Marina Calore*
Gioacchino Napoleone Pepoli drammaturgo e uomo di teatro
1. Scrivere per il teatro
Quella del marchese Gioacchino Napoleone Pepoli è rimasta fino ad oggi una figura poco indagata, non solo in ambito nazionale ma anche locale, forse perché le continue critiche e i valevoli giudizi espressi dai suoi avversari politici hanno reso difficile valutare i risultati conseguiti durante la breve ma intensa carriera diplomatica e di governo ed apprezzare talune sue coraggiose prese di posizione o le molteplici iniziative a carattere sociale da lui promosse. Ben pochi poi hanno preso in considerazione la sua attività di drammaturgo, ingiustamente liquidata con poche parole alla stregua di un giovanile passatempo (Nota 1), e che egli invece portò avanti nel corso degli anni con impegno e puntiglio, tenendola però separata dal ruolo al quale, per rango o piuttosto per alchimie famigliari, sentiva d’essere predestinato.
È pur vero che all’inizio, cimentandosi nella scrittura teatrale, egli non fece altro che seguire l’esempio di tanti giovani di buona cultura e di belle speranze, smaniosi di trasmettere al pubblico messaggi allusivi alla libertà e all’amor di patria o, quanto meno, desiderosi, come nel caso di Gioacchino Pepoli, di rinnovare i repertori delle compagnie con produzioni inedite di autori italiani. Il fatto che fosse nobile e di famiglia facoltosa, non costituiva di per sé una eccezione, poiché tra gli aspiranti drammaturghi i titolati non mancarono, però quando prese il coraggio di inviare qualche manoscritto alla Compagnia Reale Sarda, come avevano già fatto altri suoi concittadini, quel nome altisonante servì ad attirare l’attenzione della commissione preposta alla selezione (Nota 2).
L’esordio della sua prima commedia poi fu incoraggiante poiché la rappresentazione de Il Nobile e il Cittadino, al teatro del Corso nell’ottobre del 1846, grazie alla bravura degli attori della Reale Sarda, riscosse notevole successo, tale comunque da indurre la Compagnia a porre in scena, un paio di settimane più tardi, una sua seconda commedia, La scuola delle giovani spose, il cui ricavato venne devoluto «a beneficio degli Amnistiati Indigenti» (Nota 3).
Fu probabilmente la gioia per gli applausi con cui venne accolto quando si presentò sul palco assieme agli attori, a convincerlo a proseguire sulla via intrapresa anche durante i concitati eventi che precedettero l’8 agosto del ’48. Certo non fu in grado di riprodurre sulle scene l’epico scontro della Montagnola come fece l’irruente Zappoli (Nota 4), pure la sera del 18 ottobre, la Compagnia Etrusca poté rappresentare al teatro del Corso un suo nuovo dramma, storico e patriottico presumiamo, intitolato Lucia di Treviglio, col preciso scopo di offrire il ricavato dell’incasso a vantaggio di Venezia insorta (Nota 5).
Nel 1849, con il ritorno degli austriaci a Bologna, molti dovettero intraprendere la dolorosa via dell’esilio e anche il marchese Pepoli ritenne opportuno allontanarsi per qualche tempo da Bologna (Nota 6), però il volontario esilio trascorso in Toscana, oltre che interessante ed istruttivo, risultò assai proficuo perché gli diede tempo e modo di selezionare con cura gli intrecci, di sorvegliare la stesura dei dialoghi, e di scrivere un paio di buoni drammi, L’onore di mia figlia ed Elisabetta Sirani, che avevano tutti i requisiti necessari per avere successo sulle scene. Trovò pure a Firenze un noto agente teatrale-editore, Angelo Romei, disposto a stamparli (Nota 7), ed una famosa attrice, Carolina Santoni, che fu lieta di interpretare in modo magistrale il dolente ruolo della pittrice bolognese al teatro fiorentino del Cocomero nel 1851, di farne anzi un “cavallo di battaglia” del proprio repertorio, e di riproporlo, una volta arrivata in tournée a Bologna nel carnevale del 1852, durante la sua serata di beneficio, certa di ottenere il pieno consenso degli spettatori.
Il dramma infatti, che come tanti altri appartenenti del genere così detto “storico-artistico” sceneggiava la vicenda umana di un celebre artista, scelto come esempio dell’eccellenza italiana nel mondo, prendeva spunto dal profilo biografico tratteggiato dal Malvasia nella Felsina Pittrice, ma presto se ne discostava non soltanto col porre in bocca alla protagonista alcune suggestive dichiarazioni di amor di patria («Niun onore, niuna gioia in terra straniera potrebbe compensarci del mio bel cielo d’Italia, delle mie fiorite colline, di quell’aura natia limpida e pura che qui si respira»), ma anche facendola morire suicida per amore, dopo una straziante agonia, tra le braccia del padre. E al pubblico, già così ben predisposto, piacque pure l’altro dramma, appena finito di comporre dal Pepoli, scritto anzi quasi a misura dei mezzi espressivi della Santoni, intitolato L’Espiazione.
Nel frattempo aveva fatto ritorno in patria lo stesso Gioacchino Napoleone, ed era pronto a cogliere, almeno a teatro, una parte del successo, come riferirono i giornali: «Il pubblico ha applaudito con convinzione e con trasporto ed ha più volte voluto rivedere l’autore al palco» (Nota 8). Ma fu solo l’inizio di una annata piena di soddisfazioni, infatti in estate all’Arena del Sole la Compagnia Lombarda mise in scena un suo ulteriore dramma storico, intitolato La Gelosia che fu non solo applaudito ma replicato (Nota 9), e in autunno la Reale Sarda rappresentò Povertà e Orgoglio, che era una decorosa e morale commedia d’intreccio.
Le produzioni del Pepoli naturalmente non si limitarono a comparire sui teatri bolognesi ma, portate in giro da varie compagnie, presero a farsi vedere sui principali teatri d’Italia, e proprio per tenersi aggiornato sull’esito delle recite dei suoi testi avvenute al di fuori della propria città, egli pregò innanzi tutto gli attori stessi che li stavano esponendo al pubblico, di scrivergli dei brevi resoconti; poi cominciò a compulsare i giornali, a caccia di recensioni che lo riguardassero, che erano per lo più striminzite dal momento che la stampa periodica del tempo preferiva dedicare spazio agli spettacoli d’opera e di ballo. Forse per questo, mentre era impegnato a scrivere una personale rielaborazione di un soggetto assai noto, Ines de Castro, concepì l’idea di fondare un nuovo «giornale letterario, artistico, teatrale», al quale fu posto il titolo de «L’Arpa» e che cominciò ad uscire con cadenza regolare, nell’autunno del 1853.
