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Percorsi di ricerca all’Archivio di Stato di Bologna nel fondo “Sovversivi” e in quello della Corte d’Assise straordinaria

a cura di Dianella Gagliani

 

Per lungo tempo l’Archivio di Stato di Bologna – centro documentario di sicuro e imprescindibile interesse per gli studiosi di altri periodi storici – era stato sostanzialmente disertato dai ricercatori di storia contemporanea che indirizzavano i loro studi al Novecento e, in particolare, agli anni del regime fascista, della seconda guerra mondiale e del secondo dopoguerra. L’assenza delle carte della prefettura a partire dal 1928 obbligava quanti intendevano concentrarsi sulla situazione politica e sociale della fine degli anni Venti, ma anche degli anni Trenta e anni Quaranta a rivolgersi ad altre sedi archivistiche e soprattutto all’Archivio centrale dello Stato nel tentativo di recuperare la documentazione inviata dalla periferia provinciale agli organismi istituzionali nazionali e di ricostruire in tal modo, per quanto possibile, le vicende locali.
Negli ultimi tempi la situazione è cambiata, non tanto perché si sia ricucito quel vulnus documentario, quanto perché sono stati finalmente versati all’Archivio di Stato fondi archivistici di indubbio valore. Nel caso del fondo “Sovversivi” proveniente dall’archivio della Questura, possiamo perfino contare su un’ottima e speciale catalogazione che ne consente una più spedita consultazione. Nel caso delle carte della Corte d’Assise straordinaria, giacenti da anni presso l’Archivio, l’aumento della distanza temporale dal 1945-1947, da quando cioè quella Corte operò, rende meno difficoltoso allo studioso l’accesso alla documentazione.
Possiamo dunque dire che per i contemporaneisti novecentisti l’Archivio di Stato di Bologna ha cominciato a essere attraente. Non solo: si è creata una fruttuosa collaborazione fra storici e archivisti anche grazie alla mediazione dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna (Isrebo), che si è mostrato nei suoi organismi dirigenti particolarmente sensibile a questa documentazione e allo sviluppo degli studi su questi terreni. Senza la speciale triangolazione fra Archivio di Stato, Isrebo, Università non si sarebbe giunti né alle prime ricerche sviluppate dagli studenti del mio seminario della laurea magistrale in Scienze storiche, i cui risultati furono discussi il 14 luglio 2010 alla presenza significativa della direttrice dell’Archivio, Elisabetta Arioti, e dei maggiori esperti di queste specifiche fonti, Carmela Binchi e Salvatore Alongi, né ai saggi che qui si pubblicano e che danno conto, se pur succintamente, dell’esito di tre tesi della medesima laurea magistrale.
Claudia Locchi e Marco Torello si sono indirizzati al fondo “Sovversivi”, analizzando, la prima, i fascicoli di tutti coloro che furono schedati come “socialisti” dal 1872 (data di inizio del fondo) al 1913; il secondo tutti i fascicoli aperti dal 1918 al 1922. Un lavoro sistematico in entrambi i casi. Non solo e non tanto per le cifre che ci vediamo sfilare davanti: 700 schedati come “socialisti” dal 1872 al 1913; 598 nuovi schedati come “sovversivi” fra il 1918 e il 1922. Ma anche e principalmente per le ulteriori e rilevanti informazioni che ci vengono offerte. Sia riguardo alla geografia del “sovversivismo” – che