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Bernardino Farolfi
Gioacchino Napoleone Pepoli e i problemi economici dell’Italia unita*
Non si può dire che Gioacchino Napoleone Pepoli, malgrado la varietà dei suoi interessi e l’intensità della sua attività di politico, diplomatico, sindaco, drammaturgo, filantropo, abbia goduto tra i suoi contemporanei di universale simpatia. Nella sua cronaca il Bottrigari lo definiva fin dal 1848 come «molto amante di popolarità» (Nota 1). Luigi Tanari gli attribuiva, nello stesso anno, «vanità sotto il velo di generosità» e nel 1859 ironizzava sulla «balda vanità del marchese» (Nota 2). Il suo primo biografo, Pietro Veroli, riconobbe nel 1881, quando Pepoli era ancora in vita, la necessità di confutare «con documenti autentici e tuttora inediti» quanti accusavano Pepoli di essere stato «murattiano, ambizioso, patriota con secondi fini, servile all’imperatore Napoleone, e che d’altro» (Nota 3). Qualche anno dopo, il terzo volume postumo dei ricordi di Minghetti ne presentava un ritratto impietoso: le indubbie doti dell’ingegno e dell’eloquenza e i legami parentali con i napoleonidi e la dinastia reale prussiana avrebbero preparato a Pepoli un grande avvenire, ma il «difetto della vanità, non trovando nell’animo un forte senso morale che lo frenasse, lo rese torbido, inquieto, invidioso, inframettente, bugiardo; e mentre avrebbe potuto servire degnamente la patria dando esempio di virtù, recò danno agli altri, a sé iattura grande, e finì senza il conforto della pubblica estimazione» (Nota 4).
I giudizi negativi dei contemporanei sono stati spesso accolti, nella sostanza, dalla storiografia. Nella sua biografia di Cavour, Romeo scrive di «pericolose manovre murattiane» che nel periodo precedente l’intervento piemontese in Crimea «facevano capo al marchese Pepoli» (Nota 5). Nella sua storia dell’Italia moderna, ricostruendo la preparazione della Convenzione di settembre, di cui Pepoli fu tra i protagonisti, Candeloro rileva che egli «era uomo vanitoso, fanfarone e capace di prendere iniziative personali inopportune» (Nota 6). Fanno eccezione Giampiero Carocci, che nella sua opera su Depretis definiva Pepoli come un «fedele rappresentante della tradizione illuminata e liberale» e alcuni contributi specifici dedicati a vari aspetti della storia municipale (Nota 7). Il giudizio storico su Pepoli rimane, per così dire, sospeso. L’esemplare riordinamento dell’archivio personale realizzato da Salvatore Alongi consente di approfondire l’istruttoria ascoltando la testimonianza del protagonista (Nota 8). Il filo conduttore dell’archivio è infatti offerto dalle memorie che Pepoli dettò nel 1881, svolgendo una apologia del suo operato che doveva essere corroborata da una serie di documenti che solo in parte vennero allegati ma possono essere sostituiti dai numerosi interventi che Pepoli diede alle stampe nel corso della sua attività politica (Nota 9).
