Francesca Boris

I Pepoli in età moderna a Bologna e in Europa

Dopo la morte di Gioacchino Napoleone Pepoli, nel 1881, furono ritrovati molti quadri nello scantinato della sua villa di San Lazzaro, poi elencati dall’inventario legale (Nota 1). Almeno quarantotto erano ritratti di famiglia, classificati come di scarso valore artistico dal perito, Antonio Muzzi, già autore dei due ritratti più significativi di Gioacchino: il suo ritratto giovanile contenuto nel quadro La cacciata degli austriaci da Porta Galliera l’8 agosto 1848 oggi al Museo del Risorgimento, e il bozzetto quasi impressionista, che doveva essere l’abbozzo di un ritratto più grande, ora conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna. Pepoli era l’erede di due rami, fra i più importanti, della sua famiglia. L’eredità di suo padre si era dunque trovata in possesso delle effigi, immaginarie e reali, di personaggi medievali e moderni, e di tutti i rami: da Taddeo dominus civitatis nel Trecento a una folla di generali, nobili veneti, marchesi e conti del Sacro romano impero. Una galleria che, al di là del forse scarso interesse di un giovane ambizioso, poteva essere rassicurante per lo sguardo retroattivo che gettava su molti secoli precedenti, e all’altezza del senso dell’identità di un uomo come Gioacchino: inquieto, patriottico, imparentato con i Bonaparte nonché, attraverso il matrimonio con Frederica Wilhelmina di Hoenzollern-Sigmaringen, con metà delle dinastie europee allora regnanti. Per quanto si sentisse, in gioventù, molto più vicino ai Murat, la famiglia di sua madre, e alla loro tradizione napoleonico-rivoluzionaria, i precettori avevano cercato di inculcargli l’orgoglio per l’eredità plurisecolare degli antenati paterni. E nell’incipit delle sue memorie, scritte poco prima della morte, il marchese ricorda alcuni dei loro nomi. Ma si sofferma in particolare su Giovanni, che era stato giustiziato nel 1585 per una ribellione contro il papa: «vittima» quindi, non a caso, della «tirannide pontificia», una definizione particolarmente bruciante nel periodo risorgimentale.
L’eredità era composta anche da un’imponente massa cartacea, un archivio enorme di documenti soprattutto, ma non solo, legali, contabili e amministrativi, ora in parte all’Archivio di Stato di Bologna ma allora presente nel palazzo. In Età moderna i Pepoli si erano divisi in numerosi rami, ognuno dei quali a sua volta spesso suddiviso in primogenito e cadetto. Nonostante alcuni ritratti individuali, manca ancora una visione d’insieme di tante storie, se si eccettuano gli studi complessivi di Alfeo Giacomelli sulla nobiltà bolognese e il saggio storico-genealogico, di imminente pubblicazione, di Romolo Dodi. La divisione principale era avvenuta all’inizio del secolo XVI, con i figli di Guido, figlio di Romeo. Dopo Guido, i Pepoli si ramificarono in alcune linee principali, derivanti dai suoi figli: infine sopravvissero solo il ramo dei legittimati (linea di Filippo), il ramo comitale e il ramo marchionale (linea di Girolamo). Di entrambe le linee abbiamo una documentazione archivistica vasta e antica, quella stessa che nel secolo XIX si ritrovava riunita nel palazzo: gli archivi della linea di Filippo sono ora conservati alla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, quelli della linea di Girolamo in Archivio di Stato. Questi ultimi fondi, relativi dunque ai rami comitale-senatorio e marchionale, furono depositati in Archivio di Stato (Nota 2) nel 1915 dagli eredi di Gioacchino Napoleone, nella persona di Ercole Gaddi Pepoli, figlio di sua figlia Letizia.