conferma per alcuni decenni il ruolo svolto dalle lotte e dall’organizzazione socialista nelle campagne –, sia per quanto riguarda l’età anagrafica – i “sovversivi”, nella stragrande maggioranza, erano giovani al momento della prima schedatura –, sia per i caratteri del controllo di polizia e delle forme persecutorie, sia per la mentalità delle forze dell’ordine, sia per l’individuazione di chi era ritenuto “sovversivo”, sia ancora per le vicende dei medesimi “sovversivi” seguite fino alla chiusura dei fascicoli di polizia, avvenuta talvolta oltre la fine della seconda guerra mondiale.
Claudia Locchi si concentra in particolare su un nodo centrale della nostra storia nazionale, quello relativo ai limiti del nostro Stato di diritto in piena età liberale, in virtù della scelta di derubricare l’opposizione politica a delinquenza comune, una scelta che permetteva di mostrare una facciata liberale mentre nell’interno si consumavano soprusi tipici di uno Stato assoluto. Dipendesse da questi criteri, o meno, sta di fatto che l’analisi dei fascicoli degli schedati come “socialisti” fino all’anno precedente all’inizio della prima guerra mondiale consente di portare alla luce una cultura delle forze preposte all’ordine pubblico degna di ogni nostra attenzione.
Lo schermo di stereotipi in forza dei quali i braccianti, gli operai e le classi popolari in genere non dovevano essere inclusi nella cittadinanza politica e sociale, perché facenti parte di un universo “altro”, “naturalmente” inferiore, che tutt’al più si poteva proteggere se dava garanzie di obbedienza e di accettazione della sua condizione subalterna, possiamo ritrovarlo ancor oggi o si può riproporre, pur con tratti e soggetti mutati.
Il grado del controllo, della repressione e della persecuzione, che con il fascismo diventa un accanimento feroce che dispiega livelli indicibili di violenza psicologica e morale, al fine di distruggere la vita, l’identità e la dignità dell’oppositore politico, affiora con tutta evidenza. Una cruda realtà che contesta ogni visione che vorrebbe il nostro fascismo come mite e bonario proprio in ragione del destino riservato agli oppositori.
Marco Torello ci offre l’identikit del “sovversivo” che si affaccia nei fascicoli della Questura dal 1918 al 1922: «un individuo di sesso maschile, con un’età media di 29 anni, proveniente dalla provincia bolognese e di origine contadina (o al più operaia), con una chiara propensione per ideali associabili al socialismo». Qui viene sviluppata significativamente un’analisi sulla debole presenza femminile nel casellario politico provinciale (in totale, del resto, le donne sono 483 su 8.644 persone schedate) cogliendo, tramite la lettura delle carte esistenti nei fascicoli, la concezione di “minorità”, di “incapacità d’intendere e volere” e, quindi, di subalternità agli uomini che si può individuare presso le forze dell’ordine preposte al controllo politico. Anche in questo caso, la realtà che spunta dalle stesse fonti propone figure femminili ben più autonome e salde, in aperta contraddizione con gli schemi concettuali utilizzati.
