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Giorgio Marcon
Carlo Pepoli esule: i testi in prosa
Carlo Pepoli è «noto oggi soltanto per la dedica di un canto leopardiano»: così dichiarava Carlo Dionisotti in limine a una prolusione in lingua inglese – letta dallo stesso Pepoli a Londra nel 1838 – intorno alla tradizione del linguaggio letterario italiano (On the language and literature of Italy) (Nota 1).
In quella sede, il conte bolognese, subentrato ad Antonio Panizzi sulla cattedra di lingua e letteratura italiana all’University College, menzionava il contributo degli esuli alla «nuova letteratura della rivoluzione», giusta una formula carducciana estesa ai «quarant’anni di ravviamento, di svolgimento, di risolvimento» (Nota 2) che scandiscono l’ultimo periodo della storia risorgimentale, compreso fra il 1830 e il 1870.
La prolusione londinese, non confluita nell’edizione zanichelliana delle Prose e Poesie (Nota 3), datata 1880 e corredata da un’appassionata prefazione di Cesare Albicini, avrà certamente condiviso con gli altri testi in prosa le stesse tonalità ideologiche, animate dagli ideali di libertà, di «nostalgia dell’antico», dall’«idea di perfezione, di serenità e di vigore perduti»» (Nota 4).
Tutto ciò nel solco di un classicismo retorico che, tuttavia, dispiega, a tratti, significative aperture romantiche, diversamente dai testi poetici in cui retorica e classicismo appaiono assolutamente cristallizzati; aperture antropologicamente fondate, come vedremo, sulle radici idiomatiche della lingua materna.
La maggiore vitalità della prosa in rapporto alle implicazioni politiche e patriottiche del discorso letterario era stata sottolineata dallo stesso Leopardi in una lettera inviata da Bologna, nel giugno del 1826, all’amico recanatese Francesco Puccinotti, per il cui tramite Leopardi suggeriva a Caterina Franceschi Ferrucci quanto segue:
Se i tuoi consigli possono, come credo, nell’animo suo, confortala caldamente, non dico a lasciare i versi, ma a coltivare assai la prosa e la filosofia. Questo è quello che io mi sforzo di predicare in questa benedetta Bologna, dove pare che letterato o poeta, o piuttosto versificatore, sieno parole sinonime. Tutti vogliono far versi, ma tutti leggono più volentieri le prose […] Andando dietro ai versi e alle frivolezze (io parlo qui generalmente), noi facciamo espresso servizio ai nostri tiranni, perché riduciamo a un giuoco e ad un passatempo la letteratura dalla quale sola potrebbe aver sodo principio la rigenerazione della nostra patria (Nota 5).
Confortato, a mia volta, dall’esortazione leopardiana, estrapolerò dalla citata edizione zanichelliana del 1880, ultima in ordine di tempo, ma, purtroppo, criticamente inaffidabile e pullulante di refusi, i nuclei fondanti, e fra loro interconnessi, di tre discorsi accademici: Della Scuola bolognese di pittura, Di taluni canti dei popoli, Di taluni classici scrittori italiani.
Inizierò dal discorso accademico intorno ai canti dei popoli, dove già campeggia il nesso inscindibile tra la specificità della lingua musicale e il suo carattere idiomatico, attraverso cui il popolo proietta nella musica «lo spirito della sua mente, de’ suoi costumi, della sua lingua; fa il ritratto di sè medesimo» (Nota 6).
Presso ogni popolo – soggiunge Pepoli – Musica e Danza hanno carattere proprio; anzi s’intrinsecano al sentimento ed entusiasmo d’ogni uomo: e solo chi le professa può dir ciò che prova conformemente alla sua indole. Più un popolo possiede particolarità, tanto più avrà musica distintiva nei canti nazionali. Quasi proprietà di paese, e di famiglia, sono essi eredità, che passa dai padri ai figli: tali canti sono semplici, intelligibili, pieni di sentimento naturale e di possanza (Nota 7).