Dopo il Medioevo, i tre rami avevano continuato ad abitare vicini, anche quando fu costruito il palazzo “nuovo” davanti a quello “vecchio” in strada Castiglione, e a comportarsi da grande clan come ai tempi della loro attività di cambiatori. Molti Pepoli furono senatori di Bologna, in una linea e nell’altra. Il ramo comitale e il ramo marchionale condividevano la gestione del feudo di Castiglione, Sparvo e Baragazza, concesso dall’imperatore Carlo IV nel 1369. Ma la famiglia aveva molte altre proprietà, appartenenti ai vari rami, nel bolognese, nel modenese, nel ferrarese e in Romagna, con le importanti tenute di Crevalcore, Palata, Stellata, Trecenta, Rigosa, Crocetta e San Lazzaro: alcune delle quali giungeranno a Gioacchino. Vantavano due marchesati e titoli di nobiltà veneziana, si consideravano più feudatari dell’Impero che dello Stato pontificio, anche se avevano ereditato dal Medioevo una tradizione guelfa ancora avvertita nel Cinquecento: durante il quale però essere guelfi significava essere fautori dei Valois. Erano dunque filofrancesi, e legati alla dinastia Medici, come altri possessori di terre confinanti con lo stato toscano. Una documentazione ancora inesplorata, da una parte, e una storiografia come detto frammentaria dall’altra (a partire dalle cronache cittadine) narrano fatti in parte prevedibili: il dominio cinquecentesco delle zone di montagna, e di alcune di pianura, l’arroganza del loro passato di signori della città, la tendenza alle imprese guerresche e alle risse cittadine, uno stato di tensione costante col papato e di polemica antiromana; tutte caratteristiche date come certe per le varie linee durante i secoli dal XVI al XVIII. La continuità delle fonti dal Medioevo al XIX secolo, e la continuità anche della loro conservazione, consentirebbero di verificarle nella densità delle vicende familiari. Una complessa eredità è la storia da cui emerge Gioacchino: e non si sa quanto questo retaggio fosse sentito da lui, come da Carlo, il patriota e amico di Giacomo Leopardi, o dalla sorella di Gioacchino, Carolina Tattini. La ragazza indomita che alla vigilia dell’8 agosto scriveva da Bologna alla madre Letizia Murat: «Amo meglio le fucilate e i cannoni che veder entrare i Tedeschi».
È probabile che a metà dell’Ottocento i giovani Pepoli, protesi verso il futuro, non sentissero una particolare sintonia con antenati dei secoli passati. Ma la loro era stata una famiglia, se non regnante, sempre di grande fama; numerosa e rissosa, collegata con la rete delle élites europee: al punto da suscitare ancora, all’inizio del XVIII secolo, speranze di una rinascita dell’autonomia bolognese, almeno in alcuni intellettuali e nobili come il cronista Francesco Ghiselli. Vari Pepoli combatterono negli eserciti imperiali, o furono favoriti dei granduchi di Toscana e dei re di Francia. Nelle miniature delle Insignia degli Anziani, il loro “palazzo nuovo” o “delle catene”, costruito da Odoardo nella seconda metà del Seicento, apparendo quasi come un palazzo reale, raffigurava ancora una sovranità cittadina (Nota 3). Nel Settecento, come ci attesta una pianta della seconda metà del secolo (Nota 4) conservata anch’essa nell’archivio familiare, il palazzo nuovo era la sede dei conti e senatori, quello vecchio era considerato di proprietà comune, ma ospitava soprattutto i conti del ramo dei legittimati e i marchesi.
Il marchese Giovan Paolo, vissuto fra 1667 e 1748, si trovò in contrasto con l’autorità legatizia e con il Senato, ponendosi a capo di una fazione della nobiltà minore, e fu riconosciuto in città come uomo di pensiero giurisdizionalista; in seguito parve amico e consigliere del cardinale Lambertini, ma i dissapori con i legati proseguirono in altri personaggi familiari. Giovan Paolo viaggiò molto, fino in Inghilterra al seguito di un’ambasceria veneziana, e ha lasciato un diario in più volumi, studiato da Giancarlo Angelozzi e Cesarina Casanova, in cui traspare un carattere non facile e una certa coscienza del declino del ceto aristocratico (Nota 5).