Se il sovversivo-tipo di questi anni partecipa dell’articolato universo socialista, lo scavo archivistico ha evidenziato un’attenzione particolare alle posizioni antimilitariste nell’ultimo anno di guerra e una relazione molto stretta fra autorità civili e autorità militari rivolta a censire il minimo accenno che potesse rubricarsi come “disfattista”. Va da sé che si dovrà ampliare l’indagine agli anni 1914-1917 per verificare il peso delle preoccupazioni verso l’antimilitarismo, ma è già importante aver rilevato questo dato.
Vorrei infine accennare a un ultimo aspetto, quello dei vuoti documentari, che qui si considerano per i fascisti della prima ora. Sembra infatti bizzarro che nel 1919 e, ancor più, nel 1920, 1921 – quando lo squadrismo nacque e si sviluppò nella provincia in forme straordinariamente violente – nessun fascista abbia fatto il suo ingresso nel casellario politico provinciale dei “sovversivi”. Chissà che – come su un piano nazionale non si ritrovano nel Casellario politico centrale né il fascicolo di Mussolini né i fascicoli di quanti e quante gli furono vicini nello stesso periodo della sua militanza socialista – anche il piano provinciale abbia subìto quelle che sono individuabili come evidenti “epurazioni”.
Isabella Manchia ha lavorato sul fondo della Corte d’Assise straordinaria per ricostruire la storia di Renato Tartarotti e del suo reparto. La lettura attenta di tutte le carte del fondo (nonché di fascicoli particolari di altre serie archivistiche) le ha consentito di sciogliere diversi nodi relativi alla figura dell’unico “collaborazionista” attivo in provincia di Bologna la cui condanna alla pena di morte fu eseguita.
Vediamo innanzitutto svolgersi la sua carriera, celerissima, da sergente maggiore a capitano nel giro di pochi mesi, il suo passaggio dal partito fascista alla Questura sotto l’egida del questore Tebaldi, la sua attività di spietato repressore dell’opposizione politica e del partigianato. Ma scorgiamo anche un suo impiego diretto a razziare oro e altri beni altrettanto preziosi. Nel dopoguerra fu facile addebitare al solo Tartarotti queste espropriazioni interpretate, per di più, come esclusivo desiderio di arricchimento personale. Oggi non possiamo non chiederci quanto quei “recuperi” rispondessero a richieste dei dirigenti provinciali o, addirittura, nazionali. Ciò che getta luce su un altro nodo che qui si affronta: quello dell’autonomia del reparto di Tartarotti da qualsiasi autorità della Repubblica sociale italiana (Rsi).
In analogia ad altre cosiddette “bande” – come la Carità, la Koch, la Legione Muti – la compagnia di Tartarotti, se pur ebbe un raggio di azione più ridotto rispetto a quelle, risulta che fu autonoma solo riguardo agli strumenti da utilizzare, non riguardo agli obiettivi, stabiliti da specifiche autorità della Rsi. La Rsi, dunque, si configura una volta di più come responsabile centralmente dell’attività delle cosiddette bande “autonome”, naturalmente responsabili, per parte loro (dei loro comandanti e dei loro semplici sottoposti), di aver eseguito gli ordini ricevuti.
Giustamente Isabella Manchia pone la questione delle responsabilità più allargate davanti alla costruzione postbellica di un unico “mostro”, Tartarotti in questo caso, il cui processo e la cui punizione poterono lenire le sofferenze, le angosce e le apprensioni patite dalla popolazione nei lunghi mesi dell’occupazione tedesca; ma non rappresentarono una piena giustizia, poiché furono mandati assolti o presto furono amnistiati molti dei responsabili maggiori (per non parlare dei minori).