L’Ines de Castro, benché alquanto artificiosa, una volta finita, piacque al pubblico e ancor più alle prime attrici (Adelaide Ristori compresa) che fecero a gara per interpretarla e, l’anno seguente, l’infaticabile marchese commosse gli spettatori col dramma La Rassegnazione materna che narrava le tribolazioni imposte dalle convenzioni sociali ad una donna dai trascorsi burrascosi.
Lasciati poi da parte i drammi a forti tinte, volle sperimentare il genere della commedia, passando dal moralismo diluito nei quattro atti de Il mazzo di carte alle schermaglie piuttosto manierate di Nessuno dei due, mentre l’attrice Fanny Sadowski che aveva rispolverato il copione della commedia in due atti Un marito in pericolo, quasi dimenticato dall’autore, ne aveva mutato il titolo in Evelina, e lo andava esponendo con successo in diversi teatri.
Infine, avendo all’attivo almeno una decina di produzioni ampiamente collaudate sulle scene, Gioacchino Pepoli ritenne che fosse giunto il momento di raccoglierle assieme in due volumi per darle alle stampe nel 1855, però la modesta veste editoriale adottata sembra escludere che si trattò di un gesto dettato da autocompiacimento, ma piuttosto di una forma di tutela, spesso adottata dagli autori, per evitare non solo che i propri testi venissero spudoratamente copiati, ma anche per impedire gli arbitrii (tagli, spostamenti di scena, ecc.) cui erano sottoposti abitualmente i copioni passando da una compagnia all’altra (Nota 10). Si illudeva di poter presto aggiungere ai due pubblicati un terzo volume, ma rimase un pio desiderio, soprattutto perché l’esito incerto sulle scene del suo ultimo dramma, Poesia e realtà, non dava bene a sperare.
Seguiva intanto i progressi de «L’Arpa», che pareva destinata a conquistarsi una diffusione nazionale, apprezzava il buon livello degli articoli che vi comparivano (alcuni dei quali recano la sua firma) e la cortesia mostrata nei suoi confronti dal principale compilatore Gustavo Sangiorgi. Però andava vagheggiando la nascita di una nuova rivista che fosse in grado di fornire ai lettori un panorama esauriente sul teatro drammatico italiano, da intitolarsi «L’Incoraggiamento», perché proprio di sostegno, di “incoraggiamento”, o piuttosto di rinnovamento, necessitava la drammaturgia italiana (soprattutto da quando era stata disciolta la Compagnia Reale Sarda), che risultava ancora minoritaria sulle scene rispetto a quella proveniente d’Oltralpe. Il marchese Pepoli, del resto, era consapevole della situazione, poiché era stato scelto dal Consiglio di presidenza della Società degli autori drammatici, con sede a Torino quale suo rappresentante provinciale per gli Stati della Chiesa (Nota 11).
Comunque sia, per realizzare l’ambizioso progetto sul finire del 1855 affidò l’incarico di redattore a Luigi Gualtieri che, per inciso, vantava una discreta esperienza giornalistica ma era soprattutto un prolifico autore di testi teatrali, ottenne la collaborazione dei due drammaturghi che in quegli anni andavano per la maggiore, Leone Fortis e Paolo Ferrari, e pose incautamente se stesso alla direzione, provocando un maligno commento («Sempre intento a far parlare di sé, da commediografo passa a giornalista») da parte di Enrico Bottrigari, abitualmente mal disposto nei suoi confronti. Purtroppo il livello degli articoli comparsi si mantenne mediocre e lo scarso numero degli abbonati finì per provocare la chiusura della testata nel luglio del 1856.
Durante il carnevale del 1856, il nostro marchese aveva trovato il tempo per farsi apprezzare come attore («Recitava la parte di Rodriguez colla vivacità, colla franchezza, collo spirito che il colto pubblico si ripromette dall’autore del Mazzo di carte e di Nessuno dei due») nel teatrino privato di palazzo Hercolani in una recita a fini benefici. La notizia, incontestabile in quanto pubblicata sulle pagine de «L’Arpa» (Nota 12), ma di per sé poco rilevante, ci autorizza tuttavia ad annoverare anche Gioacchino Napoleone Pepoli tra lo sterminato numero dei filodrammatici del XIX secolo. Tentò pure di abbozzare nuove produzioni, come il dramma, da scrivere in collaborazione con l’amico Fortis, dal titolo Arte e Mestiere, o la commedia provvisoriamente intitolata La Transazione, una «commedia politica» come la definì il Costetti, nella quale l’autore intendeva trattare «le tante viltà che con siffatto nome si ammantano di abilità pratica, e che possono avvilire una coscienza, come corrompere uno Stato» (Nota 13). Ma le assenze sempre più prolungate da Bologna e l’incombere di incarichi gravosi, gli impedirono di passare alla stesura.
2. Poesia e Realtà
Francesco Lombardi, un celebre attore italiano che, all’apice della carriera, nel 1825 aveva lasciato le scene, venne ucciso nel 1846 a Bologna dove aveva trascorso gli ultimi venti anni dell’esistenza sempre più isolato dal mondo e confinato, come un clandestino, nei recessi del palazzo della principessa Maria Malvezzi Hercolani, la donna per amore della quale egli aveva abbandonato il teatro. Si appurò che a colpirlo a morte con un coltello da cucina era stato un domestico durante una lite. Il colpevole fu arrestato, imprigionato, processato e condannato, dopo di che il silenzio poté calare su una vicenda se non scandalosa, quanto meno imbarazzante (Nota 14), che aveva coinvolto un attore e una nobildonna, costretti a lottare contro ipocrisie e convenzioni sociali quasi insormontabili. Una vicenda tuttavia che offriva ottimi spunti per un dramma da teatro, sulla quale il Pepoli, che del “salotto” di donna Maria Malvezzi era da sempre un assiduo frequentatore, poté lavorare facendo magari tesoro delle confidenze che la nobildonna stessa gli aveva fatto, fino a ricavarne il dramma in cinque atti intitolato Poesia e Realtà, che è, a nostro giudizio, la più originale delle sue produzioni e meritevole ancora oggi d’esser letta, sempre che si riesca a reperire una copia del testo a stampa (Nota 15).