Dopo aver ricordato la sua partecipazione ai momenti salienti del movimento risorgimentale, rivendicando la sua autonomia rispetto alla politica di Napoleone III, Pepoli ricordava nelle memorie come, eletto deputato nel 1860 nel primo Parlamento italiano, «contro l’aspettativa generale prese posto sui banchi del centro sinistro accanto a Urbano Rattazzi e Agostino Depretis. Da questo giorno inizia la continuata serie degli attacchi contro di lui dei così detti consorti che lo considerarono come un disertore della loro bandiera» (Nota 10). L’avversione della “consorteria”, come veniva definita la componente lombarda, toscana e emiliana della Destra storica, trovò probabilmente ulteriori motivi nelle posizioni assunte successivamente da Pepoli intorno ad alcuni dei più rilevanti problemi della vita economica nazionale. Divenuto ministro dell’Agricoltura, industria e commercio nel governo Rattazzi, Pepoli promulgò nel 1862 la legge sull’unificazione monetaria, adducendo a sostegno della scelta del sistema bimetallico basato sulla lira d’argento «le frequenti ed importanti relazioni commerciali che noi abbiamo colla Francia, con la Germania e con altre nazioni che tengono l’argento come moneta legale» (Nota 11). Nello stesso tempo si oppose recisamente alla conclusione del trattato commerciale con la Francia, le cui clausole minacciavano, a suo avviso, la fragile struttura manifatturiera italiana e in particolare l’industria tessile, fino ad allora protetta, del meridione. Come ricordava nelle memorie:
Entrando al Ministero egli trovò quasi condotte a termine le pratiche per il trattato commerciale fra l’Italia e la Francia. Egli rifiutò di firmarlo dichiarandolo lesivo al suo paese. Nigra e Scialoja si sforzarono invano di convincerlo. Egli sosteneva che quel trattato avrebbe coperto di rovine industriali specialmente l’Italia meridionale senza ottenere adeguati compensi per l’incremento della nostra agricoltura. Egli disse al ministro Benedetti che si ingannava grandemente se credeva che essendo congiunto all’Imperatore Napoleone per vincolo di sangue avrebbe trovato in lui maggiore condiscendenza. Scrisse francamente in proposito all’Imperatore ed al ministro Rouher ed uscì dal Ministero senza firmare il trattato (Nota 12).
Caduto il governo Rattazzi, Pepoli iniziò quello che poi definì «il suo apostolato contro la tassa del macinato», di cui Quintino Sella proponeva l’adozione. In una lettera aperta a Sella, pubblicata nel 1865, Pepoli ricordava di aver soppresso la tassa sul macinato come commissario straordinario in Umbria nel 1860, considerandola «una macchia indelebile per il governo papale» e perciò dichiarava di non poterla approvare quando veniva riproposta, pochi anni dopo, da un ministro del Regno d’Italia adducendo inderogabili necessità finanziarie:
Io so bene, signor Ministro, che ella a sostegno delle sue opinioni non esiterà a rammentarmi la necessità delle finanze italiane. Ebbene, benché io sappia che purtroppo questa dottrina della cieca obbedienza alla necessità abbia finora prevalso, io mi affretto a dichiararle che non mi acconcio né mi acconcerò mai ad essa. E quando anche il sistema della necessità prevalesse ciecamente, la necessità dell’erario è forse la sola necessità a cui dobbiamo provvedere? L’Italia ha necessità di essere calma e tranquilla: è nostro obbligo di impedire perturbamenti sociali; abbiamo bisogno che la ricchezza del paese si sviluppi, che il benessere si diffonda, che il salario dell’operaio direttamente aumenti non diminuisca. Abbiamo necessità che il governo mantenga quell’autorità sugli animi, quell’ascendente morale, che è così efficace nei paesi liberi (Nota 13).
Dopo che la crisi finanziaria del 1866 ebbe imposto l’adozione del corso forzoso della moneta cartacea e un inasprimento del prelievo fiscale, l’opposizione di Pepoli, divenuto senatore nel 1868, investì i capisaldi della politica monetaria e finanziaria dei governi della Destra. Il corso forzoso e le continue emissioni di cartamoneta non convertibile e quindi tendenzialmente svalutata determinava un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che gravava specialmente sui redditi più bassi:
Io credo che in Italia non ristabiliremo mai il pareggio economico della Nazione, fino a tanto che i cittadini non lavoreranno tutti, gli uni colla mente, gli altri colla mano, tutti col cuore. Ma, o Signori, il lavoro non ripiglierà l’antico vigore, l’antica fede in sé medesimo fintanto che non elimineremo gli ostacoli che lo frenano, che lo rendono impotente, e lo mantengono inoperoso. Fintanto che la gelida mano del corso forzoso lo preme, esso in Italia non può sorgere, combattere ed espandersi (Nota 14).