 

Questo saggio si cita: D. Gagliani, Percorsi di ricerca all’Archivio di Stato di Bologna nel fondo “Sovversivi” e in quello della Corte d’Assise straordinaria, in «Percorsi Storici», 0 (2011)[http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/43-gagliani-percorsi-di-ricerca]

Matteo Troilo, Storie e protagonisti del turismo a San Marino. Un contributo essenziale all'economia della Repubblica, Collana sammarinese di studi storici, San Marino 2011

(Luca Piras)


La Repubblica di San Marino possiede una considerevole vocazione turistica che si è creata negli anni grazie al fatto di essere un piccolo stato indipendente dotato di un centro storico di rilievo. Le sue strette e scoscese strade sono affollate ogni giorno da centinaia di persone attratte dalla particolarità di questa terra. Il fenomeno è però meno scontato di quanto possa sembrare e proprio per questo di grande interesse. Quante di quelle centinaia di persone rientreranno la sera a casa o in un’altra località di villeggiatura, invece di passare la notte negli alberghi della Repubblica? Quanti di quei visitatori possono, quindi, essere definiti dei veri turisti e non dei semplici escursionisti giornalieri?
Il libro di Matteo Troilo, Storia e protagonisti del turismo a San Marino, tenta di rispondere a queste domande andando alla radice del fenomeno studiandone la storia e indagandone le radici. Il lavoro è diviso in due parti: nella prima si ricostruisce la storia con i suoi aspetti cronologici e istituzionali, nella seconda si dà voce ai protagonisti con le vicende biografiche e imprenditoriali.
La prima parte del libro riguarda quindi le vicende cronologiche del turismo sammarinese nelle sue varie fasi, da quando cioè pochi e colti visitatori ottocenteschi azzardavano una visita sin sopra al monte Titano, fino allo sviluppo del turismo di massa e all’entrata di San Marino nel Patrimonio dell’umanità dell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization). Tutto ciò analizzando elementi come lo sviluppo dei collegamenti con l’Italia, le politiche pubbliche di promozione del turismo e lo sviluppo economico della Repubblica. Questa parte è divisa in quattro capitoli che corrispondono anche a diverse epoche della storia del turismo italiano e internazionale. Il primo capitolo tratta perciò del turismo ottocentesco e della prima metà del Novecento con la transizione da turismo di élite a turismo per tutti. La ferrovia voluta dal regime fascista italiano consentì, in particolare, alla piccola repubblica di ricevere migliaia di visitatori giornalieri provenienti dalla vicina Rimini. Il secondo capitolo tratta dei primi anni del dopoguerra molto interessanti per la storia sammarinese perché sono quelli in cui si vivono le più gravi crisi diplomatiche con lo stato italiano. Tra il 1949 e il 1951 San Marino istituì un casinò che fu il più possibile boicottato dalle autorità italiane fino alla creazione di un vero e proprio blocco doganale tra i confini dei due stati. Nel 1957 si ebbe la cosiddetta crisi di Rovereta, quando per alcuni giorni ci furono ben due governi sul monte Titano, uno dei quali pienamente appoggiato dal governo di Roma. In entrambi i casi le autorità sammarinesi furono costrette a cedere alle pressioni italiane in quanto il blocco della dogana, impedendo i transiti turistici, rischiava di condurre la piccola repubblica alla bancarotta. Il terzo capitolo entra nel vivo del turismo di massa e arriva sino alla crisi degli anni Novanta che ha portato a un mutamento di impostazione in questo settore. Il quarto capitolo è perciò dedicato a quello che viene definito come turismo postmoderno o turismo globale, la fase che stiamo vivendo attualmente. Questo periodo è caratterizzato da un rinnovamento sostanziale dell’offerta turistica legata soprattutto all’utilizzo di internet e a nuove forme di promozione. San Marino ha in tal senso reagito alla crisi degli anni Ottanta-Novanta migliorando il proprio centro storico e aprendosi alle nuove tecnologie.
La seconda parte del volume è dedicata ai protagonisti di questo percorso, gli albergatori innanzitutto, principali artefici della crescita del settore, ma anche le istituzioni culturali e gli addetti al commercio, entrambi fondamentali nella storia sammarinese nell’arricchire l’offerta turistica. Nella parte dedicata agli albergatori l’autore ha ricostruito, tramite archivi e testimonianze, le storie dei fondatori degli alberghi, spesso emigranti di ritorno, che investirono nella loro terra il patrimonio di denaro e esperienza accumulati nei viaggi all’estero. San Marino ha oggi circa 30 strutture alberghiere che vanno dall’Hotel Titano, inaugurato nel 1894 e che ebbe come primo ospite il poeta Giosuè Carducci, a un modernissimo albergo della catena Best Western inaugurato da poco e dedicato al turismo degli uomini d’affari e al turismo congressuale. Completare il libro i capitoli dedicati ai musei e al commercio. L’offerta turistica di San Marino si completa infatti con i musei, solo alcuni con una storia lunga e molto interessante, e con i centri commerciali posti al confine con l’Italia. Grazie a un regime fiscale differente, San Marino ha infatti potuto anticipare negli anni Novanta la fase di costruzione dei grandi centri commerciali, oggi presenti in tutto il territorio italiano. Le motivazioni che hanno portato l’Unesco a fare entrare San Marino nel 2009 tra i siti del Patrimonio dell’umanità sono legate all’idea di secolare libertà che governa la piccola repubblica; hanno quindi poco a che fare con il commercio e il turismo d’affari e dei congressi. Il turismo a San Marino sì è però nella storia sviluppato anche grazie a questi aspetti che fanno sì ancora oggi, come dice l’autore nell’introduzione, che il fenomeno sia molto meno scontato di quanto si possa pensare.

