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Mimmo Franzinelli

Sull’utilizzo (critico) delle fonti di polizia


Importante innanzitutto inquadrare Gesualdo Barletta, che è una figura fondamentale: da capo zona Ovra (Organizzazione vigilanza repressione antifascismo) durante il fascismo, guiderà dal 1948 al 1956 la Divisione affari generali e riservati della polizia. Stupefacente è poi la sua nomina, alla fine della carriera, alla Corte dei conti. È un precedente interessantissimo, che poi si ripeterà con il capo del Sid (Servizio informazioni difesa), generale Giovanni Allavena. Quando scoppia lo scandalo delle schedature Sifar (Servizio informazioni forze armate), che lo vede come principale protagonista, nel 1966, il generale deve essere rimosso, perché è in posizione imbarazzante. Viene quindi nominato consigliere presso la Corte dei conti, ma c’è un errore di forma: si accorgono che non è laureato, e allora ripiegano e lo nominano consigliere di Stato. Poi lo scandalo cresce e a questo punto Moro gli pone l’alternativa tra restare consigliere di Stato e andare sotto inchiesta oppure dimettersi: Allavena si dimette.
Ci sono altri due casi analoghi, molto interessanti, in tempi a noi più vicini. Quello di due capi dei servizi segreti, l’ammiraglio Fulvio Martini (nel 1991) che viene nominato consigliere di Stato dal presidente del Consiglio Craxi; il secondo, più recente (nel 2007) è quello del generale Niccolò Pollari che diviene consigliere di Stato, nominato da Prodi (nonostante, secondo indagini giornalistiche, l’entourage di Pollari preparasse dossier su Prodi commissionati dal centro-destra...).
Dal caso di Barletta però, non vorrei dare l’impressione della continuità. Certo, c’è la continuità delle carriere (ed è per noi storici un punto trascurato: non esistono serie biografie del capo della polizia Arturo Bocchini né del capo dell’Ovra Guido Leto. Tuttavia ad Arturo Bocchini è dedicato un museo nel suo paese natale), ma anche la discontinuità; la vera sfida storiografica consiste nell’analizzare insieme le due tendenze e di farle interagire.
Un caso non meno interessante e meritevole di approfondimento è quello del torinese Luigi Cavallo, defunto da qualche anno: a lui è dedicato il libro di Alberto Papuzzi Il provocatore (edito nel 1976 da Einaudi). Alla metà degli anni Cinquanta organizzò con Edgardo Sogno il movimento Pace e libertà, specializzato nella guerra psicologica contro il Partito comunista, finanziato da Barletta e dall’amministratore delegato Fiat (Fabbrica italiana automobili Torino) Vittorio Valletta. Con i soldi ricevuti dal Ministero dell’Interno, Cavallo stampa e affigge manifesti con una serie di accuse molto pesanti sul piano personale contro Pietro Secchia (accusato addirittura di avere tradito all’Ovra i suoi compagni), con la domanda: «Perché non ci querela?». Secchia non ha mai sporto querela perché sapeva benissimo che, al Ministero dell’Interno, conservavano del materiale scottante su di lui, passato dagli archivi fascisti a quelli della Repubblica democratica. Questo per dare l’idea della complessa storia di un archivio pubblico...
Gli storici devono fare un uso accorto e diffidente delle fonti di polizia: richiedono una doppia dose di interpretazione perché possiedono un forte elemento di soggettività, con una serie di interessate esagerazioni e anche di falsità. Per dirlo in modo paradossale, premettendo che il fascismo è stato un grande regime di polizia e Mussolini un grande ministro dell’Interno, l’imponente materiale assemblato in epoca fascista contiene, su di uno stesso episodio o personaggio, una quantità di informazioni dalle quali si può ricavare tutto e il contrario di tutto: una tesi e il suo opposto, a seconda del filtro critico e dell’accortezza analitica delle fonti. Bisogna entrare nel merito: la polizia, nella dittatura fascista, disponeva di un valore aggiunto, ovvero la straordinaria capacità di infiltrare la società civile (gli avvocati, i giornalisti... piuttosto che altre categorie) e quindi di svolgere anche un’interessante operazione di monitoraggio. All’occorrenza s’imbastivano pure complicate operazioni di provocazione, secondo le direttive del momento.
