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Linda Giuva

Gli archivi della repressione. Uno sguardo comparato

I cosiddetti archivi della repressione diventano oggetto di riflessione a livello internazionale e di politiche di tutela a livello nazionale alla fine degli anni Ottanta. La fine di numerosi regimi dittatoriali (alcuni esempi solo per l’anno 1989: Germania; Patricio Aylwin vince le elezioni in Cile ponendo fine alla dittatura di Pinochet; in Paraguay il colpo di Stato di militari riformisti; in Sudafrica la sostituzione di Botha con il governo di De Klerk che nel giro di pochi mesi liberò Nelson Mandela) alimentò la preoccupazione sul destino degli archivi delle istituzioni che erano crollate e che, in molti casi, erano state lo strumento al servizio della repressione. Se il campanello d’allarme lanciato dagli archivisti riguardava soprattutto il rischio di perdita di testimonianze ai fini della ricostruzione storica, le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, le associazioni dei cittadini comuni, la nascente società politica e le nuove classi dirigenti dei paesi che si affacciavano alla democrazia evidenziavano i rischi che, in caso di distruzione degli archivi, si sarebbero corsi per lo stesso processo di costruzione della democrazia.
Per i protagonisti di questa stagione politica, l’interesse nei confronti di questa documentazione non era soltanto di tipo culturale. Non si trattava solo di difendere le fonti per gli storici del futuro ma si trattava di ricercare le prove per stabilire le responsabilità politiche e penali, per conoscere il destino di migliaia di oppositori, per risarcire le vittime e le loro famiglie di ciò che era stato loro tolto.
Si trattava di documenti che sarebbero serviti soprattutto ai tribunali e alle “commissioni verità”. Queste ultime sono istituzioni temporanee e prevalentemente nazionali che sorsero in molti paesi in seguito ad autonome iniziative governative, o sotto la pressione di movimenti e di organizzazioni internazionali, o come frutto di negoziazioni e accordi politici con il compito di fare i conti con il passato lasciando alle autorità politiche e giudiziarie quello di risarcire, assolvere, condannare. In molti casi furono, e sono, investite del mandato di fornire raccomandazioni per evitare la ricorrenza della violazioni.
In occasione della Tavola rotonda tenuta a Città del Capo nel 1993, l’International Council on Archives (Ica) decise di formare un gruppo di esperti per discutere dei problemi relativi agli archivi della repressione e stendere alcune raccomandazioni sulla loro gestione archivistica. Sin da questa prima fase, gli archivisti lavorarono a stretto contatto con altre figure professionali: storici, giuristi e attivisti dei diritti umani.
Nel gruppo di lavoro Unesco-Ica (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization-International Council on Archives) furono affrontate diverse questioni e molte furono le posizioni presenti. Per esempio si discusse se elaborare un set preciso di regole oppure, in considerazione dei differenti processi politici di transizione e dei differenti ruoli svolti dagli archivi in tali processi, fornire ai paesi colleghi archivisti che affiancassero il personale locale addetto alla gestione degli archivi. Punti di accordo furono trovati nella lista di raccomandazioni pubblicata nel primo rapporto Quintana del 1997 che riguardavano sia aspetti di metodologia archivistica che di politica archivistica.
Nel determinare l’attenzione internazionale nei confronti di questi temi – in particolare nel creare una stretta connessione tra archivi e diritti umani – anche da parte di settori fino ad allora lontani dalle problematiche archivistiche, grande influenza ebbe il lavoro compiuto da Louis Joinet che dal 1991 lavorava al tema della lotta contro le impunità delle violazioni dei diritti umani e che presentò tra il 1997 e il 1998 un rapporto Sulla impunità degli autori delle violazioni dei diritti umani, fatta propria dalla Commissione diritti umani delle Nazioni unite. Fu in questa relazione che venne affermata in una sede non archivistica e autorevole come le Nazioni unite, la necessità di conservare gli archivi come condizione essenziale per l’affermazione del diritto a sapere, individuale e collettivo.
Per la prima volta, il richiamo all’importanza rivestita dalla conservazione degli archivi fuoriesce dai confini limitati della comunità archivistica e si impone in maniera consapevole e collettiva in ambienti più vasti e nuovi, temi e concetti si affiancano in maniera inedita; il recupero e la preservazione delle carte diventano un obiettivo politico di movimenti e di governi; si costruiscono relazioni significative con attori e agenzie che hanno a cuore le denuncia delle violazioni e le politiche di difesa dei diritti umani.
Il valore principale invocato per la conservazione degli archivi è solo in minima misura la ricostruzione del passato a fini storici e culturali. In gran parte la salvezza degli archivi è richiesta per stabilire le responsabilità individuali e collettive, per procedere alle riparazioni alle vittime. In questa battaglia, gli alleati non sono solo gli storici ma i movimenti e le associazioni delle vittime, i tribunali, le “commissioni verità”, i parlamenti. Di qui anche le implicazioni etiche e deontologiche per gli archivisti per la custodia e il trattamento di tali fondi.
Leggendo e confrontando i principi di Joinet recepiti dalla Commissione dei diritti umani dell’Organizzazione nazioni unite (Onu) nell’aprile del 1998 (52ª riunione, U.N. Doc. E/CN.4/1998/53) sotto la voce Impunità con la loro revisione effettuata da Diane Orentlicher nel 2005 sempre per l’Onu, possiamo notare come il processo sopra descritto si sia approfondito e reso maggiormente evidente.
Nel 1998 al Principio 16 (Misure per favorire la consultazione degli archivi) si legge: «Se deberá facilitar la consulta de los archivos, sobre todo para favorecer la investigación histórica. En principio, las formalidades de autorización tendrán por única finalidad permitir el control de la consulta y no podrán aplicarse con fines de censura».
Sarà al Principio 18 (Misure specifiche relative agli archivi di carattere nominativo) che si parlerà di diritti soprattutto di natura individuale:

a) Se considerarán nominativos a los efectos del presente Principio los archivos que contengan información que permita, de la manera que sea, directa o indirectamente, identificar a las personas a las que se refieren, cualquiera que sea el material utilizado para archivar la información, ya se trate de legajos o de ficheros manuales o informatizados 

b) Toda persona tendrá derecho a saber si figura en dichos archivos y, llegado el caso, después de ejercer su derecho de consulta, a impugnar la legitimidad de las informaciones que le conciernan ejerciendo el derecho de réplica. El documento en que exponga su propia versión deberá adjuntarse al documento impugnado. 

c) Salvo cuando tales informaciones se refieran a sus responsables o a colaboradores permanentes de los servicios de seguridad e información, las informaciones nominativas que figuren en los archivos de esos servicios no podrán ser las únicas pruebas de cargo, a menos que sean corroboradas por otras fuentes fidedignas y diversificadas. 

Nel testo approvato nel 2005 il Principio 16 diventa Principio 15 e recita:

Access to archives shall be facilitated in order to enable victims and their relatives to claim their rights. Access shall be facilitated, as necessary, for persons implicated, who request it for their defence. Access to archives should also be facilitated in the interest of historical research, subject to reasonable restrictions aimed at safeguarding the privacy and security of victims and other individuals. Formal requirements governing access may not be used for purposes of censorship. 