Camilla Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, Laterza, Roma-Bari 2011

(Roberta Mira)


Il confino politico fu istituito dal regime fascista nel novembre 1926 come misura di prevenzione di delitti contro lo Stato o contro la società, in seguito a una serie di falliti attentati a Mussolini presi a pretesto per dimostrare la necessità di promulgare leggi eccezionali per difendere lo Stato.
Il fascismo mutuò l’istituto del confino da provvedimenti applicati in precedenza dai governi italiani, principalmente dal domicilio coatto, introdotto a partire dai primi anni successivi all’Unità e utilizzato accanto allo stato d’assedio e ad altre misure militari e di polizia in situazioni considerate d’emergenza: per esempio nella repressione di fenomeni come il brigantaggio, di tumulti e insurrezioni o di movimenti come i Fasci siciliani; o ancora in periodi di guerra per prevenire lo spionaggio, la connivenza con il nemico, il disfattismo e il pacifismo.
Rispetto al domicilio coatto dell’età liberale il confino politico fascista si caratterizzò, secondo Camilla Poesio, per la sua «natura politica più definita», per una maggiore durezza, un più alto livello di specializzazione e per il suo uso esplicito come mezzo di «repressione del dissenso politico [...] deterrente, [...] minaccia, [...] strumento per incutere paura potendo colpire indistintamente chiunque» (pp. 14-15).
Come tale, il confino rappresentò un mezzo fondamentale per la costruzione e il mantenimento della dittatura fascista e non un effetto o una manifestazione di quest’ultima. Chiedendosi in quale misura lo scardinamento dello stato di diritto sia utile per l’instaurazione di una dittatura, il testo mostra come il fascismo abbia violato profondamente lo stato di diritto anche attraverso l’istituto del confino che sostituiva una misura di polizia, come la detenzione preventiva in assenza di reato, a provvedimenti giudiziari basati sulle norme vigenti, sul principio di legalità formale, secondo cui non esistono reati – e conseguenti punizioni – senza una legge che li preveda, e su processi e sentenze. Chi veniva confinato non doveva necessariamente aver commesso un reato, poiché era sufficiente che fosse ritenuto pericoloso per lo Stato per la sua appartenenza a organizzazioni e partiti antifascisti, per la sua attività politica, per le sue idee, ma anche per il suo passato prima dell’avvento del fascismo, per le sue frequentazioni, le sue relazioni di parentela, le sue letture, per pratiche e atteggiamenti ritenuti contrari al regime e alle direttive politico-morali fasciste, come l’omosessualità o l’aborto, per aver pronunciato frasi considerate irrispettose nei confronti di Mussolini e gerarchi.
Poesio prende in considerazione il confino nei suoi diversi aspetti: dall’esame della popolazione confinaria, limitatamente ai politici; alla descrizione delle modalità di arresto e trasferimento e delle condizioni di vita al confino; dall’analisi dei luoghi scelti come destinazioni dei confinati e dei motivi politici, di sicurezza ed economici alla base della selezione; a una breve disamina dei rapporti con la popolazione residente nelle zone di confino. L’autrice presta attenzione anche ai responsabili delle colonie confinarie e ai membri dei corpi di guardia, sottolineando come questi ultimi provenissero in maggioranza dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale anziché dalla polizia, fatto che diede luogo anche ad alcuni contrasti in diverse colonie, e trovando nel carattere prettamente politico della Milizia la spiegazione principale per la scelta del regime di affidare la sorveglianza dei suoi oppositori – o presunti tali – alla «guardia armata della Rivoluzione» fascista (p. 86).
Il volume è completato da un’interessante excursus sull’istituto della Schutzhaft (custodia preventiva) nazista, introdotta subito dopo l’incendio del Reichstag del febbraio 1933 per avallare l’arresto in massa degli avversari politici di Hitler e più simile al confino di polizia fascista che al sistema dei campi di concentramento come si sviluppò negli anni successivi. Attraverso l’analisi della Schutzhaft, Poesio riflette sulla specificità – o non specificità – italiana e fascista del confino, passa in rassegna i principali accordi di collaborazione fra la polizia tedesca e quella italiana, affronta somiglianze e differenze fra i due istituti. Il caso della Schutzhaft, come quello del confino, rende evidente come queste misure di polizia abbiano rappresentato degli strumenti indispensabili per nazismo e fascismo per affermare il loro potere, decretando la fine o lo svuotamento dello stato di diritto preesistente e cancellando i diritti civili, sociali e politici delle persone colpite da tali forme di detenzione preventiva.
Inserendosi nel filone storiografico sul confino – apertosi negli anni Settanta del Novecento e arricchitosi in tempi più recenti grazie ad analisi su diverse realtà confinarie e su aspetti specifici – e in quello degli studi dedicati al carattere repressivo del fascismo, nonché avvalendosi dell’apporto di altre discipline, il volume costituisce un agile contributo all’approfondimento della conoscenza del fascismo e degli strumenti di cui esso si servì per ergersi a dittatura, un contributo che sgombra il campo da letture distorte ed edulcorate del confino di polizia fra il 1926 e il 1943.