Vi è inoltre un aspetto mercenario. L’informatore non è un osservatore oggettivo né un analista distaccato: egli è parte in causa, e quindi bisognerebbe (ma è una cosa impossibile) decifrare la natura del rapporto tra il singolo informatore e i suoi referenti a livello di funzionari dell’Ovra o comunque di Pubblica sicurezza. Questo per affermare che non tutti gli informatori sono uguali: c’è chi esagera, c’è chi mente, c’è chi dice alcune cose e ne tace altre, e di conseguenza se noi stiamo studiando un singolo episodio dovremmo avere la capacità, l’abilità e la fortuna di soppesare e di far interagire tutte le varie informative (e sono tantissime) di informatori diversi sullo stesso episodio, comparando le varie informazioni e i vari rapporti, e, solo a quel punto possiamo azzardare una nostra interpretazione. Diversamente il rischio peggiore che si può correre, magari inconsapevolmente, è di diventare “questurini di complemento”, ovvero di riciclare delle tesi, dei teoremi che la polizia ha fabbricato. E credo che ciò equivarrebbe a una disfatta, umana e storiografica. Tuttavia c’è qualche studioso che, ammaliato da quelle fonti infide, ha passato la linea d’ombra e squalificato come spie del regime degli antifascisti che spie non erano (tra le vittime di queste periodiche campagne scandalistiche vi è l’esule Max Salvadori).
Le strategie del potere, quindi, vanno contestualizzate, guardandone le finalità. Ed ecco un altro esempio, abbastanza importante: in epoca fascista ci fu un eccidio: l’eccidio di Milano, Fiera Campionaria, nel 1928. Milano ha una storia incredibile: la strage al Teatro Diana del marzo 1921, quella alla Fiera del 12 aprile 1928 e quella di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, insomma tre eccidi in quarant’anni. Guido Leto, insieme a quell’altro dirigente dell’Ovra, Michelangelo Di Stefano ha indagato per una quindicina d’anni sulla strage della primavera 1928. Dalle prime indagini della milizia ferroviaria che punta sui comunisti, dimostrando di non avere compreso nulla della strategia dei comunisti. Bocchini, collegato a Mussolini su questo e su tanti altri episodi, attraverso Leto, individua una serie di piste: socialista, repubblicana, anarchica (indagano persino su Gianpaoli cioè su un ex federale…) ma il senso politico che si ricava dall’analisi di questo materiale (si veda il mio lavoro I tentacoli dell’Ovra) è l’uso fortissimo e strumentale della strage per delegittimare via via le opposizioni politiche e soprattutto colpire chi era all’estero (per esempio Gaetano Salvemini), dipingendolo come un mandante o comunque un personaggio in combutta con i terroristi. C’è quindi questo uso politico straordinario che, nonostante continuità e discontinuità, ritroveremo nella strage di Piazza Fontana e in altri depistaggi in epoca recente. Sulla strage della Fiera c’è stato un giovane storico che, sulla rivista dell’Istituto di storia della Resistenza di Ancona, a mio parere in modo inconsapevole, ha sostanzialmente riciclato le tesi di Leto; addirittura si spinge oltre, confermandone il teorema, ovvero la convinzione che gli attentatori fossero dei repubblicani (poi confluiti in area giellista). Intendiamoci: uno storico può sostenere qualsiasi tesi, ma purché trovi nuove fonti e fornisca nuove interpretazioni. Se invece si limita a ripercorrere passo passo i teoremi della polizia, c’è qualcosa che non va. La polizia fascista, nonostante i poteri di cui disponeva, non è stata in grado di istruire un processo contro questi presunti responsabili, e ha attuato vergognose provocazioni ai danni dei giellisti arrestati nell’ottobre 1930 (vicenda culminata nel suicidio del detenuto Umberto Ceva, a Regina Coeli, il 24 dicembre 1930). Il teorema di Leto è stato ripreso nel luglio 1943, e la cosa va avanti fino all’8 settembre, con gli arresti di Riccardo Bauer, Ernesto Rossi e altri loro compagni, ma non è mai arrivato né all’istruttoria né alla fucilazione poiché quello era l’obiettivo. Quindi uno storico che, basandosi solo sulle fonti raccolte e prodotte dalla polizia fascista, vada addirittura oltre l’interpretazione poliziesca, compie un grosso errore di analisi storica.