Un altro personaggio significativo, che dominò la scena per tutta la prima metà del secolo XVIII, è il conte Sicinio, morto nel 1750. Sicinio, penultimo del suo ramo, si fregiò del titolo di consigliere dell’imperatore Carlo VI. Uomo colto e di gusti raffinati, la sua personalità è descritta dai ricchi arredi elencati nell’inventario legale della sua villa di San Lazzaro (Nota 6). Era molto amato nell’ambiente teatrale, nel quale sfogava la sua passione per la musica. Come amministratore, insieme ad altri nobili, del teatro Malvezzi, fu implicato nel mondo operistico, di cui Bologna era all’epoca una delle capitali. Nell’imprenditoria musicale, cioè nella sua gestione ravvicinata del vasto popolo delle compagnie teatrali e dei divi del melodramma, si avverte il gusto di Sicinio nel guidare schiere di persone socialmente sottoposte, e nel suo amore per il teatro, una inclinazione decisamente di famiglia, che si ripresenterà in altri discendenti e infine in Gioacchino. Il voluminoso epistolario del conte, pubblicato solo in minima parte, e che copre quasi quarant’anni del secolo XVIII, racconta i suoi rapporti, oltre che con le celebrità dell’epoca, cantanti, musicisti e compositori, come Farinelli, come Hasse, anche con la rete del ceto aristocratico dell’Europa coeva. Ci restano inoltre molti documenti, soprattutto carteggi, relativi alle donne entrate nella famiglia Pepoli, alcune delle quali personaggi femminili di profondo interesse, come la moglie di Sicinio, Eleonora Colonna, o come Marina Grimani, gentildonna veneziana e moglie del senatore Cornelio.
In epoca napoleonica molti parenti di Gioacchino, anche se non tutti, aprirono alla rivoluzione politica. Il marchese Antonio fece la campagna di Russia nelle armate di Napoleone, e vi rimase prigioniero due anni. Secondo Gioacchino, il palazzo di famiglia, non dice quale dei due, dopo aver ospitato Maria Teresa d’Austria, aveva visto dormire anche il giovane generale Bonaparte. Già nel Settecento il ramo senatorio si era distinto per il suo esilio a Venezia, ideali repubblicani, interesse per Rousseau. Il conte e senatore Alessandro, eccentrico tragediografo nello stile di Alfieri, avrebbe forse avuto un ruolo nella Bologna governata dai francesi, se non fosse morto nel 1796. Alla morte anche del conte Odoardo il ramo senatorio si estinse, e in tale modo i due rami più cospicui della famiglia, insigniti del titolo della contea di Castiglione, si trovarono riuniti come proprietà e come residenze agli albori del secolo XIX, nella persona di Guido Taddeo, il padre di Gioacchino.
Il ramo marchionale non era neppure lui in condizioni floride, anche se Guido Taddeo a questo punto ereditava dai conti. Aveva ricevuto, infatti, dal ramo di Odoardo, figlio di Sicinio, la grande tenuta ferrarese della Stellata, nei secoli prediletta dai Pepoli, e dove anche suo figlio Gioacchino si sarebbe ritirato dopo il 1860 e la conseguita Unità italiana. Ma, mutata la società e il contesto politico-legislativo, diventava sempre più problematico gestire vasti latifondi, devastati da secoli di carestie, inondazioni e indebitamenti. Lo troviamo attestato in un carteggio fra Carolina Bonaparte Murat, sorella di Napoleone e vedova del re di Napoli Gioacchino, e il conte Aldini, personaggio importante della Bologna napoleonica. Il carteggio (Nota 7), che verte sul matrimonio tra Guido Taddeo e Letizia Murat, figlia di Carolina, è conservato nelle carte Aldini. Le lettere coprono il periodo 1822-24 e da esse traspare apprensione per le condizioni del patrimonio Pepoli, pure così vasto e ricco di attività, come lo definisce Aldini, ma gravato di debiti e dalla scarsità di prodotti delle sue terre. Per far fronte al dissesto, si pensa sia a un prestito da parte della principessa Borghese, Paolina Bonaparte; sia alla vendita della tenuta di Trecenta; non la sola vendita nel corso del secolo, dato che nel 1858 la stessa Letizia Murat venderà la Palata a un Torlonia. Il che spiega, in parte, il patrimonio ridotto di Gioacchino, il quale si troverà a donare alle figlie, negli anni Settanta, poco più che la Stellata ferrarese, i beni a Crevalcore e a San Lazzaro, e gli edifici di Bologna (Nota 8). Fra questi ultimi restavano alcune parti del palazzo vecchio e spiccava la “Palazzina delle Vedove”, odierna palazzina Pepoli, che risultava in parte di proprietà della moglie principessa Hoenzollern Sigmaringen e dove Gioacchino morirà, nel 1881, nella camera da letto dell’appartamento al piano terra.
