso la fase risorgimentale subentrò, specie tra gli strati meno abbienti, una crescente delusione per la mancata traduzione del rivolgimento politico in vantaggi economici e all’esaltante primavera fece seguito un grigio autunno in cui esplose il malcontento della classe popolare. Il settembre bolognese fu caratterizzato da tumulti esplosi per una riduzione dei prezzi dei generi alimentari; ancora per tutto il 1861 e il 1862 le piazze si riempirono di cittadini non più festanti ma scontenti: uomini e donne assaltarono le botteghe dei pastai e i forni dettando loro i prezzi dei generi alimentari e chiedendone ribassi consistenti e duraturi.
Passato questo difficile momento, Bologna scoprì di fatto che la realtà era diversa da quella tanto sognata: dopo essere stata diretta protagonista delle lotte risorgimentali e dopo aver conquistato con l’iniziativa dei suoi cittadini l’inserimento nella nuova comunità nazionale, la città tendeva a riprendere una fisionomia politica localistica senza particolare rilevanza nei confronti del governo nazionale.

 

NOTE:

 

Nota 1. A. Varni, Bologna napoleonica, Bologna, Boni 1973; U. Marcelli, Movimenti politici a Bologna durante la Rivoluzione francese e l’impero napoleonico, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», a. 5 (1960), pp. 177-199. Torna al testo.

 

Nota 2. G. Cavazza, Bologna dall’età napoleonica al primo Novecento, in A. Ferri, G. Roversi (a cura di), Storia di Bologna, Bononia University press, Bologna 2005, pp. 259-347. Torna al testo.

 

Nota 3. Cfr. R. Finzi (a cura di), Fra studio, politica ed economia. La Società agraria dalle origini all’età giolittiana. Atti del 6° Convegno, Bologna, 13-15 dicembre 1990, Istituto per la Storia di Bologna, Bologna 1992. Torna al testo.

 

Nota 4. L. Dal Pane, La vita economica e sociale a Bologna, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», a. 5 (1960), p. 81; dello stesso autore cfr. Economia e società a Bologna nell’età del Risorgimento, Zanichelli, Bologna 1969. Torna al testo.

 

Nota 5. M. Minghetti, I miei ricordi, vol. I, Roux, Torino 1888, p. 222. Torna al testo.

 

Nota 6. Cfr. A. Varni, Storia della Cassa di Risparmio in Bologna, Laterza, Roma-Bari 1998. Torna al testo.

 

Nota 7. Cfr. G. Porisini, Condizioni monetarie e investimenti nel bolognese. La banca delle quattro legazioni, Zanichelli, Bologna 1969. Torna al testo.

 

Nota 8. M. Calore, Bologna a teatro. L’Ottocento, Guidicini e Rosa, Bologna 1982; M. Gavelli, F. Tarozzi (a cura di), Risorgimento e teatro a Bologna. 1800-1848, Pàtron, Bologna 1998. Torna al testo.

 

Nota 9. E. Musiani, Circoli e salotti femminili nell’Ottocento. Le donne bolognesi tra politica e sociabilità, Clueb, Bologna 2003. Torna al testo.

 

Nota 10. U. Marcelli, Popolo e idee nei moti del 1831, Agnesotti, Viterbo s.d., p. 11 (estratto da Atti del secondo Convegno interregionale di storia del Risorgimento). Torna al testo.

 

Nota 11. F. Manaresi, Francesco Orioli e la rivoluzione del 1831, Analisi, Bologna 1990 (pubblicato a cura del Comitato di Bologna dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano). Torna al testo.

 

Nota 12. M. Gavelli, F. Tarozzi, La Legione Pallade: studenti e professori dell’Ateneo bolognese nella rivoluzione del 1831, in L. Pepe (a cura di), Universitari italiani nel Risorgimento, Clueb, Bologna 2002, pp. 41-57. Torna al testo.

 

Nota 13. G. Natali, Intorno ai moti del 1831 in Bologna, Stabilimenti poligrafici riuniti, Bologna 1931, pp. 4-5. Torna al testo.

 

Nota 14. G. D. Leoni, Giornalismo bolognese nel febbraio-marzo 1831, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. IV (1932), pp. 111-115; B. Biancini, Trecent’anni di Giornalismo a Bologna. II. Dalla Restaurazione al Quarantotto (Giornali politici e d’informazioni), in «Il Comune di Bologna», VII (1936), pp. 20-21. Torna al testo.

 

Nota 15. M. Gavelli, O. Sangiorgi, F. Tarozzi (a cura di), Un giorno nella storia di Bologna, l’8 agosto 1848. Mito e rappresentazione di un evento inaspettato, Vallecchi, Firenze 1998. Torna al testo.

 

Nota 16. Cfr. G. Cavazza, A. Bertondini, Luigi Tanari nella storia risorgimentale dell’Emilia-Romagna, Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1976. Torna al testo.

 

Nota 17. F. Tarozzi, I plebisciti nelle ex legazioni pontificie e nei Ducati, in S. Rogari (a cura di), La Toscana dal governo provvisorio al Regno d’Italia: il plebiscito dell’11-12 marzo 1860. Atti della Giornata di studi, Biblioteca nazionale centrale, Firenze, 26 febbraio 2010, Polistampa, Firenze 2011, pp.107-122. Torna al testo.

 

Nota 18. Raccolta degli atti governativi pubblicati nelle provincie delle Romagne e dell’Emilia. Dal 12 giugno 1859 al 18 marzo 1860, Recchioni, Bologna 1860, pp. 627-630. Torna al testo.

 

Nota 19. E. Bottrigari, Cronaca di Bologna, vol. III, 1860-1867, a cura di A. Berselli, Zanichelli, Bologna 1961, pp. 55-56. Torna al testo.

 

Questo saggio si cita: F. Tarozzi, Il contesto storico-sociale bolognese nella stagione del Risorgimento, in «Percorsi Storici», Serie Atti Numero 1 (2012) [http://www.percorsistorici.it/numeri/serie-atti-numero-1/titolo-e-indice/13-numeri-rivista/serie-atti-numero-1/46-fiorenza-tarozzi-il-contesto-storico-sociale-bolognese]

 

 

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