Protagonisti sono l’attore Armando e la baronessa Laura (facilmente identificabili con il Lombardi e la principessa Malvezzi Hercolani), circondati da figure di secondo piano: da una parte il gruppo d’attori volonterosi e solidali, dall’altra gli esponenti della nobiltà ambigui e opportunisti. L’azione infatti rimbalza da una modesta locanda al camerino d’un teatro(atto primo e atto terzo), dove Armando viene maturando la sofferta decisione di abbandonare il teatro, alle lussuose sale del palazzo (atto secondo e quarto) in cui Laura si impone di sostenere il ruolo di gran dama che le compete mentre ad Armando resta solo il rimpianto del passato («Sogno un pubblico che m’applaude, ritorno Paolo, Oreste, Orosmane, e vivo, vivo un’ora coll’arte»), per concludersi (atto quinto) col gran ballo mascherato durante il quale Laura, temendo lo scoppio di uno scandalo, trova il coraggio di rivelare pubblicamente l’amore per Armando, d’essere divenuta madre ed aver abbandonato il neonato solo perché mal consigliata dai parenti. Ma è chiaro che si tratta di un finale ad effetto, buono appunto per il teatro ma non corrispondente alla realtà dei fatti (Nota 16).
Il copione, affidato nel 1855 a varie compagnie, non incontrò subito il pieno consenso anzi, per quanto è dato sapere, a Livorno, diluito in 6 atti, fu accolto da «freddo successo», a Padova e Pistoia l’ultimo atto venne fischiato, a Roma nel 1856 la compagnia che lo aveva in repertorio procedette ad una arbitraria fusione degli ultimi atti mutando il titolo originario in Illusione e Realtà, mentre a Napoli lo si rappresentò diviso in due serate. Presumibilmente tenendo conto dell’esito incerto e delle critiche, l’autore diede alle stampe una versione definitiva più equilibrata, ma non volle che il dramma venisse recitato a Bologna, in segno di rispetto per donna Maria Malvezzi (Nota 17), per l’aristocrazia in genere, che dal dramma usciva alquanto maltrattata, e per i bolognesi tutti che erano stati testimoni dei fatti.
Dato il via libera anche a questo ultimo dramma, Gioacchino Napoleone Pepoli entrava a buon diritto nel Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici, comici, pubblicato nel 1860 e compilato da Francesco Regli che, non esitava a definire il marchese drammaturgo «uno dei più solidi sostegni» del teatro italiano, e concludeva il saggio a lui dedicato con un auspicio: «Nutriamo fidanza che le cure della patria comune non lo torranno ai suoi geniali studi, che già tanta gloria arrecarono alle nostre drammatiche scene» (Nota 18).
Ritornò il Pepoli ai suoi “geniali studi” ma soltanto nel 1875, con un nuovo dramma intitolato Gabriella, portato a temine con l’obiettivo di raccogliere con la sua recita fondi per le fabbriche cooperative di Bondeno e Stellata che, dopo l’ennesima rotta del Po, si trovavano in gravi difficoltà. A suo dire non si trattava dunque di una produzione del tutto nuova, poiché ne aveva già scritti i primi tre atti nel 1859 quando «il cannone di Magenta mi tolse dai miei cari e sereni studi», conservando però «il manoscritto ingiallito dal tempo», ma era solo un frettoloso completamento, che sulle scene del teatro privato di palazzo Pepoli venne applaudito (Nota 19), mentre sulle scene pubbliche non mancò di suscitare qualche critica, cosa che indusse l’autore a fare un’accurata revisione del testo prima di darlo alle stampe.
Il dramma, ambientato a Vienna, si presenta nettamente diviso in due parti, i primi due atti si svolgono all’interno di un misero alloggio, gli altri due in un lussuoso albergo. Vi si narrano, in sintesi, le traversie di Gabriella di Temesvar, che consuma la giovinezza prima succube di una madre dispotica che vorrebbe ritrovare, col matrimonio della figlia, l’agiatezza perduta, poi irretita da un giovane aristocratico che la seduce e l’abbandona. Dopo aver toccato il fondo della disperazione, Gabriella però trova la forza di risollevarsi e dopo anni di studio tenace della musica e del canto, si presenta in società quale diva dell’opera lirica, sotto il nome d’arte di Olimpia Floriani. Accolta ovunque nei salotti più esclusivi, potrebbe a questo punto vendicarsi di quanti l’avevano umiliata, ma preferisce lasciarsi alle spalle il mondo fittizio e luccicante della grande capitale per andare a vivere in campagna («Sola! Il cuore della donna è morto, ora io non vivrò che per l’arte»), e dedicare tutta se stessa alla musica.
Gli ingredienti, dunque, per catturare gli spettatori non mancavano e il personaggio di Gabriella piacque alle prime attrici e soprattutto al pubblico, più facile a commuoversi, delle arene estive (Nota 20).
Poi venne l’occasione di commemorare la morte di Vittorio Emanuele II sulle scene, e il Pepoli si mise d’impegno a stendere una breve composizione, un atto unico o, come si diceva, “un bozzetto” un poco allegorico e finto ingenuo, con cui egli intendeva esprimere, per voce di un gruppo di umili valligiani, la propria delusione per la politica degli ultimi anni che aveva tradito le aspettative di quanti avevano combattuto e creduto nell’unità d’Italia, pur confermando la lealtà per la Casa Savoia (Nota 21). Ne sortì Il benservito di Vittorio Emanuele che, dopo una prima recita da parte dei filodrammatici bolognesi, ebbe la sciagura d’essere rappresentato, in forma ufficiale, a Roma.