Agli effetti depressivi della politica monetaria si aggiungevano quelli dei provvedimenti fiscali proposti e attuati, tra il 1867 e il 1871, dai ministri delle finanze Ferrara, Cambray Digny e Sella, per raggiungere il pareggio di bilancio (Nota 15). In un intervento su Il bilancio d’Italia, che costituisce la più ampia e articolata espressione del suo pensiero sulla questione, Pepoli ne esaminava, in serrata polemica col Sella, tutti gli aspetti. Sul lato delle entrate occorreva certamente contenere le spese, ma a partire da quelle militari che, ridotte dopo la guerra del 1866, potevano essere ulteriormente contenute nella nuova congiuntura creata dalla scelta della neutralità nella guerra franco-prussiana e dalla soluzione della questione romana:
Urgenza quindi di poderosi armamenti non c’è, per cui scongiuriamo Governo e Camere di non lasciarsi trascinare da paure per quanto siano plausibili, sopra un pericoloso pendio. Ma accanto a quelli che in buona fede chiedono gli armamenti per far fronte alle supposte minacce forestiere nella questione romana, vi sono quelli i quali scaltramente approfittano di questo movimento della pubblica opinione per accrescere stabilmente le forze dell’esercito e ciò per due loro fini. Primo, perché temono le insurrezioni popolari e credono che colla forza si mantenga l’ordine. Secondo perché hanno la falsa opinione che la grandezza di un paese si misuri dal numero dei soldati.
Ad essi Pepoli obiettava che «ciò che scredita l’Italia ed impedisce che essa eserciti in Europa quell’influenza morale che l’ampiezza del suo territorio le darebbe diritto di esercitare non è lo scarso e debole esercito, ma è lo stato disastroso delle sue finanze» e che «le insurrezioni si eludono e si vincono con un ben ordinato e razionale sistema d’imposte». Occorreva perciò modificare profondamente il sistema tributario elaborato dai governi della Destra: Pepoli proponeva di accrescere le imposte sugli affari e sui passaggi di proprietà, sulle rendite dei titoli di Stato e sugli utili degli istituti di credito, di sottoporre la proprietà fondiaria all’imposta sulla ricchezza mobile (ossia sui profitti di impresa) oltre che a quella sui terreni, di trasferire alle amministrazioni locali le entrate dei dazi sui consumi, di ridurre le imposte sui generi di prima necessità e soprattutto di abolire la tassa sulla macinazione dei cereali.
L’opposizione di Pepoli derivava dal timore che l’eccessivo peso delle imposte di consumo annullasse le possibilità di risparmio dei ceti popolari e impedisse quelle iniziative solidaristiche che si sviluppavano nei più evoluti paesi europei:
So che i ministri di finanza si preoccupano poco di sapere se l’operaio possa risparmiare: i loro calcoli si limitano a cercare se con quello che guadagna possa pagare le imposte. Noi invece ci preoccupiamo molto dei risultati immensi ottenuti dalle banche popolari e dalle associazioni cooperative in Germania. Esse hanno non solamente risolto la questione economica, hanno eziandio modificato la questione sociale. L’associazione del lavoro ha ucciso l’associazione dell’odio. Schultze Delisch [sic], l’iniziatore delle associazioni popolari, ha esautorato Lassalle, lo sterile agitatore delle plebi tedesche. Ma il grande patriota, il profondo economista, avrebbe egli potuto ottenere in Italia i medesimi risultati ottenuti in Germania? Rispondiamo recisamente di no, poiché in Italia l’operaio non può assolutamente risparmiare, come risparmia in Germania e in Inghilterra, ove l’imposta sul pane, sul sale, sul lotto furono o abolite, o grandemente attenuate, ed ove il sistema delle tasse è più razionale e più armonico (Nota 16).