Sergio Costalli, In viaggio verso Itaca. Pratiche e riflessioni di un cooperatore tra futuro e realtà, prefazione di Stefano Zamagni, Mind edizioni, Milano 2011

(Laura Brini)

 

Nominare Itaca ci rimanda immediatamente al personaggio mitologico di Ulisse, ai concetti di avventura, di ritorno a casa, di viaggio. Proprio di un viaggio si tratta in queste pagine, viaggio inteso come un percorso da compiere, in cui i protagonisti sono le società cooperative, ma anche i loro soci e più in generale i consumatori. Quello che viene qui recensito è un libro che analizza e problematizza l’attualità, ma che è pure di grande interesse per gli studiosi di storia del movimento cooperativo.
Sergio Costalli, vicepresidente di Unicoop Tirreno – una delle nove grandi cooperative di consumo riunite dietro al marchio Coop –, raccoglie in In viaggio verso Itaca dieci riflessioni sul tema del cooperativismo che condividono un obiettivo fondamentale, un’unica meta: la riscoperta e la rivalutazione dei suoi valori, quali la tutela dei diritti dei consumatori, della salute e della sicurezza sul lavoro, il consumo etico e l’etica d’impresa.
Per il raggiungimento di tale obiettivo gioca un ruolo importante l’archivio storico di Unicoop Tirreno, fondato a Ribolla (GR), e diretto da Enrico Mannari, che pure ha collaborato alla realizzazione del presente volume. La scelta del luogo affonda le sue radici nella lunga tradizione dei lavoratori, minatori in particolare, che fin dal 1945 diedero vita al movimento cooperativo nella provincia di Grosseto, credendo negli ideali della democrazia e del progresso. È in linea con il loro pensiero, ancora radicato nel territorio dopo oltre sessant’anni, che si è sviluppata una crescente attenzione verso la cultura d’impresa e i suoi documenti, di cui l’archivio è espressione.
Ma come può un archivio storico partecipare attivamente alla promozione di valori presso i cittadini? La risposta di Costalli è la seguente: l’archivio (ora gestito dalla Fondazione Memorie cooperative, nata il 20 giugno 2011) prevede il ricorso non soltanto a documenti scritti, ma anche a fotografie, filmati e soprattutto testimoni, in modo che divenga un luogo dove fare «storia, ma anche memoria». Un archivio che sia quindi sì utile per la ricerca, ma anche e soprattutto per la trasmissione di un senso di appartenenza e di identità che si conservi nel tempo.
Un altro tema fondamentale affrontato all’interno del testo è la differenza tra luoghi e nonluoghi. Per nonluoghi sono da intendersi (secondo la definizione di Marc Augé, creatore del termine, nella sua opera Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità) gli spazi, sempre più sviluppati in epoca postmoderna, utilizzati unicamente in quanto luoghi di passaggio: posti come le autostrade, i campi profughi, ma anche i centri commerciali. Nonluoghi in quanto vissuti unicamente nel presente, senza una progettualità futura, posti, cioè, in cui si transita e non si abita (o almeno non stabilmente).
C’è da chiedersi quale ruolo possa avere il movimento cooperativo in questa distinzione. Secondo Costalli, è necessario riconquistare i nonluoghi, e ciò è possibile unicamente attraverso un processo caratterizzato da una certa conflittualità, ampliando quelli che ancora sono invece definibili come luoghi. La cooperativa in questo senso può agire attivamente all’interno delle comunità, differenziando le Coop dai tanti altri supermercati – nonluoghi per definizione – che già esistono. Ciò può essere realizzato dal movimento cooperativo coinvolgendo nelle proprie iniziative i fornitori di beni e servizi già presenti sul territorio, ma anche associazioni di volontariato, enti culturali e così via, in modo tale che al consumatore sia indirizzata una comunicazione che gli permetta realmente di esprimersi e informarsi in modo consapevole.
D’altronde la cooperazione di consumo italiana è interprete di un percorso di sviluppo iniziato oltre centocinquant’anni fa ed è caratterizzata da un aspetto apparentemente banale ma che oggi si tende a dimenticare: i proprietari della Coop sono i soci. Ecco allora che i centri commerciali gestiti dalla cooperazione accolgono spazi dedicati alle riunioni dei consumatori, a iniziative culturali, a eventi legati alle varie comunità di riferimento. In questa tipizzazione, sta una differenza fondamentale tra luogo e nonluogo.
Nella lettura di In viaggio verso Itaca ci si accorge che Costalli pone nei suoi interventi molte domande, avanza suggerimenti e proposte per un futuro delle cooperative che passi attraverso i mezzi di comunicazione e il coinvolgimento degli attori sociali ed economici. Certo gli interrogativi prevalgono sulle risposte, poche sono le certezze nell’attuale situazione economica; ciò che nel complesso appare comunque evidente è la volontà di essere presenti sul territorio, di agire sulla realtà concreta, nel rispetto delle leggi e dei contratti di lavoro.
Forse questa visione fiduciosa può apparire utopica in un momento di crisi, in cui l’ottimismo non ha certo un ruolo dominante nei temi economici e politici, ma come lo stesso Costalli sottolinea nel capitolo intitolato Il nostro viaggio il cambiamento è fin troppo spesso impedito dalle accuse di scarso realismo. Non sembra questo un errore che Unicoop Tirreno rischi di commettere.