La delusione provata allora, davanti ad un pubblico ostile, lo spinse a scrivere una lunga lettera-confessione (al senatore Deodati) che volle fosse stampata assieme al suo povero “bozzetto” (Nota 22):
Ottimo amico, poniti a sedere, stringiti la mano al petto, concentra i tuoi pensieri ed ascolta una mia ingenua confessione. Sappi dunque che io, fin dalla mia prima fanciullezza ho avuto una irresistibile passione per le tavole del palcoscenico. Toccava appena gli 8 anni e già le mie care sorelle recitavano in un piccolo teatrino le mie fantasticherie infantili. A 15 anni scrissi una tragedia e a 18 una mia commedia fu rappresentata al teatro Regio di Torino. Essa valse a Gaetano Gattinelli molti calorosi applausi che io ebbi l’ingenuità di credere che mi fossero diretti. Angelo Brofferio salutò in me una speranza dell’arte. Aggiungo subito che egli si è sbagliato in questo vaticinio né più né meno che quando vaticinava che il conte Cavour sarebbe stato la rovina dell’Italia. Ed oggi, nelle mie ore di amarezza e di disinganno, io veggo pur sempre aleggiare d’intorno le care immagini di Ines, di Bianca, di Elisabetta, di Laura, che mi rammentano le inquietudini e le ansie dei giorni di battaglia e di trionfo dei miei verdi anni.
Non sorridere, se io ti confesso che anche l’altra sera, durante la rappresentazione del mio bozzetto Il Benservito, il mio cuore palpitava né più né meno che io fossi un giovane esordiente. L’altra sera però mi coricai lieto e felice, intimamente convinto che le mie scene popolari fossero andate a genio a tutti. Ma l’indomani mattina la onesta illusione si dileguò come nebbia al sole. Alcuni giornali cantavano in italiano e in francese che il mio bozzetto era povera cosa. Mi sarei rassegnato alla dura sentenza se dal valore artistico non fossero scesi a censurare il valore morale.
Anche non considerando il Benservito, che è uno scritto occasionale, possiamo rilevare che al teatro Gioacchino Napoleone Pepoli diede discreto contributo, avendo al suo attivo 12 produzioni, tutte rappresentate e stampate (ed almeno altre quattro di cui si conoscono i titoli), che ressero validamente il confronto con quanto d’altro si vide esporre sulle scene nel medesimo lasso di tempo.
Esprimere in proposito un giudizio, a più un secolo di distanza, sarebbe non solo ingeneroso ma anche poco corretto, poiché in teatro spetta al pubblico giudicare la validità di un testo, e il pubblico mostrò di apprezzare le produzioni del Pepoli, le attrici amarono le sue dolenti eroine e le compagnie, comunque, mantennero a lungo nei repertori alcuni dei suoi drammi.
3. L’autore e gli attori
Quasi tutto il primo atto di Poesia e Realtà è un esempio di “teatro nel teatro”, dal momento che i personaggi che vi agiscono (l’“attrice giovane” Lilla, la “madre nobile” Giannina, il “primo attore” Armando, il “poeta di compagnia” Paolo Benedetti) sono i componenti di una compagnia comica che si appresta a provare un nuovo dramma. Tutti costoro, col dialogare schietto e naturale, con l’affiatamento e l’entusiasmo che li anima, finiscono per identificarsi con una serie di valori positivi quali la solidarietà verso i compagni, la dedizione per il lavoro in nome del quale sono disposti ad accettare i disagi di una vita raminga, e l’onestà morale nel rifiutare i compromessi.
Ma a ben considerare, tutto il dramma, nel suo insieme, costituisce una sorta di omaggio alla gente di teatro da parte del Pepoli che ripose sempre grande fiducia negli attori, grato a quanti avevano creduto in lui, giovane alle prime armi, che erano poi stati artefici della sua crescita come autore drammatico, e che infine lo avevano portato alla notorietà.
Sappiamo che amò presenziare alle loro prove di scena, e che condivise spesso con loro gli applausi, almeno fin che gli fu possibile, ed anche quando, come asseriva il Costetti (Nota 23), venne assorbito dagli «studi economici e sociali, base della sua luminosa carriera politica», continuò ad accogliere nelle sale del suo palazzo «quanti cultori d’arte drammatica fossero o capitassero nella sua Bologna».
A confermare questo legame, mai interrotto, con attori, capocomici, società filodrammatiche, ecc., resta un piccolo ma compatto settore all’interno del suo fondo personale, di recente acquisito dall’Archivio di Stato di Bologna (Nota 24), in cui si trovano raccolte le missive autografe, di varia lunghezza e consistenza (ne fanno parte lettere per lo più su carta intestata, biglietti, cartoline postali e telegrammi), scritte da una cinquantina di attori o di facenti parte del mondo teatrale (è il caso delle accademie filodrammatiche (Nota 25) o dell’agente teatrale- editore Angelo Romei), e dirette al marchese drammaturgo.
Esse hanno per lo più, come argomento in comune, ora l’una ora l’altra delle sue produzioni e riportano le personali impressioni provate da attrici ed attori ad una prima lettura dei manoscritti che il Pepoli andava loro sottoponendo; in seguito esse forniscono ragguagli sugli spostamenti da una città all’altra, e informazioni sull’atteggiamento tenuto durante le recite dagli spettatori. Ed è presumibile che di tutte queste osservazioni di prima mano, egli tenne conto, perché revisionò più e più volte i copioni prima di giungere alla stesura definitiva, fidandosi più dell’esperienza di chi calcava le scene da una vita (si trattava per lo più di “figli d’arte”) che delle critiche settarie dei giornalisti. Altre volte sono i capocomici che chiedono consigli sul come superare gli ostacoli frapposti dalle varie censure che le compagnie incontravano nei loro spostamenti da uno stato all’altro dell’Italia preunitaria, che lamentano un calo di pubblico nei teatri a causa dell’incombente epidemia di colera, o che si informano se il Pepoli non abbia in serbo qualche nuovo testo da consegnar loro.