Negli anni successivi Pepoli cercò di corroborare queste affermazioni con personali ricerche di statistica comparata sull’incidenza delle imposte sui redditi e sui consumi dei ceti popolari. Le imposte sul grano, sul sale, sulle carni, scriveva nei Ricordi statistici, pubblicati nel 1879, in Italia «gravano ogni abitante di L. 7.62 a testa», mentre sono meno onerose in Francia, Austria, Olanda, e sono state abolite in Belgio e in Inghilterra. I prezzi dei prodotti di prima necessità sono al contrario più elevati in Italia: «Il pane di seconda qualità costa in media, nelle nostre principali città, 14 centesimi di più al kilogramma che non costi a Parigi». Poiché i salari sono in Italia più bassi «un operaio in Italia guadagna in media L. 669, e spende nel pane 293 lire. A Parigi guadagna L. 1.200 e spende L. 189.80 nel pane, cioè L. 104 di meno» (Nota 17).
Queste indagini statistiche di Pepoli, che al momento della pubblicazione furono apprezzate da Garibaldi, Saffi, Magliani, presentano un particolare interesse perché ancora oggi, come osservano due storici dell’economia dell’Italia unita, Cohen e Federico «né i critici né i difensori della destra storica sostengono le loro affermazioni con analisi economiche degli effetti delle politiche fiscali sulla distribuzione del reddito» (Nota 18). Queste analisi sono rese difficili dalla scarsa omogeneità delle statistiche del tempo dovuta alla incertezza delle rilevazioni e ai diversi criteri di aggregazione dei dati. Sulla base dei dati analitici forniti da Parravicini si può calcolare che, tra il 1862 e il 1876, le entrate provenienti dal gettito delle imposte di consumo ammontarono a circa 2.362 milioni di lire, pari al 19% delle entrate dello Stato, che raggiunsero in quel periodo i 12.730 milioni: una percentuale non troppo elevata, alla quale occorre tuttavia aggiungere i 3.097 milioni circa forniti dalle privative sul sale, i tabacchi, il lotto e i 710 milioni circa dei dazi di consumo riscossi dai comuni, pari rispettivamente al 24% e al 6% delle entrate complessive (Nota 19). Naturalmente occorre tener conto del carattere particolarmente regressivo delle imposte che colpivano generi di prima necessità, come quelle sul sale e sulla macinazione dei cereali. Gli altri stati europei, che pure ricorrevano più o meno largamente alle imposte di consumo, tendevano ad addossarle a generi considerati voluttuari, come le bevande alcoliche, il caffè, lo zucchero, il cioccolato, il tabacco (Nota 20). Una tendenza che si sarebbe manifestata anche in Italia quando, raggiunta la stabilità finanziaria e salita al potere la Sinistra, tra il 1880 e il 1884 la tassa sul macinato venne completamente abolita e, come anche Pepoli aveva suggerito, il mancato gettito venne compensato con un aumento della tassazione sugli alcolici, il caffè, lo zucchero e il pepe (Nota 21).
Va tuttavia rilevato che l’orizzonte del pensiero politico di Pepoli trascendeva il mero dato statistico ed economico per investire quello che veniva fin da allora percepito dagli esponenti più consapevoli della classe dirigente come il problema cruciale dell’Italia unita: il distacco tra le istituzioni del nuovo Stato unitario e i ceti popolari. Per il liberale Pepoli la soluzione non poteva scaturire tanto da una dilatazione dell’intervento statale, quanto dalle iniziative solidaristiche della società civile, ispirate dal principio di associazione:
Convinto dei grandi pericoli che minacciano la società per le dolorose discordie tra il capitale e il lavoro – si legge nelle ultime pagine delle memorie – egli ha dedicato tutto se medesimo alla soluzione pratica di quella tremenda questione sociale che turba la pace e l’avvenire del mondo. Egli pensò che le Società di M. S. potevano e dovevano essere la base appunto del riordinamento sociale.
Si comprende sotto questa luce la costante attività profusa da Pepoli per la formazione di società di mutuo soccorso, di casse di credito e pensioni per i lavoratori, di magazzini cooperativi e più in generale per l’istruzione elementare gratuita dei fanciulli poveri, per il suffragio universale maschile (Nota 22).