Cristina Bersani, Patrizia Busi, Elena Musiani, Famiglia e potere a Bologna nel lungo Ottocento. Le carte della famiglia Pizzardi, Comune di Bologna, Bologna 2011

(Alberto Malfitano)


La parabola della famiglia Pizzardi, analizzata e ricostruita con attenzione nel nuovo volume della prestigiosa collana della Biblioteca de «L’Archiginnasio», rappresenta una vicenda esemplare della cultura imprenditoriale bolognese ottocentesca e un ottimo strumento per indagare l’evoluzione della vita economica e civile locale lungo un periodo molto lungo. I Pizzardi infatti hanno attraversato da protagonisti l’arco di tempo che va dall’ingresso dell’esercito francese a Bologna, a fine Settecento, fino al termine della prima guerra mondiale, periodo in cui la mancanza di eredi, di fatto, decretò la conclusione della breve e intensa storia di questa famiglia. La ricerca confluita in questo volume è stata condotta dagli autori sulle fonti di archivio e specialmente sui due importanti nuclei documentari provenienti dalla Biblioteca dell’Archiginnasio e dall’Azienda Usl di Bologna, cui erano giunti tramite donazioni della famiglia stessa.
Il volume si compone di tre contributi che, nella loro differente tipologia, contribuiscono a fornire un quadro di insieme completo dell’oggetto di studio. Il primo saggio, a firma di Elena Musiani, si concentra sulla ricostruzione storica della vicenda dei Pizzardi e ne ripercorre le tappe fondamentali. Nella narrazione, assai documentata e arricchita da diverse tabelle che mostrano nel dettaglio gli accrescimenti graduali delle proprietà della famiglia, è possibile seguire l’ascesa dei Pizzardi nel contesto cittadino e osservare specialmente la traiettoria sospesa tra la dinamicità imprenditoriale e l’innovazione tecnica di cui la famiglia, almeno nella sua fase progressiva, si rese artefice, seguendo un modello ancora fermamente ancorato alla grande proprietà terriera, tappa obbligata per l’ascesa di rango sociale.
Nel saggio vengono tratteggiati i caratteri sociali tipici della borghesia bolognese e che consistevano in una serie di frequentazioni, dai salotti, ai club, alle numerose attività filantropiche, che rientrano nello spirito tipico della sociabilità e del paternalismo ottocentesco. Se da una parte si contribuivano ad alleviare le misere condizioni del popolo minuto, dall’altra veniva ribadita la forza sociale, politica ed economica della famiglia in tutta la città e nel ristretto circolo dei propri pari. Non a caso la crescente forza imprenditoriale dei Pizzardi si tradusse, nella Bologna notabilare del declinante potere pontificio, in un’influenza politica di tutto rispetto, tanto da dare alla città, nella persona di Luigi Pizzardi, uno dei suoi primi sindaci postunitari. Intrecciate alle vicende personali ed economiche, emerge quindi il legame a quel liberismo democratico che accomunò gran parte delle élites progressiste nel lungo processo di unificazione e di cui i Pizzardi furono sinceri fautori, come finanziatori prima e come leali amministratori all’indomani dell’unificazione.