Nel 1822 Carolina Bonaparte si era mostrata comunque ansiosa di accasare sua figlia con un marchese come Guido Taddeo, esponente della più alta aristocrazia dell’antico regime italiano. Numerosi furono gli intrecci fra i Bonaparte e il patriziato di Bologna negli anni Venti, quando Napoleone era appena morto a Sant’Elena e il suo mito politico cresceva, quasi sull’eco dell’ode manzoniana. Felice Baciocchi, il marito di Elisa, aveva comprato dalla famiglia Ranuzzi il grande palazzo oggi sede del tribunale. Luciano Bonaparte, principe di Canino, e sua moglie Alexandrine de Bleschamps abitavano saltuariamente una proprietà a Croce del Biacco, e una figlia di primo letto di Alexandrine aveva sposato un principe Hercolani. Non stupisce che Carolina, la quale allora viveva nel castello di Frohsdorf in Austria, ci tenesse a imparentarsi coi Pepoli. Si poteva contare sul fatto che altri rami della famiglia erano in via di estinzione, come avvenne. E sul figlio di Letizia Murat convergeranno, nella sua età matura, le eredità dei marchesi Guido Luigi e Giuseppe, forse più ricche di carta che di terre fertili, dato che comportavano una quantità di archivi che resteranno a lui e ai suoi discendenti, per approdare infine in Archivio di Stato.
In qualche modo il patriottismo di Gioacchino e di sua sorella Carolina, scesa in piazza a Bologna a fare le barricate come le donne delle Cinque giornate di Milano, si ricollega alle vicende dei genitori, anch’essi patrioti, e attraverso di loro, alle radici di una lunga storia familiare. L’insorgenza contro il dominio papale nel Cinquecento, la militanza filo-francese, l’adesione saltuaria al giurisdizionalismo durante il periodo del Governo misto, le simpatie letterarie e filosofiche per le idee illuministe: certo sarebbe sbagliato collegare tanti episodi diversi, nel corso di secoli, e interpretarli come segnali discontinui ma coerenti. Tuttavia queste tappe successive si saldano nell’Ottocento all’intreccio familiare con i Bonaparte e al desiderio di una patria nuova, di un paese più grande e più libero, dove i Pepoli ancora una volta possano agire in primo piano. Un fatto da ricordare è che Gioacchino, perseguendo il suo ideale patriottico, si inimicò una parte degli zii, come il marchese Antonio, che minacciò di diseredarlo nel 1860 se non abbandonava «il servizio del re e dell’Italia». Si divise anche dai Murat, parenti della madre, a causa delle loro pretese dinastiche che collidevano con l’interesse dell’Italia promessa ai Savoia: dopotutto il re Gioacchino Murat era stato fra i primi, con il proclama di Rimini nel 1815, a parlare ufficialmente della causa dell’indipendenza italiana. E Letizia aveva immortalato la memoria di quel suo mitico padre nel bellissimo monumento per la propria tomba alla Certosa di Bologna.
Pepoli, oltre a combattere per la patria, si dedica come è noto ad attività sociali che portano il rinnovamento su un piano diverso, avvicinando il moto nazionale al riscatto dei ceti popolari. Ma per lui la questione sociale va affrontata nell’ottica pragmatica di evitare «le dolorose discordie fra capitale e lavoro» e promuovere «l’accordo fra popolo e re». E ricorda le parole di Cavour: «Se le classi alte non si occuperanno delle classi povere, avremo la guerra civile». Così, le azioni caratterizzanti del marchese gli derivano forse dalle sue simpatie giovanili per il pre-socialismo di Saint-Simon, ma anche dalla coscienza di un passato remoto ricco di imprese militari e delle esperienze di lontani capipopolo. Quest’uomo dal carattere intenso, non sempre amato dai contemporanei, manifestava nei confronti della situazione storica del suo tempo le brillanti capacità di reazione spesso dimostrate dagli antenati. Nella tessitura delle relazioni, nella gestione dei rapporti con gli aristocratici cui apparteneva e con i popolari che organizzò in tanti modi, dalle bande cittadine alle società di mutuo soccorso, compare la traccia di un atteggiamento protagonistico e di un ruolo consapevole che molti altri Pepoli avevano assunto prima di lui.