In seno alle Società di mutuo soccorso l’apporto dei filantropi provenienti dai ceti più elevati, variamente definiti come soci fondatori, benefattori, sostenitori venne come noto contrastato da quanti rivendicavano una maggiore autonomia e un aperto impegno politico dei cosiddetti soci effettivi, i lavoratori che effettivamente godevano dei sussidi erogati. Quella che poi sarebbe stata definita “l’azione volontaria” esercitata dai filantropi dei ceti elevati appare tuttavia, alla luce della recente storiografia, come una componente significativa della formazione di un “terzo settore”, rispetto allo Stato e al mercato, indirizzato alla tutela dei ceti più deboli, minacciati dai processi di industrializzazione (Nota 23). Le numerose lettere che artigiani, piccoli commercianti, lavoratori dipendenti inviarono a Pepoli da varie parti della penisola per dichiarare, pur rivendicando in taluni casi la propria diversa fede politica, il loro apprezzamento per la sua opposizione alla tassa sul macinato e per la promozione delle società di mutuo soccorso, ora conservate in una serie dell’archivio personale, dovrebbero essere valutate, accanto ai giudizi espressi dagli esponenti della Destra, per formulare un giudizio equanime su questo discusso protagonista del movimento risorgimentale e della vita politica dell’Italia unita (Nota 24).
NOTE:
*Questo testo verrà pubblicato anche, con titolo leggermente modificato, in «Studi storici Luigi Simeoni», vol. LXII (2012).
Nota 1. E. Bottrigari, Cronaca di Bologna, vol. I, 1845-1848, a cura di A. Berselli, Zanichelli, Bologna 1960, p. 507. Torna al testo.
Nota 2. G. Cavazza, A. Bertondini, Luigi Tanari nella storia risorgimentale dell’Emilia-Romagna, Zanichelli, Bologna 1976, pp. 157, 249. Torna al testo.
Nota 3. P. Veroli, Cenni biografici, in Re e popolo, Discorsi, lettere, scritti di Gioacchino Pepoli, vol. II, Azzoguidi, Bologna 1881, p. XIX. Torna al testo.
Nota 4. M. Minghetti, Miei ricordi, vol. III, 1850-1859, Roux e C., Torino 1890, pp. 153-154. Torna al testo.
Nota 5. R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Laterza, Roma-Bari 1984, p. 34. Torna al testo.
Nota 6. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, La costruzione dello Stato unitario, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 208-209. Torna al testo.
Nota 7. G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Einaudi, Torino 1956, p. 231; F. Tarozzi, Il risparmio e l’operaio. La Banca operaia di Bologna dalle origini al secondo dopoguerra, Marsilio, Venezia 1987, pp. 34-40; A. Preti, Il governo della città dall’Unità alla prima guerra mondiale, in A. Berselli, A. Varni (a cura di), Bologna in età contemporanea 1796-1914, Bononia University press, Bologna 2010, pp. 493-501. Torna al testo.
Nota 8. Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASBO), Gioacchino Napoleone Pepoli, inventario a cura di S. Alongi redatto nel 2010. Torna al testo.
Nota 9. ASBO, Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 15, Fondo personale, Carte politiche, Documenti intorno alla mia vita. Torna al testo.
Nota 10. Ivi, pp. 45-46. Torna al testo.
Nota 11. Progetto di legge presentato dal Ministro d’Agricoltura, Industria e Commercio (Pepoli) nella tornata del 9 giugno 1862, in M. De Cecco (a cura di), L’Italia e il sistema finanziario internazionale, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 79; P. Pecorari, La lira debole. L’Italia, l’unione monetaria latina e il bimetallismo zoppo, Cedam, Padova 1999, pp. 3-4. Torna al testo.
Nota 12. ASBO, Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 15, Fondo personale, Carte politiche, Documenti intorno alla mia vita, p. 61. Torna al testo.