È vero che le missive complessivamente coprono un arco di tempo che va dai primi di gennaio del 1846 al gennaio del 1881, ma esse non sono distribuite il modo omogeneo poiché la parte più consistente si concentra negli anni dal punto di vista compositivo più fecondi, tra il 1846 e il 1855. A scriverle, in questo caso, sono i grandi interpreti della scena italiana della prima metà del secolo: a cominciare da Carolina Santoni, seguita dai pilastri della prestigiosa Compagnia Reale Sarda, cioè Antonietta Robotti, Luigi Domeniconi, Gaetano Gattinelli, e da grandi comprimari, come Alamanno Morelli, Amalia Fumagalli, Amilcare Bellotti, Clementina Cazzola, destinati a formare a loro volta nuove compagnie; ci sono poi i capocomici come Cesare Dondini, Luigi Capodaglio, Giuseppe Astolfi, Luigi Aliprandi, Gaspare Pieri, e non manca nemmeno l’Adelaide Ristori, divenuta marchesa Capranica del Grillo, rientrata come primadonna assoluta nella Reale Sarda, e in procinto di partire per la prima delle sue trionfali tournée parigine. Ciascuno di loro si esprime con schiettezza, va dritto al sodo senza inutili giri di parole, rivolgendosi al giovane ed entusiasta autore, che magari incidentalmente è anche marchese e potrebbe vantare legami di parentela con varie teste coronate.
Talvolta però le lettere non si limitano ad una semplice comunicazione di notizie teatrali, ma si trasformano in un amichevole confronto di idee, come nel caso di Gaetano Gattinelli, che fu una sorta di mentore per il Pepoli, fornendogli ampie delucidazioni sulla Compagnia Reale Sarda di cui faceva parte, comunicandogli sollecito l’esito delle sue prime produzioni sui teatri di Torino, accettando di vagliare di persona i vari manoscritti che il giovane andava componendo. Infine fu lo stesso Gattinelli che confidò al Pepoli di aver steso un progetto di riforma del teatro drammatico, glielo espose e se lo vide comparire a stampa nell’ultimo numero de «L’Incoraggiamento» (Nota 26).
Nel decennio 1860-1870 le lettere degli attori invece diradano in modo significativo fin quasi a scomparire ed è solo Tommaso Salvini che continua ad inviare brevi messaggi durante le varie tappe delle sue tournée all’estero, lucrose, gratificanti, ma indubbiamente faticose (Nota 27). Poi le missive riprendono a ritmo serrato in particolare quando è prossima l’uscita alla luce di Gabriella, che tutti, pare, vorrebbero mettere in scena, e se la contendono i capocomici Gaspare Lavaggi, Luigi Bellotti Bon, Teodoro Cuniberti, Luigi Biagi, artisti affermati come Cesare Rossi, e le migliori attrici del momento, come Virginia Marini, Alfonsina Aliprandi e Pia Maggi. Però il tenore delle lettere si fa sempre più deferente, perché il Pepoli non è più un giovane autore magari promettente, ma un senatore del Regno, un ex ministro ed ex ambasciatore (anche gli attori o meglio, gli “artisti drammatici”, si fregiano ora spesso del titolo onorifico di “cavalieri”), al quale si inviano generiche espressioni di cortesia, come fanno Adelaide Tessero e Giovanni Emanuel, oppure richieste più o meno esplicite di raccomandazione.
Un caso a parte è costituito dalle lettere di Giacinta Pezzana, una delle più incisive interpreti della scena italiana di fine ‘800, e che mantiene nelle proprie lettere un tono franco e concreto. Del resto i due si conoscono bene da tempo (perché l’attrice aveva sposato il giornalista e drammaturgo Luigi Gualtrieri), e se li aveva divisi una diversa posizione politica (la Pezzana affermò sempre apertamente la sua fede mazziniana e progressista), li avvicinava pur sempre l’amore per il teatro. E di Gabriella si discute infatti nelle lettere, sulla necessità di operare delle modifiche al testo, sulla scelta degli attori più adatti a recitarla, e sui teatri dove rappresentarla.
Una volta esaminate le lettere degli attori tuttavia, si possono esplorare altre buste facenti parte del già citato fondo personale, alla ricerca di ulteriori corrispondenti, a vario titolo legati al teatro. Ed ecco che, tra i “Letterati” (Nota 28), spuntano i nomi di Davide Chiassone, Francesco Dall’Ongaro, Tito Ippolito D’Aste, Paolo Ferrari, Leone Fortis, Vincenzo Martini, Tommaso Gherardi Del Testa, Luca Vivarelli, Luigi Ploner, Tommaso Sajani Zauli, che furono tutti drammaturghi, ed alcuni di loro, di notevole successo. Ma si distinguono, per numero di missive inviate, soprattutto Leone Fortis e Paolo Ferrari, “letterati”se vogliamo, giornalisti, scrittori di teatro, ma anche coetanei del Pepoli e suoi amici per più di venti anni. Li univa all’inizio la comune aspirazione alla notorietà come autori teatrali, obiettivo che il triestino Fortis aveva appena raggiunto, e inaspettatamente, con due torrenziali drammi, Camoes (1850) e Cuore ed Arte (1852), mentre l’avvocato modenese Ferrari, guardato con sospetto in patria per le idee liberali, era stato costretto a scegliere la poco eclatante professione del “poeta di compagnia”, ed era tenuto a fornire per contratto produzioni sempre nuove da consegnare in esclusiva ai capocomici.
L’occasione per contattarli, a quanto pare, partì dal Pepoli che propose ad entrambi di partecipare alla redazione della rivista «L’Arpa». Leone Fortis accettò subito e fin dalle prime missive si diede a dissertare sulle novità che venivano presentate nei vari teatri e ad esprimere qualche giudizio sui recenti drammi del marchese (Nota 29). Poi passò ad elaborare dei progetti che coinvolgessero entrambi: un sistema di stesura di produzioni drammatiche a quattro mani (la “Ditta letteraria Pepoli-Fortis”) e un piano di finanziamento per una nuova rivista teatrale (quella che prese il nome de «L’Incoraggiamento»). Fallita questa ultima, nel luglio del 1856, Leone Fortis proseguì a fare solo il giornalista, fondando e chiudendo periodici, ma seguitò a scrivere regolarmente al Pepoli per tenerlo al corrente delle sue avventure giornalistiche, dei concorrenti ed avversari, dei problemi per lo più finanziari, ma talvolta anche sentimentali, dei suoi spostamenti da Milano a Roma, e, negli ultimi anni, della ricerca spasmodica di un “posto fisso”, ben remunerato, che lo liberasse dall’angoscia dei debiti.