Inoltre, a conferma della loro complessità, le fonti della polizia fascista sono diventate, nel dopoguerra, le fonti della storiografia dell’antifascismo. Ciò è dovuto soprattutto per la lunga durata del regime fascista: è chiaro che per vent’anni all’interno le opposizioni non hanno potuto produrre grandi documentazioni, e ciò che hanno prodotto è stato sequestrato dalla polizia: giornalini, volantini, che troviamo nei fondi del Tribunale speciale. Recentemente è stato recensito sulle pagine di un importante quotidiano un sito web dove i navigatori si possono collegare al sito dell’Archivio centrale dello Stato, per trovare nel Casellario politico centrale (Cpc), la storia dei propri parenti antifascisti. C’è, in questo invito, una banalizzazione incredibile, che scambia le fonti di polizia per «storia» degli antifascisti. Questo è un modo, sia pur inconsapevole, di avvalorare la fonte, ovvero affermare con forza che questi documenti costituiscono la storia oggettiva, dove comodamente da casa si attingono acriticamente e senza strumenti notizie sul nonno, lo zio... Ma il Cpc è il livello infimo della schedatura: ne esiste uno superiore che è più affidabile, ed è il fondo Polizia politica Fascicoli personali, dove sono schedati quelli che erano ritenuti nemici di prim’ordine, e nelle cui informative si trova il numerino sulla sinistra, fondamentale, perché è il numero che rende riconoscibile l’identità dell’informatore. Al Cpc manca questa possibilità: si troverà la schedatura sul singolo ma non si riuscirà a comprendere veramente quali sono state le sue vicende. E quindi se sulle pagine di un quotidiano nazionale appare un invito del genere, credo significhi con forza che gli storici non hanno lavorato come si doveva su queste fonti per renderle conoscibili al grande pubblico spiegando che sono ben più complesse di come le si immagini.
Vi è, inoltre, un’altra questione di massima delicatezza ovvero quando si studiano a lungo queste fonti, a un certo punto sembra di vedere spie dappertutto. Questo accade perché l’informatore deve vendere notizie, che gli vengono pagate. Se va in trattoria e paga il pranzo a un sovversivo, poi stenderà un bel rapporto, dal quale risulterà che il sovversivo è un suo subfiduciario (e probabilmente non è vero: ha dato qualche notizia generica che viene amplificata nella trascrizione, spesso arbitrariamente). Quindi la fonte di polizia è una fonte rischiosa, che trae in inganno perché se le si accorda troppa fiducia porta spesso fuori strada. C’è un detto orientale: «Se guardi a lungo nel fondo nell’abisso, stai bene attento, perché a un certo punto è l’abisso che guarda dentro di te e ti richiama». È vero. Ci sono ricercatori che diventano monomaniacali, poiché lavorando attorno a una fonte unica, che può essere la fonte di polizia, danno corpo alle ombre, vivono in simbiosi con quei personaggi evocati dai documenti. Consapevole di questo rischio, ho usato un contravveleno: contemporaneamente lavoravo su altre cose, curavo l’edizione a stampa degli epistolari di Gaetano Salvemini (dall’esilio), di Ernesto Rossi (dal carcere), e così realizzavo che non tutti piegavano la schiena, che non c’è solo quell’umanità influenzata e spesso piegata dalle dittature. È rischioso guardare solo la fonte di polizia, che riflette questo tipo di realtà allucinante di un regime pervasivo che cerca di controllare tutto, con diversi personaggi che prima o poi cedono o addirittura vengono comperati.
Tornando a quello che non trovi negli archivi bisogna riconoscere che le tecniche e i retroscena della polizia difficilmente vengono rivelate dai documenti. La strategia del compromesso, che veniva posta in essere quando uno veniva arrestato e gli proponevano successivamente di formalizzare l’arresto, mentre non era arrestato ufficialmente, («Noi ti facciamo fuggire subito e tu diventi nostro informatore»), difficilmente risulta. I ricatti, per fame, per questioni private, familiari o altro: non c’è (o c’è raramente) il contratto in cui uno diventa spia. E anche quando si trovano i riscontri e ci si convince «Questo tizio è spia», bisogna fare attenzione: è spia dal momento in cui esistono prove inconfutabili, mentre un’altra tendenza automatica che scatta nello studioso è che, se uno è spia, la sua affiliazione poliziesca viene retrodatata e sembra che abbia sempre agito come tale, mentre, probabilmente, è stato un militante antifascista fino al 1935, poi ha ceduto, a volte anche di schianto. E allora è doveroso in questa biografia, distinguere le due fasi, altrimenti si fraintende anche quello che egli è stato in precedenza. Quindi ci sono tante variabili da tener presenti ed è la difficoltà maggiore.