Nota 13. Il macinato. Lettera del deputato Pepoli al ministro Sella, Stab. tip. G. Monti, Bologna 1865, pp. 5-6; R. Zangheri, I moti del macinato nel bolognese, in Id., Agricoltura e contadini nella storia d’Italia. Discussioni e ricerche, Einaudi, Torino 1977, pp. 192-193. Torna al testo.
Nota 14. Discorsi pronunziati dal senatore Gioacchino Pepoli nella discussione del progetto di legge relativo alla circolazione cartacea durante il corso forzoso, Cotta e C., Roma 1874, p. 59. Torna al testo.
Nota 15. L. Marongiu, Storia del fisco in Italia, vol. I, La politica fiscale della Destra storica, 1861-1876, Einaudi, Torino 1995, pp. 163-288; Id., La politica fiscale dell’Italia liberale dall’Unità alla crisi di fine secolo, Olschki, Firenze 2010, pp. 68-101; Id., La politica fiscale della Destra storica, in «Nuova Storia Contemporanea», a. XV, 5 (2011), pp. 33-50. Torna al testo.
Nota 16. G. N. Pepoli, Bilancio d’Italia, in Scritti politici ed economici, vol. I, Zanichelli, Bologna 1874, pp. 608-609, 661-663. Torna al testo.
Nota 17. G. N. Pepoli, Ricordi statistici, Società Azzoguidi, Bologna 1879. Torna al testo.
Nota 18. ASBO, Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 3, Fondo personale, Carteggio, Uomini politici, fasc. 48, Magliani Agostino, Agostino Magliani a Gioacchino Napoleone Pepoli, Roma, 25 luglio 1879; Ivi, b. 4, Fondo personale, Carteggio, Uomini politici, fasc. 211, Saffi Aurelio, Aurelio Saffi a Gioacchino Napoleone Pepoli, San Varano, 8 agosto 1879; J. Cohen, G. Federico, Lo sviluppo economico italiano, 1820-1960, Il Mulino, Bologna 2001, p. 95. Torna al testo.
Nota 19. G. Parravicini, La politica fiscale e le entrate effettive del Regno d’Italia, 1860-1890, Ilte, Torino 1958, pp. 477-493, 501-530, 610; F. Volpi, Le finanze dei comuni e delle province del Regno d’Italia, 1860-1890, Ilte, Torino 1962, pp. 97-103. Torna al testo.
Nota 20. M. Carboni, Stato e finanza pubblica in Europa dal Medioevo a oggi. Un profilo storico, G. Giappichelli, Torino 2008, pp. 134-135. Torna al testo.
Nota 21. G. Parravicini, La politica fiscale, cit., pp. 125-146. Torna al testo.
Nota 22. ASBO, Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 15, Fondo personale, Carte politiche, Documenti intorno alla mia vita, pp. 127-135; G. N. Pepoli, Re e popolo. Discorsi, lettere, scritti, 2 voll., Società tipografica Azzoguidi, Bologna 1880-1881. Torna al testo.
Nota 23. L. Gheza Fabbri, Solidarismo in Italia fra XIX e XX secolo. Le società di mutuo soccorso e le casse rurali, G. Giappichelli, Torino 1996, pp. 55-59, 81-85; O. Mazzotti, Fund raising e associazionismo nell’Italia dell’Ottocento, in B. Farolfi, V. Melandri (a cura di), Il fund raising in Italia. Storia e prospettive, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 83-118; M. Fornasari, Tra carità legale, pietas e filantropia: il fund raising degli istituti assistenziali dall’Unificazione agli anni Cinquanta del Novecento, ivi, pp. 119-161. Torna al testo.
Nota 24. ASBO, Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 10, Fondo personale, Carteggio, Operai. Torna al testo.
Questo saggio si cita: B. Farolfi, Gioacchino Napoleone Pepoli e i problemi economici dell’Italia unita, in «Percorsi Storici», Serie Atti Numero 1 (2012) [http://www.percorsistorici.it/numeri/serie-atti-numero-1/titolo-e-indice/13-numeri-rivista/serie-atti-numero-1/53-bernardino-farolfi-gioacchino-napoleone-pepoli]