Ebbene, questo tratto idiomatico promana da Dio stesso, il quale l’avrebbe adibito «per designare manifesta l’individua indipendenza delle varie nazioni, le quali (pari a famiglie viventi nella stessa città) sono tutte insieme legate co’ vincoli di civiltà, ma nessuna è schiava dell’altra; Iddio largiva ad ogni popolo una fisionomia, un linguaggio» (Nota 8).
Nella scia di questo principio idiomatico delle identità linguistiche nazionali – originariamente sottratte a ogni forma di schiavitù – che costituirà il punto di connessione dei tre nuclei tematici (musicale, pittorico e letterario), il discorso accademico del Pepoli sui canti popolari dischiude nel contempo pregnanti prospettive etnomusicologiche, quando esso spazia oltre i confini dell’Europa e approda in Asia, «già nido primiero del genere umano», in cui ciascun popolo ha un proprio sistema musicale:
Gl’indiani si ebbero da Brama la scienza armonica; da Seraswati, Dea della parola, essi furono donati dell’arte del canto […] stimano essere concordanti le musicali con le astronomiche leggi […] l’analogia di tali idee, e sistemi, sia cogli Egiziani, sia coi Cinesi, ne induce a travedere quasi una comune origine, o forse una tradizione da popolo a popolo (Nota 9).
Pepoli sostiene, inoltre, che il costitutivo idioma monosillabico dei cinesi manifesti (unitamente agli strumenti musicali, che stabilirebbero con quello stesso idioma un preciso parallelismo fonico) un ethos che si «pompeggia più nazionale», declinandosi come «Musica di concordia o Musica eccitatrice», oppure assumendo «altre speciosità di nomi, secondo le festività popolari alle quali presiede» (Nota 10).
Ethos che acquisisce la sua massima intensità nel mondo greco, in cui la musica intrecciata alla poesia «fu maestra dell’emancipazione mentale, che è sempre madre di libertà», oppure s’intride di cifre allegorico-politiche, ascrivibili a un orizzonte mitico che s’identifica con l’orfismo:
Non è dunque a stupire se sbocciarono favolosi prodigi, siccome il camminar delle selve dietro le orme di Orfeo; lo innalzarsi delle mura Tebane in mercé del suono della cetra di Anfione: e l’obbedienza dei delfini al cantare di Arione. Ma in questi ed altri favoleggiamenti, sonovi allegorie maestre di gravi cose, e che palesano gli stupendi effetti della musica sui costumi e sulla politica di quelle repubbliche (Nota 11).
Ma l’essenza della musica si configura anche come «Archetipa Idea che regge e governa l’intero mondo», e qui Carlo Pepoli riannoda, nel solco di Pitagora e Platone, le categorie di un classicismo estetico imperniato, nella fattispecie, sull’idea di un’Armonia cosmica originaria, che, «congregando in unità di concetto le cose tutte, ne desta la favilla di vita e beltà», e suscita effetti onomatopeici nel corpo sonoro della parola poetica sulla falsariga di un verso di Ennio tratto dagli Annali («At tuba terribili sonitu taratantara dixit»), quale specimen di armonia imitativa per significare il clangore delle trombe («Ma la tromba con terribile suono emise il suo taratantara») (Nota 12).
E sull’assolutizzazione di queste stesse categorie si fonda il primato estetico accordato, nel tratto conclusivo del discorso accademico, alla lingua musicale e, insieme, materna.
Preannunciato da una rapida elencazioni dei tratti pertinenti (fonici e prosodici) che conferiscono un maggior tasso di armonica proporzione alla lingua musicale e che pertengono all’italica lingua con cui la prima s’identifica totalmente, tale primato filtra attraverso la metafora del Sole, adottata anche da Platone nella Repubblica, ma attribuita alla luce e alla visione del bello subordinato al bene: in questo frangente, Carlo Pepoli incorpora la metafora nel tessuto di una vibrante voce corale: «Noi con molta caldezza di amor nazionale gridammo ch’egli è vero, il Bello assoluto, come il Sole, appartenere a tutte le epoche, a tutte le contrade. Ma il Sole pari al Bello vuol giocondare de’ suoi raggi non tutti egualmente gli angoli della terra; e su la nostra Italia versaronsi a inenarrabile generosità» (Nota 13).