Paolo Ferrari invece si era mostrato all’inizio più titubante ad accettare una collaborazione con la rivista, e restio a parlare delle proprie commedie (Goldoni e le sue sedici commedie e La satira e il Parini) che pure riscuotevano successo, tanto da meravigliarsi quando il Pepoli gli propose di far recitare il Goldoni nientemeno che a Parigi. Con il passare del tempo le sue lettere (in complesso si tratta di 48 missive) si fanno più confidenziali, piene di consigli assennati, condite con scherzose allusioni alla calligrafia del marchese, bella a vedersi ma indecifrabile alla lettura. Sono meno frequenti durante il periodo in cui il Pepoli pare impegnato negli incarichi amministrativi e di governo, sul quale però non manca di far sentire le personali critiche. Ma riprendono con regolarità intorno al 1875, non solo per parlare di Gabriella ma per aiutare l’amico nell’inusitata veste di biografo di Ludovico Ariosto (Nota 30).
NOTE:
*Della stessa autrice cfr. Gioacchino Napoleone Pepoli drammaturgo, in «Strenna storica bolognese», XLI (1991), pp. 87-102. Torna al testo.
Nota 1. Nel Dizionario del Risorgimento nazionale. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, vol. III, Le persone. E-Q, Vallardi, Milano 1933, p. 839, troviamo questa laconica annotazione: «Ancor giovanetto scrisse poesie e drammi, alcuni dei quali come Elisabetta Sirani e Poesia e realtà, ebbero qualche successo». Torna al testo.
Nota 2. Dalle pagine de La Compagnia reale sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855 di Giuseppe Costetti (M. Kantorowicz, Milano 1893) apprendiamo che fin dal 1842 la Compagnia aveva nel proprio repertorio alcune farse del bolognese Luigi Ploner e nel 1843 la commedia Di male in peggio di Augusto Aglebert, mentre nel 1845 troviamo Stravaganza e Rassegnazione del Pepoli e nel 1846 La scuola delle giovani spose. Successivamente furono accolte nel repertorio della Reale Sarda anche la commedia Il direttore di polizia di Savino Savini e il dramma storico Veronica Cybo sempre di Augusto Aglebert (1851) e nel 1852 la commedia Nessuno dei due e il dramma Povertà e Orgoglio del Pepoli. Torna al testo.
Nota 3. La commedia in tre atti recitata a Bologna col titolo de Il Nobile e il Cittadino, e definita sui manifesti come «nuovissima per queste scene», altro non era che Stravaganza e Rassegnazione, già precedentemente comparsa al teatro Carignano di Torino. A decretarne il successo contribuì la consumata maestria degli attori, il “caratterista” Gaetano Gattinelli e il “padre nobile” Luigi Domeniconi, che interpretavano i ruoli principali. L’altra commedia, La scuola delle giovani spose, non si sa che soggetto avesse poiché l’autore ritirò il copione, avendo intuito non avrebbe retto a lungo in teatro. L’esordio del giovanissimo marchese Pepoli sulle scene patrie venne accolto con favore dai periodici cittadini e in particolare da «Il messaggero Bolognese» (nn. 30 e 31 del 1846) e «Il Felsineo» (nn. 42 e 46 del 1846). Torna al testo.
Nota 4. Si allude qui a Il Trionfo del popolo bolognese nell’8 agosto 1848, dramma popolare di Agamennone Zappoli, che andò in scena all’Arena del Sole la sera del 28 agosto, a soli venti giorni dall’episodio d’armi della Montagnola. Torna al testo.
Nota 5. La Lucia di Treviglio venne recitata dalla Compagnia Etrusca, guidata da Giovanni Landozzi e Giovannina Rosa, ma il testo non ci è pervenuto, mentre si è conservato il relativo “Specchio dimostrativo dell’incasso”, redatto dal conte Giovanni Malvezzi de’ Medici e dato alle stampe prima che la somma raccolta durante la recita fosse spedita a Venezia. Torna al testo.
Nota 6. Tanto per citare altri patrioti bolognesi, e autori di teatro, costretti ad espatriare, ricordiamo che Augusto Aglebert e Savino Savini si rifugiarono in Piemonte, e Luigi Chierici salpò per il mar Egeo, mentre lo sfortunato Agamennone Zappoli venne subito arrestato, imprigionato e condannato. Torna al testo.
Nota 7. Cfr. L’onore di mia figlia. Dramma in cinque atti, Libreria teatrale, Firenze 1850, ed Elisabetta Sirani pittrice bolognese. Dramma in tre atti, Libreria teatrale di A. Romei, Firenze 1851. Il primo testo è preceduto da una dedica all’amico Niccolò Puccini che aveva offerto ospitalità al Pepoli durante l’esilio, e da una dichiarazione in cui l’autore avverte di aver tratto l’intreccio da un fatto di cronaca recente, ma suggerisce ai capocomici che intendano recitare il suo dramma un paio di variazioni utili (nessuna allusione al suicidio, ad esempio) per non incorrere nei divieti della censura. Il secondo testo invece è accompagnato da una affettuosa dedica («Permetti che nell’anniversario della tua nascita ti dedichi questo modesto lavoro drammatico. Ti sia esso argomento dell’amore che in te ho riposto, e della gratitudine che ti professo per la domestica felicità che mi fai gustare da oltre sei anni al tuo fianco; felicità che spero non verrà mai meno, e che piglierà sempre maggiore forza nell’amore soave dei nostri figli, a cui nulla posso augurare di meglio che di rassomigliarti nella dolcezza e nella bontà») rivolta alla moglie. La Elisabetta Sirani venne stampata una seconda volta a Bologna nel 1853, ed inserita infine nel primo volume delle Opere teatrali, assieme al doveroso ringraziamento alla Santoni («Non posso fare a meno di tributare pubblico segno di gratitudine; a questa artista che mirabilmente interpretò il carattere della Pittrice e adoperò tale magistero che parecchi Francesi che assistevano alla prima recita ebbero a dire che madame Rachel non avrebbe potuto recitare meglio»), che ne era stata la prima interprete. Torna al testo.
Nota 8. Cfr. «L’Osservatorio. Giornale di architettura, teatri e d’industria», 87 (7 febbraio 1852). Torna al testo.