Vi è poi un altro elemento: il segreto. Alcune fonti non sono consultabili, e qui c’è il tentativo da parte dei ricercatori di vedere dei documenti che ci vengono a volte negati dagli archivisti. Io ho faticato e polemizzato per consultare a fine anni Novanta il cosiddetto “rubricone”, l’agenda di Bocchini che era secretata, ma per motivi che non riuscivo a comprendere il motivo. In quegli anni uscivano le liste della rete paramilitare clandestina Nato Gladio, venivano pubblicati gli elenchi degli affiliati dalla Loggia massonica coperta P2 e invece la lista degli informatori di Bocchini del 1939 rimaneva segreto di Stato?!? Alla fine, è stata desecretata: l’ho pazientemente ricopiata e pubblicata in una brochure come integrazione al mio volume I tentacoli dell’Ovra.
Nel raccogliere materiale per uno dei miei ultimi lavori, Il Piano Solo. I servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del 1964, dopo una lunga ricerca archivistica sulle fonti di polizia e dei carabinieri ecc., incluso l’archivio privato del generale Giovanni de Lorenzo, l’esperienza più deludente l’ho avuta all’archivio della Camera dei deputati, dove sono depositati tutti i risultati delle commissioni parlamentari di inchiesta, incluso il materiale reperito da ogni singola commissione: documenti, testimonianze... Ma all’archivio della Camera è difficile entrare e quando ci si riesce, si scopre che è impossibile visionare il materiale delle commissioni. Personalmente ero interessato allo studio dei documenti della Commissione Alessi, che chiuse i lavori nel 1970 (quarant’anni fa…) e che indagò sul servizio segreto militare (Sifar). Ebbene, non è stato possibile visionare il materiale: a oggi è considerato segreto! Ritengo che ciò sia illegale, e considero uno spreco di denaro pubblico riservare a quell’archivio fior di strutture e vari archivisti, se poi la documentazione istituzionale rimane fuori consultazione. Si supera il ridicolo: ho in istruttoria una domanda di desecretazione su materiale riservatissimo come per esempio il frontespizio di una pubblicazione di metà anni Sessanta sulle forze armate! Quindi un libro pubblicato mezzo secolo fa (sia pure a uso interno) è, a oggi, segreto di Stato. Alle mie rimostranze si è risposto: «Abbiamo del materiale che a suo tempo venne secretato, e pertanto deve essere desecretato dall’organo che a suo tempo lo secretò». Per cui sono segrete anche due importanti circolari del capo della Polizia Vicari del novembre del 1961, sull’emergenza di ordine pubblico, fondamentali per capire tutto quello che è avvenuto nel 1964 con il Piano Solo. Che senso ha scrivere la storia contemporanea se ti trovi bloccato dalle istituzioni pubbliche?!?
Nel mio lavoro Rock e servizi segreti ho analizzato come negli anni Sessanta la controcultura, soprattutto negli Stati Uniti, veniva monitorata e veniva provocata dal potere. Per apprendere come sono stati pedinati e hanno avuto le vite rovinate artisti che oggi sono più o meno noti (Jimi Hendrix, John Lennon, Jim Morrison, Phil Ochs, Joan Baez ecc.), mi sono collegato ai sito dell’Fbi (Federal Bureau of Investigations) e della Cia (Central Intelligence Agency), senza nemmeno dovermi qualificare, e ho scaricato migliaia di pagine in pdf con i dossier su questi musicisti. Naturalmente ogni tanto c’erano dei passaggi secretati. Tuttavia esiste una legge, monumento alla democrazia, il Freedom of Information Act, che consente, anzi che obbliga periodicamente l’amministrazione politica a desecretare, e che permette al cittadino di accedere agli atti che lo riguardano o che comunque lo interessano. In Italia ciò è al di là di ogni più ottimistica immaginazione. Nel libro c’è solo un artista italiano: Fabrizio De Andrè, perché per caso mentre lavoravo su atti del terrorismo, ho trovato un fascicolo su di lui e l’ho pubblicato: potrei aver violato un segreto, secondo i nostri burocrati e i gelosi archivisti... Questa differenza tra gli Stati Uniti e l’Italia esprime una diversità: il paese (gli Usa) in cui il cittadino è cittadino, e il paese, il nostro, in cui il cittadino viene trattato da suddito, per cui dobbiamo chiedere come un favore quell’accesso agli atti che dovrebbe essere un diritto, un diritto di cittadino e di studioso di storia contemporanea.