La solarità metaforica si era già irraggiata nel saggio Della scuola bolognese di pittura, dove essa si amalgamava a un icastico autoritratto verbale, che fungeva da viatico al discorso sulla pittura bolognese:
Io sono bolognese e n’ho vanto, in quanto che sono italiano; nome per gloria e sventure, assai venerando. Il perché s’io ragiono di questa scuola è solo che dall’abbondanza del cuore parla la lingua nel vedere dalle nostre cose quanto popolo levassi a giovare la gloria nazionale delle Arti, quella gloria che sfolgorante in Italia, fu Sole in tutti i lati dell’universo (Nota 14).
Qui affiora un nesso molto preciso tra la lingua materna e il suo irradiarsi nello spazio interiore del cuore che custodisce la memoria storico-culturale della gloria nazionale, vivificata, nel caso specifico, dalla scuola pittorica bolognese.
L’unificazione del tratto idiomatico locale con quello nazionale, sul fondamento della lingua materna (in anni successivi Pepoli, insegnante universitario di filologia, estenderà il suo discorso al dialetto, anche attraverso la sua esperienza traduttoria in bolognese del Vangelo secondo Matteo), comporta una dimensione esistenziale che accomuna tutti gli esuli.
Dimensione strettamente associata all’identità linguistica e sottostante alla triplice relazione tra la lingua, il cuore e la memoria storica, indicata dal Pepoli nel brano sopra citato; su questo specifico nesso si è recentemente intrattenuto Maurizio Bettini in un saggio intorno alla tematica dell’esilio nel contesto della cultura romana, là dove la “facoltà spirituale”, che intesse la “capacità linguistica” e gli stessi processi mnemonici, era localizzata nel cor.
Vale la pena di ricordare, infatti, che questa importanza del cor nella rappresentazione romana delle facoltà spirituali spiega anche perché l’azione del “ricordare” – ossia del rendere attivo il serbatoio di memorie e di conoscenze posseduto da ciascuno di noi – venga espressa tramite il verbo recordor. Ora, il prefisso re- esprime l’azione di “ritornare all’indietro”, e quindi, in alcuni casi, quella di “ristabilire una relazione con” qualche cosa. Di conseguenza, re-cordor significa propriamente «ristabilire una relazione attraverso il proprio cuore», ovviamente nel senso di «ristabilire una relazione attraverso le proprie facoltà spirituali, la propria autocoscienza» (Nota 15).
Lungo queste direttrici si snoderà il saggio sulla pittura bolognese, nella prospettiva di una rifondazione estetica dell’autocoscienza nazionale che dovrà focalizzarsi anzitutto sull’acquisizione di una solida formazione storica, così formulata dal Pepoli all’indirizzo del mondo giovanile:
E se amate le Arti […] acconciate le vostre menti ad ogni buona dottrina, e soprattutto apprendete l’Istoria, senza cognizione della quale, al dire di Cicerone, l’uomo si rimane sempre fanciullo. Ma riponete negli animi vostri […] questo mio detto: che se a voi è profittevole lo studiare le storie degli altri popoli, a voi è obbligo santo sapere a mente la storia vostra italiana per tradurla in pittura: insegnando ciò che fummo, ciò che siamo, ciò che dovremmo essere. – Questo fate. Aprite gli orecchi ai consigli della sapienza, guardate con grandi occhi a tutti coloro che furono specchio al mondo nell’arte della Pittura: emulate sempre ogni ragione de’ loro studi, ma non imitate giammai servilmente nessuno (Nota 16).
Il passo citato instaura dunque un rapporto di tipo didattico tra la memoria storica e la sua traducibilità in pittura, deputando l’idioma iconografico alla rappresentazione allegorica di una serie di paradigmi patriottici in funzione antitirannica, dislocati in diacronia nell’ambito della gloriosa e virtuosa tradizione culturale italica.