Nota 9. Si tratta del dramma intitolato Insidia e Riparazione, ma la Compagnia Lombarda, di cui facevano parte Alamanno Morelli e Giuseppina Zuanetti Aliprandi, volle mutar il titolo originario in quello più sintetico de La Gelosia. La vicenda narrata, ambientata in un improbabile castello di Rubiera cinto d’assedio, ricorda infatti vagamente quella di Otello, solo che la sua irreprensibile sposa Agnese, ingiustamente accusata di infedeltà, si salva alla fine grazie al ravvedimento del malvagio consigliere Baldo. Torna al testo.
Nota 10. Cfr. Opere teatrali del marchese Gioachino Napoleone Pepoli, 2 voll., Società tipografica bolognese e ditta Sassi, Bologna 1855, che riuniscono nove produzioni (L’Espiazione, Stravaganza e Rassegnazione, Povertà e Orgoglio, Elisabetta Sirani, Nessuno dei due, Insidia e Riparazione, Ines de Castro, La Rassegnazione materna, Il Mazzo di carte), non disposte in ordine cronologico di composizione, però tutte precedute, come era usanza, da una dedica a qualche persona cara (alla moglie Frida, alla madre Letizia, alla sorella Paolina, a Caterina Hohenzollern-Sigmaringen matrigna di sua moglie, al conte Giovanni Marchetti, a Napoleone Brentazzoli, a Eugenio Scribe, a Matilde Bonaparte Demidoff, e alla memoria del padre). Alla fine del secondo volume veniva annunciata per imminente l’uscita di un terzo volume che però non vide mai la luce. Torna al testo.
Nota 11. La notizia viene riportata da «L’Arpa», 12 (24 ottobre 1855). Va tenuto presente che, dopo il fallimento de «L’Incoraggiamento. Giornale di teatri d’arti e varietà», il Pepoli non abbandonò il sogno di una rivista che desse ampio spazio al teatro recitato e appena i tempi parvero maturi finanziò almeno in parte quel «Piccolo Faust» che nelle mani di Alarico Lambertini era destinato a diventare un quotato giornale teatrale a livello nazionale. Torna al testo.
Nota 12. Cfr. «L’Arpa», 29 (30 gennaio 1856). Per l’occasione venne anche diffuso un avviso a stampa del quale si conserva copia in Biblioteca Comunale dell’Archiginassio di Bologna (d’ora in poi BCABO), Fondo Trebbi, XV, 10. Sempre su «L’Arpa» veniva pubblicato, nel marzo dello stesso anno, il resoconto di una serata musicale organizzata a fini benefici, nella quale le due sorelle del marchese Pepoli cantarono come soliste nello Stabat Mater di Pergolesi. Torna al testo.
Nota 13. Cfr. G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800, Cappelli, Rocca S. Casciano 1901, p. 289. È probabile che il bolognese Giuseppe Costetti, che proprio in quegli anni stava iniziando la sua fortunata carriera di autore drammatico, abbia potuto apprendere dalla viva voce del marchese ragguagli e anticipazioni sull’abbozzato copione che però oggi è da ritenersi perduto. Torna al testo.
Nota 14. La notizia dell’assassinio, segnalata con comprensibile stringatezza dalla stampa periodica, si trova riportata con dovizia di particolari da Enrico Bottrigari (Cronaca di Bologna, vol. I, 1845-1848, a cura di A. Berselli, Zanichelli, Bologna 1960, p. 476), che attribuiva la causa del fatale diverbio all’irascibilità di carattere e al vizio del bere del Lombardi, e compiangeva la «nobile Dama che per sua mala sorte aveva voluto sceglierlo, benché segretamente, a marito». Di tutto altro tenore fu il commosso necrologio comparso nella medesima circostanza su «Il Felsineo» (n. 22 del 1846) e scritto da Augusto Aglebert, che aveva ammirato il Lombardi come attore e come uomo («Dotato di acuto ingegno e di svegliata intelligenza»), che da lui aveva appreso a recitare, con cui aveva condiviso gli ideali mazziniani e i momenti di sconforto («Conobbi i segreti del suo cuore, perché meco pianse»). Sappiamo che il Lombardi, molto amato dal pubblico di mezza Italia, pur avendo abbandonato ufficialmente il teatro poco più che trentenne, ricomparve sporadicamente sulle scene, tra il 1831 e il 1836 in occasione di recite a fini benefici, e che istruì un gruppo di dilettanti di cui fece parte Luigi Pescantini, oltre all’Aglebert. Torna al testo.
Nota 15. Cfr. Poesia e realtà. Dramma in cinque atti del marchese Gioachino Napoleone Pepoli, Regia tipografia, Bologna s.d. Una battuta, nel I atto, pronunciata da Paolo Benedetti che intende mettere in guardia l’amico Armando, offre la spiegazione del titolo dato al dramma: «Tu credi che la vita reale sia simile a quella che noi autori comici il più delle volte poniamo in scena. Guardati amico, dalla poesia». Torna al testo.
Nota 16. La principessa Maria Malvezzi Hercolani, universalmente nota a Bologna come “donna Marì”, in vero non rivelò mai ufficialmente il proprio amore per il prestante attore, più giovane di lei, iniziato in clandestinità quando la donna era ancora moglie di Astorre Hercolani e già madre di tre figli in età da matrimonio, né fornì particolari sulla nascita, nel feudo defilato di Castel Guelfo, di una figlia, cui fu posto il nome di Maria Leucadia (ma che per l’anagrafe risultò di “madre ignota”), della quale si sono perdute le tracce, né tanto meno parlò del matrimonio morganatico con il Lombardi il quale, rimasto al suo fianco con un improbabile incarico di “segretario”, si rovinò l’esistenza. Torna al testo.
Nota 17. Donna Maria Malvezzi moriva ultraottuagenaria nel 1865, ma solo nel 1875 la Compagnia Aliprandi Lavaggi venne autorizzata ad esporre questo dramma al teatro del Corso di Bologna. Non è dato sapere cosa pensasse donna Marì del dramma Poesia e Realtà che la riguardava tanto da vicino ma, essendo una amante del teatro, promotrice dell’Accademia filodrammatica che aveva sede nel suo teatrino privato ed era diretta da una ex attrice, Rosa Pasini Romagnoli, forse se ne compiacque. Torna al testo.