Concludendo, le carte di polizia a volte pongono dei problemi che non possono risolvere. Talvolta capita che su di esse si accendano i riflettori dei mass media ed è una cosa negativa perché sfalsa tutto. Il caso Silone è celeberrimo, se ne è scritto abbondantemente e in modo non rispettoso della sua personalità, della sua identità, della sua arte, poiché usando solo le carte di polizia si è travisato un personaggio che è molto più sfaccettato, multiforme, problematico, rispetto a come è stato reso. Di fatto Ignazio Silone è stato tramutato nella spia peggiore che il fascismo abbia mai avuto dentro il Partito comunista, ma la realtà è stata ben diversa.
Veniamo anche al buon uso delle fonti. C’è un libro che io consiglierei come manuale: Una spia del regime, uscito in prima edizione curato da Ernesto Rossi, nel 1956, da Feltrinelli. Ovvero Rossi, che fu sottosegretario del primo governo successivo alla Liberazione (governo Parri), dopo aver fatto nove anni di galera e tre anni di confino per il tradimento dell’azione di un certo avvocato Carlo Del Re (che vendette a Bocchini per salvarsi da un fallimento suo personale tutto il centro interno di Giustizia e libertà), nel 1945 ebbe modo di vedere quel materiale, lo fece battere a macchina tutto, poi lo pubblicò per Feltrinelli. Ed è un documento straordinario perché si tratta di un grosso dossier su un personaggio in cui le carte di polizia non sono menzognere, perché era un materiale interno di corrispondenza tra Bocchini e Del Re in cui i due personaggi si scrivevano quello che c’era da dire (informazioni, compensi, strategie da attuare contro gli antifascisti). Naturalmente al povero Rossi mal gliene incolse, perché il giorno in cui morì nel febbraio del 1967 aveva ancora il processo in corso da parte di Del Re, per diffamazione e rivelazione di segreto. Quel testo è poi è stato riedito con altri documenti da Bollati e Boringhieri ed è ancora in libreria: chi fosse interessato alle fonti di polizia lo può utilizzare come un prezioso manuale.
E, inevitabilmente, ci sono anche gli errori: ne ho commessi anch’io, è facile sbagliarsi, ci sono davvero casi di omonimia, di semi-omonimia, e rischi di prendere lucciole per lanterne. Tra chi si è sbagliato c’è per esempio lo stesso Rossi, in un’altra situazione, fuorviato da Gaetano Salvemini. Poniamoci nell’ottica soggettiva di questi dissidenti che sono in esilio o in prigione, poi cade il regime ed è chiaro che hanno una curiosità viva, legittima, vogliono sapere come sono andate le cose. Salvemini fa arrivare dei microfilm dagli Stati Uniti (c’è un’altra cosa da ricordare sulle fonti di polizia: negli Stati Uniti c’è copia fotografica di ciò che nei nostri archivi è difficile consultare), e in questi vi sono ricevute di pagamento firmate da chi ha preso soldi dal dipartimento investigativo dell’ambasciata italiana a Parigi; una firma ricorrente è «Giobbe». Salvemini si consulta con Rossi e hanno l’illuminazione: è Giobbe Giopp, un personaggio borderline di cui non si sa molto, un antifascista repubblicano-individualista che Leto ha spiato per una decina di anni in Italia e anche all’estero. Rossi e Salvemini scrivono sul settimanale «Il Mondo» che Giobbe Giopp è una spia e quest’ultimo fa loro causa. Alla fine si rendono conto che lo spione mercenario era Mirco Giobbe, un giornalista fascista di Firenze, direttore del giornale «Tribuna». Talvolta incombono gli errori, quando si crede che un argomento suffraghi una convinzione e invece, dopo un’attenta analisi, viene dimostrato il contrario.
Ultima rapidissima riflessione: a volte mi sento frustrato perché non vorrei essere storico, ma romanziere. Ci sono delle situazioni che solo il romanziere con la sua arte potrebbe rendere fruibili; lo storico le rende pesanti, pedanti, perché vengono inseriti apparati di note a piè di pagina, ci si dilunga in citazioni inessenziali, si usa una prosa per addetti ai lavori... In questo modo noi storici ci salviamo l’anima e il mestiere, ma troppi nostri libri risultano indigesti per la massa dei lettori. Bisognerebbe stabilire un rapporto sinergico tra gli storici e i narratori e i registi, perché un romanzo o un film possono dare un valore aggiunto alla ricerca storiografica.

 

Questo saggio si cita: M. Franzinelli, Sull’utilizzo (critico) delle fonti di polizia, in «Percorsi Storici», 0 (2011) [http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/20-franzinelli]

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