La ricerca storica è in sordina quasi in secondo piano: sono i temi dei diritti individuali a fondare la motivazione per la conservazione e l’accesso.
Grazie allo studio portato avanti dal gruppo di ricerca internazionale Unesco-Ica dal 1993 al 2008 (in particolare per i risultati conseguiti nella prima fase della ricerca che va dalla costituzione del gruppo nel 1993 fino al primo rapporto Quintana del 1997 sugli archivi dei paesi passati da regimi totalitari alla democrazia tra il 1974 e il 1994), abbiamo a disposizione concetti e classificazioni che rendono possibile uno studio comparato di questi archivi:
1. la definizione del concetto di repressione non riguarda solo le idee politiche ma investe anche il comportamento ideologico, la religione, le idee filosofiche, il comportamento sessuale e altri domini indicati dalla dichiarazione dei diritti universali dell’uomo;
2. l’individuazione delle istituzioni della repressione classificate sulla base dell’ordinarietà o della straordinarietà delle strutture e degli interventi;
3. la classificazione degli archivi della repressione sulla base della provenienza e della formazione. Si parla pertanto di:
- archivi del terrore o dell’orrore per indicare quelli propri delle istituzioni ordinarie o straordinarie preposte al controllo e alla persecuzione delle vittime, implicati direttamente nella violazione dei diritti umani;
- archivi del dolore per i documenti degli organismi sorti per la difesa o la denuncia delle violazioni (organizzazioni delle vittime, partiti, sindacati e associazioni di opposizioni clandestine o in esilio, entità religiose, collettivi di avvocati, organizzazioni civili…);
- archivi della giustizia per indicare quelli delle istituzioni sorte per indagare e giudicare le responsabilità o per riparare i danni causati alle vittime. Con questa definizione si intendono prevalentemente gli archivi delle istituzioni di giustizia transizionale quali le commissioni per la verità e i tribunali internazionali che sono per definizione temporanee, create per raggiungere determinati obiettivi e poi destinate alla soppressione;
- archivi della quotidianità per quelle fonti che apportano “in maniera imprevedibile” prove sulla violazione dei diritti.
Questa classificazione ha una sua importanza soprattutto a fini metodologici e di trattamento archivistico. In essa è presente però anche una gerarchia costruita in relazione al potere probante che tale documentazione assume nella ricostruzione delle responsabilità. I documenti conservati negli archivi del terrore, proprio perché prodotti direttamente dalle istituzioni repressive, sono considerati prove incontestabili delle responsabilità. Ma, soprattutto in mancanza di questi archivi, anche i documenti conservati nelle altre istituzioni acquistano valore probante. L’aggiunta degli archivi della quotidianità, avvenuta nel rapporto Quintana del 2008, se rappresenta sicuramente un allargamento del campo di indagine (ai fini per esempio del censimento di queste fonti) alle “fonti imprevedibili”, introduce anche un mutamento, e una maturazione, della relazione archivi – diritti, che si presta a essere emancipata dalla stretta dipendenza con il tema della repressione per svilupparsi anche nella direzione dell’assunzione degli archivi nel loro complesso come testimoni della applicazione/violazione dei diritti umani.
Gli altri elementi che vengono messi in evidenza dallo studio condotto in questi anni riguardano la morfologia degli archivi, le tipologie documentarie, le modalità della sedimentazione. Esistono impressionanti continuità, parallelismi e uniformità di comportamenti e pratiche documentarie che travalicano i confini territoriali, le culture archivistiche, gli ambiti cronologici. Si pensi all’ossessione documentaria e alla conseguente accumulazione di documenti e dati, all’organizzazione efficiente degli archivi, alla presenza costante di determinate tipologie documentarie come quelle relative alle operazioni compiute, ai fascicoli intestati a persone e a organizzazioni e movimenti antigovernativi, alle schede dove sono riportate tutte le informazioni desunte da altre fonti in maniera tale da permettere ricerche rapide, ai documenti e archivi sequestrati.
Diversi, e di varia natura sono i luoghi che oggi conservano questi fondi: istituti appositamente creati per conservare gli archivi dei servizi di sicurezza dei regimi repressivi (la polizia politica della Germania dell’Est, la famosa Stasi); presso la sede dove sono stati scoperti gli archivi (Guatemala); centri di documentazione privati che possono conservare veri e propri archivi o corpi documentari più vasti che abbracciano documenti di diversa provenienza e natura come, per esempio, la documentazione raccolta o prodotta dai movimenti di opposizione e di resistenza, da singoli protagonisti; gli Archivi nazionali statali; gli enti che hanno ereditato le competenze o dell’istituzione che ha indagato e giudicato o dell’istituzione che ha ereditato le competenze delle strutture della repressione.
Prendiamo il caso dell’Argentina. L’archivio della Comisiòn nacional sobre la desapariciòn forzada de personas, l’archivio degli avvocati delle vittime, l’archivio della Comisiòn nacional por el derecho a la identitad, il materiale audiovisivo del processo alla Giunta militare del 1984, sono conservati all’Archivo nacional de la memoria, alle dipendenze del Segretariato dei diritti umani del Ministero della giustizia e dei diritti umani. Archivi parziali di alcune Divisiones de Inteligencia de policìas provinciales e i fascicoli processuali di alcune cause sono conservati presso istituzioni archivistiche pubbliche locali. Non sono stati ritrovati gli archivi delle forze armate, di quelle di sicurezza e del Ministero degli esteri, che sarebbero dovute essere conservate presso l’Archivo general de la Naciòn. Documentazione abbondante si trova invece negli archivi delle numerose organizzazioni non governative per i diritti umani, attive sia durante che dopo la dittatura, che raccolgono sia il materiale direttamente prodotto, che quello dei privati, degli avvocati.
Nel 1992, in un sotterraneo di Asunción, venne scoperto l’archivio segreto della polizia del regime del Paraguay relativo ai 35 anni di dittatura militare con documentazione anche dei governi che precedono Stroessner. Dall’analisi di questi documenti è stato possibile risalire all’intera struttura della repressione e definire le responsabilità di tutta la gerarchia della macchina repressiva: dai semplici informatori ai delatori, dai poliziotti ai torturatori, dai capi zona fino agli ufficiali di vari gradi, fino al dittatore. Inoltre, l’archivio contiene le prove cartacee dell’esistenza della Operacion Condor, dell’organizzazione e del coordinamento tra i vari servizi segreti delle dittature latinoamericane. Oggi l’archivio è conservato presso il Centro de documentación y archivo para la defensa de los derechos humanos Corte Suprema de Justicia de Paraguay, Asunción.
Le carte degli organismi dello stato sovietico sono stati versati nell’archivio nazionale russo.
Considerata l’esperienza più importante del Sud America in quanto a recupero degli archivi della repressione, tra il 1991 e il 1996 il Brasile ha trasferito negli archivi pubblici le carte delle polizie politiche dei suoi stati, in alcuni casi costituendo presso gli stessi dei centri per la memoria collettiva che hanno il compito specifico di trattare questi fondi.
Con l’inserimento degli archivi del Paraguay e della Cambogia nel registro Unesco della Memoria del mondo nel 2009, si riconosce la dimensione universale degli archivi della repressione, il cui valore supera i confini degli Stati-nazione e la dimensione storica conquistando una funzione simbolica che trascende l’uso storico che di essi si può fare.

 

Questo saggio si cita: L. Giuva, Gli archivi della repressione. Uno sguardo comparato, in «Percorsi Storici», 0 (2011) [http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/18-linda-giuva-gli-archivi-della-repressione-uno-sguardo-comparato]

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