Ecco comunque una breve sequenza di pannelli iconografici:
Fra le tante accuse che ci gravano, l’una si è che non facciamo rivivere abbastanza coll’Arte i gloriosi antichi fatti. La storia, ti ripeterò, la storia prendi a maestra […] È mio intendimento che il tema sia pittoresco ed istorico […] Vuoi salire all’età antica? Spartaco, il quale rotti li ferri proclamata il primo la redenzione degli schiavi, sbaraglia le falangi romane […] Catone, che per la libertà rifiuta la vita […] Hai l’ardore di porre in pittura gravi fatti d’età meno vecchie? […] Vuoi cominciare al di là del mare? Affigura quel vespero,che suonò ultimo alle migliaia stranieri, e terribilmente vendicò Sicilia. Tocchi Napoli? E sotto quel cielo di Paradiso dipingi Masaniello trionfale, e gli semignudi pescatori, con il folto popolo che salvatore lo grida. Vedi Roma? La vuoi retta a popolo? Colorisci Cola di Rienzo togato, che fa parlamento e rimbrotta i discendenti di Romolo tornati in bastardi (Nota 17).
L’excursus iconografico attinge infine una connotazione speculativa quando gravita più propriamente intorno allo stile idiomatico del discorso pittorico, correlandosi a una sorta di svelamento filosofico della verità in pittura, la quale è «ben lontana dall’esibirsi nuda in un quadro», mentre configura immagini sdoppiate:
Con quanti atteggiamenti di varie età, forti e pietose passioni di vivi, e morti; d’ignudi corpi, o coperti di svariate vesti e armadure; con campi selvatici ombrati a fosco, ovveramente nobilissimi, e lumeggiati a gran luce in armonia del subietto, tu puoi condurre pitture di grave ammaestramento, meritando a chi le condusse nome non di semplice pittore, ma di solenne filosofo! (Nota 18).
Ma altre “facoltà spirituali” concorrono a diseppellire la «fiamma d’amore delle Arti, cioè del Bello», «accesa sotto le ceneri»: esse si coagulano intorno all’endiadi stilnovistica di gentilezza, e nobiltà, costituitasi nell’«aspro dugento», nonché all’eco dantesca dell’intelletto d’amore, qui coniugato con la carità della patria.
Quest’ultimo connubio è sotteso anche a una poesia gnomica trecentesca del cancelliere bolognese Graziolo Bambaglioli che Pepoli, su segnalazione di Giulio Perticari, cita in quanto essa testimonia la centralità dell’Amore nello stesso contesto etico-politico dell’età medievale: «Le cose basse e di poca potenza / Amor le fa possenti, amor l’essalta. / Quanto il baron à dignità più alta / Senza verace amor, più basso scende; / Perché sanza unitate / Regno diviso mai non si diffende. / O nobil caritate, / Sol di ragion amica, / Honestà e vertù sol ti nutrica» (Nota 19).
A distanza di anni e precisamente nel Discorso proemiale letto nella R. Università di Bologna nel 1866, Carlo Pepoli riproporrà i versi appena citati, accentuandone l’interpretazione ideologica: «Ei seppe […] elevare il verso a documento politico. Il venerando poeta sino dal mezzo della nebulosa età gridò a noi italiani di star uniti […] Dalla favilla dunque dell’antico sapere pigliate, o giovani, lume per la vita nova, sublimando il ministerio dello scrittore ad Apostolato civile» (Nota 20).
Non posso congedarmi da questo secondo discorso accademico, senza soffermarmi su un passo in cui Carlo Pepoli affronta le problematiche dei beni culturali e della loro tutela, conservazione e valorizzazione:
Simone (dei Crocefissi), Cristoforo (di Jacopo) e Jacopo (Avanzi), che insieme ad altri vecchi pittori trassero bambina l’arte della pittura nella chiesetta di Mezzaratta ove dipingendo quasi diresti a far prova, offerirono materia a tante disputazioni archeologiche. […] questa chiesetta è venuta adesso alle mani di tal padrone, che amando le cose italiane (si trattava di Marco Minghetti, poi divenuto Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale restaurò l’oratorio nel 1838), sarà tocco dalla riverenza che ispirano anche le cose già mezzo guaste, e consumate, come si tengono a buon riguardo le tarlate pergamene e le medaglie logore allorché sono argomento di storia nazionale (Nota 21).