Quella dei Pizzardi, grazie alla capacità dell’autrice di padroneggiare e analizzare la massa di documenti (personali, amministrativi, contabili) giunta fino a noi, è quindi una vicenda che esemplifica in modo chiaro e puntuale la difficoltà interpretativa del passaggio tra mondo aristocratico e mondo borghese, evidenziando la sostanziale impossibilità di comprensione tra i due mondi, e costringendo la famiglia Pizzardi in un gioco di equilibri, in cui alla tendenza alla dinamicità imprenditoriale fanno da contrappeso gli stilemi della vita di ancien régime ove la sociabilità passa attraverso il titolo nobiliare (acquistato dalla famiglia nel momento di massima espansione economica), il possesso di un palazzo bolognese, fino a diventare una sorta di spleen, di stato d’animo degli ultimi eredi familiari nel momento di decadenza economica, quando ormai alla vigilia del nuovo secolo il mondo si avviava a cambiamenti irreversibili.
La seconda parte del volume, a opera di Patrizia Busi, si compone di una attenta ricognizione riguardo il fondo di archivio relativo alla famiglia Pizzardi, in cui l’autrice presenta la storia del fondo a partire dalla sua composizione e seguendone poi gli sviluppi sia da un punto di vista organizzativo (le modifiche subite nel corso del tempo a opera degli archivisti della famiglia), sia tracciando la rotta degli spostamenti del fondo spesso passati di mano attraverso le donazioni, specialmente quelle effettuate dall’ultimo erede del patrimonio della famiglia.
Segue questa disamina un puntuale e completo inventario dei 135 pezzi che formano il fondo (realizzato dall’autrice dopo aver effettuato una razionalizzazione del fondo stesso) e che rappresenta un fondamentale strumento per lo studioso che intenda frequentare queste fonti.
La terza e ultima sezione è costituita invece da una parte iconografica a opera di Cristina Bersani che mette in rilievo e analizza le numerose immagini contenute nell’archivio Pizzardi. Nel fondo sono stati infatti rinvenuti diversi disegni e schizzi preparatori di Luigi Busi, uno dei più influenti pittori bolognesi della seconda metà dell’Ottocento. Sono presenti inoltre alcuni disegni per le residenze dei Pizzardi, il palazzo Ratta Pizzardi e gli edifici di Ponte Poledrano, comprendenti per esempio la progettazione per le affrescature dei soffitti, la realizzazione di mobilia, paratie e altro. Non manca la documentazione fotografica riguardante l’opera di restauro a Ponte Poledrano, ma anche scene più quotidiane. Questa terza parte del volume, corredata di immagini a colori, si chiude con un inventario dei disegni e delle fotografie provenienti dal fondo Pizzardi.

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