Nota 18. Cfr. Francesco Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresarii, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, E. Dalmazzo, Torino 1860, pp. 396-397. Torna al testo.
Nota 19. Si è conservata qualche copia della locandina (BCABO, Fondo Trebbi, XV, 10) che venne stampata in occasione della recita di Gabriella «dramma nuovissimo in sei atti», la sera del 9 marzo 1875 nel teatro privato di Palazzo Pepoli. Ne furono volonterosi interpreti i dilettanti della Filodrammatica Francesco Albergati diretta da Antonio Colomberti. Il prezzo del biglietti d’ingresso era di 5 Lire, ma grazie alla mondanità della serata e al suo benefico scopo i biglietti andarono presto esauriti. Torna al testo.
Nota 20. Cfr. Gabriella. Dramma in quattro atti di Gioacchino Pepoli, Regia tipografia, Bologna 1876. Il testo è preceduto dalla dedica a lady Otway, nella quale l’autore trova modo di difendersi dalle accuse di plagio che gli erano state rivolte. Riconosce che l’argomento è analogo a quello del dramma di Tebaldo Cicconi intitolato La Rivincita, ma fa notare che entrambi i drammi sono tratti da un noto romanzo francese. Il dramma del Pepoli, drasticamente ridotto da sei a quattro atti, venne affidato alla compagnia Aliprandi Lavaggi, approdò felicemente al teatro del Corso nel gennaio del 1876 e l’autore «venne più volte chiamato all’onore del proscenio». Torna al testo.
Nota 21. Quasi a scusare la pochezza del Benservito del Pepoli, va ricordato che nel 1878, per onorare la memoria di Vittorio Emanuele II vennero allestiti vari spettacoli occasionali e non certo d’alta levatura. A Bologna, ad esempio, si tenne al teatro del Corso una serata «a beneficio del monumento in onore di Vittorio Emanuele II» nella quale la compagnia Cuniberti recitò un dramma in 3 atti intitolato La capanna del Re Galantuomo, seguita da Bologna alla memoria del Re Galantuomo, “canto” di Benedetto Prandi, declamato dall’attrice Giovanna Alberti. Torna al testo.
Nota 22. Cfr. Il benservito di Vittorio Emanuele. Bozzetto di Gioacchino Pepoli, Regia tipografia, Bologna 1878. Il “benservito” cui allude il titolo (ovvero l’attestato di buon lavoro svolto, dato abitualmente dal datore di lavoro ad un suo bravo ex dipendente), consiste in una la lettera scritta da un vecchio soldato di nome Matteo, in cui egli dichiara di aver udito il giuramento fatto dall’allora giovane Vittorio Emanuele dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, e che desidera sia consegnata nelle mani del nuovo re. Torna al testo.
Nota 23. G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800, cit., p. 287. Torna al testo.
Nota 24. Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASBO), Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 8, Fondo personale, Carteggio, Attori. Torna al testo.
Nota 25. Nella la serie degli “Attori” figurano tre accademie filodrammatiche bolognesi, con le quali il Pepoli in diversi periodi della vita intrattenne rapporti: l’Accademia dei Solerti, diretta da Fanny Bettini e con sede presso il teatro privato Loup, cui il Pepoli inviava tra il 1850-1851, alcuni testi da recitare; l’Accademia di palazzo Hercolani di cui fu presidente fino al 1856; l’Accademia Albergati della quale venne eletto “presidente generale” nel 1877. Torna al testo.
Nota 26. Dalle lettere del Gattinelli, tra il 1846 e il 1850, apprendiamo, tra l’altro, che il giovane Pepoli aveva scritto o abbozzato altri testi, come L’Orfano e L’Angelo nero del matrimonio, che alla fine decise di distruggere, mentre la commedia Il Zio e il Nipote, giudicata positivamente dall’attore, venne recitata e rimase per qualche tempo nei repertori. Quando cominciarono a circolare voci su un probabile scioglimento della Reale Sarda, rimasta priva dell’appannaggio statale, Gaetano Gattinelli stese un Progetto al fine di costituire una Società di Incoraggiamento pel teatro drammatico italiano, basato sull’autofinanziamento, che il Pepoli volle stampare integralmente nell’ultimo numero della sua rivista. Torna al testo.
Nota 27. Il grande Tommaso Salvini, reduce dalle Americhe, nel 1878 confessava di non sentirsi più in forma come un tempo, di non riuscire a imparare le parti in pochi giorni e d’aver ridotto a pochi titoli il proprio repertorio. Anche il vecchio capocomico Luigi Pezzana dopo cinquant’anni di onorata carriera, pensava di ritirarsi nel 1878 perché erano «tempi assai tristi per l’arte che langue» a causa della spietata concorrenza e delle «tasse gravose» e annunciava d’essere in procinto di ritirarsi potendo però «tener alta la fronte, colla coscienza d’aver fatto il mio dovere come uomo e come italiano». Torna al testo.
Nota 28. ASBO, Gioacchino Napoleone Pepoli, b. 1, Fondo personale, Carteggio, Letterati. Torna al testo.
Nota 29. Nell’atto I di Poesia e Realtà, gli attori in scena annunciano d’essere in procinto di provare un nuovo dramma intitolato Cuore ed Arte di Leone Fortis. Quasi a contraccambiare la cortesia per la citazione, Leone Fortis, nel recensire su «L’Arpa» (n. 50 del 22 maggio 1855) il dramma Espiazione del Pepoli, da poco rappresentato a Bologna, presentando l’autore, esordisce con queste parole: «Ricco, nobile, illustre, ama l’arte non come tanti per vana pompa, ma per ferma convinzione». Torna al testo.
Nota 30. Cfr. Gioacchino Pepoli, Cenni biografici sulla vita di Ludovico Ariosto, Tipografia dell’Eridano, Ferrara 1875. Torna al testo.
Questo saggio si cita: M. Calore, Gioacchino Napoleone Pepoli drammaturgo e uomo di teatro, in «Percorsi Storici», Serie Atti Numero 1 (2012) [http://www.percorsistorici.it/numeri/serie-atti-numero-1/titolo-e-indice/13-numeri-rivista/serie-atti-numero-1/52-marina-calore-gioacchino-napoleone-pepoli-drammaturgo]