Nell’ultimo discorso accademico del trittico, Di taluni classici scrittori italiani, le vive fonti dell’idioma si rinvigoriscono alla luce dell’aureo paradigma della lingua trecentesca, fondato sui valori espressivi del linguaggio e sull’ideale di bellezza eloquente, in cui
il culto della forma – come chiarirà Benvenuto Terracini – non era una semplice idea, o scuola, o un genere letterario […] ma costituiva il carattere dominante di una lingua nel pieno significato di questa parola, cioè di una lingua con anima e corpo, portatrice di una forma particolare di cultura vissuta come esperienza da una massa di parlanti – e grandi e piccoli – che ritrovavano in essa la varia e pur concorde espressione della loro personalità (Nota 22).
La lingua madre, storicamente rinvigorita dal paradigma trecentesco, riflette insomma la stessa indole nativa degli italiani, la loro idiomatica modalità di pensiero ed espressione, radicalmente antitetiche alla lingua della tirannide, così stroncata da queste due feroci invettive del conte bolognese:
Le cose discorse additarono alcune vive fonti dell’idioma italiano, alle quali è d’uopo attingere per mondarci dal putridame, che v’infiltrossi, opera dei ladri stranieri dominatori. […] Mettendo in veduta i pregi di taluni classici autori, benedirei la Fortuna, se di essi vi avessi destato vaghezza, o giovani d’Italia qui radunati. Amor di patria mi fece parlare, vedendo in declino gli studi del nostro idioma, e pigliar trono un bastardume di stil francese […] Né vi lasciate cader della mente che lo studiare non è imitare. Laonde, o giovani, studiate i classici tutti, ma non ne imitate servilmente nessuno! (Nota 23)
Il culto del passato istituito con i classici e con il mondo medievale s’impronta ai grandi cantori della libertà, reincarnatisi nei poeti risorgimentali, cui Pepoli attribuisce – al di là degli archetipi e dei valori eterni che qua e là emergono, pietrificando la visione del passato in un eterno presente – una concreta connotazione storica, fondata, come egli stesso annota, su un diagramma diacronico: «Guardate, o Italiani, al passato, meditate il presente, e trarrete materia ad insegnare per l’avvenire» (Nota 24).
Sul versante del passato classico, e segnatamente romano, il culto del Pepoli si sposta gradualmente, senza tuttavia abbandonarla del tutto, dalla codificata visione classicistica – sussunta dagli Archetipi e per la quale i classici costituiscono modelli e norme – a una visione cultuale dell’antico, da cui enucleare germi e valori storicamente sedimentati nel contesto della storia romana: «Come parecchi illuministi e rivoluzionari del Settecento, – ha osservato Antonio La Penna – i nostri patrioti risorgimentali credettero di ritrovare nella Roma repubblicana i loro ideali di libertà e il loro odio dei tiranni; nella Roma antica trovavano una legittimazione al loro sogno di un nuovo primato dell’Italia risorta» (Nota 25).
Anche sull’altro versante, quello dell’età medievale – preminente nell’ispirazione del Pepoli e dell’Italia risorgimentale nel suo insieme, sotto il profilo di una percezione storica, anch’essa depositaria di valori dinamici e progressivi – si stagliavano, come ci ha indicato Dionisotti, «i nostalgici dell’Italia medioevale, repubblicana e guerriera, i lettori ammiratori del Sismondi», i quali «erano prevalsi in tutto lo schieramento politico. La questione anche era linguistica e letteraria» (Nota 26).