 

NOTE:

 

Nota 1. Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASBO), Notarile, Vecchietti Eugenio, Inventario legale dello stato d’eredità del fu marchese commendatore Gioacchino Napoleone Pepoli, 23 giugno 1881. Torna al testo.

 

Nota 2. ASBO, Archivio della direzione, 1915, Titolo VI, rubrica 2, Deposito di atti da parte di privatiTorna al testo.

 

Nota 3. ASBO, Anziani consoli, Insignia, vol. XI, 1700 e 1710. Torna al testo.

 

Nota 4. ASBO, Pepoli, Mappe, piante e disegni, cart. 1, n. 25. Torna al testo.

 

Nota 5. ASBO, Pepoli, Storia, genealogia e nobiltà, Raccordo delle cose di casa scritte da me Giovanni Paolo Pepoli, 1708. Torna al testo.

 

Nota 6. ASBO, Pepoli, Amministrazione, Inventari, 1751. Inventario de’ mobili nel palazzo di San LazzaroTorna al testo.

 

Nota 7. ASBO, Carte Aldini, b. 12, Corrispondenza con Carolina Bonaparte, ex regina di Napoli e contessa di Lipona, circa il trattato di matrimonio di sua figlia principessa Letizia col marchese Guido Taddeo Pepoli, 1821-1824Torna al testo.

 

Nota 8. ASBO, Notarile, Giuseppe Arnoaldi Veli, Donazione e cessione fatta dal signor Marchese Commendatore Gioacchino Napoleone Pepoli alle proprie figlie Signore Marchese Letizia, Antonietta, Luisa con rinunzia, 26 giugno 1878. Torna al testo.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

In coda al presente contributo, si segnala una bibliografia essenziale che, per quanto riguarda la storia della famiglia Pepoli in età moderna, è estremamente frammentata in numerose opere, data la scarsità di saggi interi su questo argomento.

Biblioteca Universitaria di Bologna, ms. 770, F. Ghiselli, Memorie antiche manoscritte di Bologna raccolte et accresciute sino a’ tempi presenti;


ASBO, Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 15, Fondo personale, Carte politiche, Documenti intorno alla mia vita;


A. Gardi, Lo stato in provincia. L’amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1994;


A. Varni (a cura di), I “Giacobini” nelle legazioni. Gli anni napoleonici a Bologna e Ravenna. Atti dei convegni di studi svoltisi a Bologna il 13-14-15 novembre, a Ravenna il 21-22 novembre 1996, vol. I, Famiglie nobiliari e potere nella Bologna settecentesca, di A. Giacomelli, Costa, Bologna 1996;


G. Dall’Olio, Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1999;


C. Broschi Farinelli, La solitudine amica. Lettere al conte Sicinio Pepoli, a cura di C. Vitali, con una nota di R. Pagano, prefazione e collaborazione di F. Boris, Sellerio, Palermo 2000;


G. Angelozzi, C. Casanova, Vuoti di memoria. Autoritratto di un aristocratico bolognese fra XVII e XVIII secolo, in «Deputazione di storia patria per le province dell’Emilia. Atti e memorie», ns, LII (2002), pp. 388-426;


G. Angelozzi, C. Casanova, La nobiltà disciplinata. Violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a Bologna nel XVII secolo, Clueb, Bologna 2003;


S. Saccone, V. Roncuzzi, Agostino Sieri Pepoli, conte, collezionista, mecenate. La casa-museo a Palazzo Pepoli, in Scrigni di memorie. Gli archivi familiari nelle dimore storiche bolognesi. Giornate europee del patrimonio. Un patrimonio venuto da lontano, Bologna 23-24 settembre 2006, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Bologna 2006;


A. Rosati Pepoli, T. Costa, Storie dei Pepoli, Costa, Bologna 2011;


R. Dodi, Note biografiche, in Le famiglie senatorie di Bologna, vol. 4, I Pepoli, in corso di stampa.

 

Questo saggio si cita: F. Boris, I Pepoli in età moderna a Bologna e in Europa, in «Percorsi Storici», Serie Atti Numero 1 (2012) [http://www.percorsistorici.it/numeri/serie-atti-numero-1/titolo-e-indice/13-numeri-rivista/serie-atti-numero-1/49-francesca-boris-i-pepoli-in-eta-moderna]

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