Ebbene, la saldatura di questi paradigmi culturali è additata dal Pepoli, dal quale ora ci congediamo, nella figura del Vir probus, in quanto incarnazione del trinomio eroismo-poesia-virtù, soggiacente alla pura eloquenza, dispensatrice di bellezza, verità e giustizia:
Il Vir probus adunque, il quale ha sapienza, ed è niente vago che di Virtù, s’infiamma d’amore del Bello […] guerreggia le bruttezze del male, diffonde le bellezze del bene, ed è agitato di sacra febbre nell’anima, talché dentro lui veramente l’uomo è assunto sovra l’indole umana e, fatto allora quasi divino, lascia spontaneamente sgorgare d’ispirata eloquenza torrenti […] uomo ispirato, che senza sperare o lode o premio, o temere la ingratitudine, segue il suo magistero; ed apostolo di bellezza, di verità, di giustizia, è spesso taumaturgo di civiltà (Nota 27).
NOTE:
Nota 1. C. Dionisotti, Ricordi della Scuola italiana, Edizione di storia e letteratura, Roma 1998, p. 196. Torna al testo.
Nota 2. G. Carducci, Del Risorgimento italiano, in Prose di Giosue Carducci. 1859-1903, prefazione di E. Pasquini, Bononia University press, Bologna 2007, p. 1272. Torna al testo.
Nota 3. C. Pepoli, Prose e Poesie, con prefazione di C. Albicini, Nicola Zanichelli, Bologna 1880. Torna al testo.
Nota 4. Le frasi virgolettate sono attinte da A. La Penna, Noi e l’antico, in Id., Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note, a cura di M. Citroni, E. Narducci, A. Perutelli, Sansoni, Milano 1995, p. 10. Torna al testo.
Nota 5. La lettera è citata e valorizzata anche da P. Palmieri, De minimis… Schede leopardiane, in C. Griggio, R. Rabboni (a cura di), Lo studio, i libri e le dolcezze domestiche. In memoria di Clemente Mazzotta, Fiorini, Verona 2010, p. 427. Torna al testo.
Nota 6. C. Pepoli, Prose e Poesie, cit., p. 321. Torna al testo.
Nota 7. Ibidem. Torna al testo.
Nota 8. Ivi, pp. 320-321. Torna al testo.
Nota 9. Ivi, p. 273. Torna al testo.
Nota 10. Ivi, pp. 277-278. Torna al testo.
Nota 11. Ivi, p. 272. Torna al testo.
Nota 12. Ivi, pp. 271, 279. Torna al testo.
Nota 13. Ivi, p. 327. Torna al testo.
Nota 14. Ivi, p. 16. Torna al testo.
Nota 15. M. Bettini, Exilium, in «Parolechiave», 41 (2009), pp. 12-13. Torna al testo.
Nota 16. C. Pepoli, Prose e Poesie, cit., pp. 24-25. Torna al testo.
Nota 17. Ivi, pp. 101-102. Torna al testo.
Nota 18. Ivi, p. 104. Torna al testo.
Nota 19. Ivi, p. 87. Torna al testo.
Nota 20. Ivi, pp. 358-59. Torna al testo.
Nota 21. Ivi, p. 118. Torna al testo.
Nota 22. B. Terracini, I segni, la storia, a cura di G. L. Beccaria, Guida, Napoli 1976, p. 232. Torna al testo.
Nota 23. C. Pepoli, Poesie e Prose, cit., pp. 235, 247-248. Torna al testo.
Nota 24. Ivi, p. 249. Torna al testo.
Nota 25. A. La Penna, Noi e l’antico, cit., p. 5. Torna al testo.
Nota 26. C. Dionisotti, Ricordi della Scuola italiana, cit., p. 272. Torna al testo.
Nota 27. C. Pepoli, Poesie e Prose, cit., pp. 242-243. Torna al testo.
Questo saggio si cita: G. Marcon, Carlo Pepoli esule: i testi in prosa, in «Percorsi Storici», Serie Atti Numero 1 (2012) [http://www.percorsistorici.it/numeri/serie-atti-numero-1/titolo-e-indice/13-numeri-rivista/serie-atti-numero-1/50-giorgio-marcon-carlo-pepoli-esule]