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Salvatore Alongi
Fascicolo in A8. Le carte di Pubblica sicurezza nell’Archivio di Stato di Bologna
Dopo una brevissima introduzione sullo stato attuale della documentazione prodotta dalla locale Questura e depositata in Archivio di Stato di Bologna, lo scopo principale del mio intervento sarà di fornirvi alcuni dati di carattere generale sul fenomeno della schedatura di polizia nel territorio bolognese, al fine di comprenderne al meglio la genesi, l’evoluzione e la persistenza, accompagnandovi in una davvero rapida cavalcata attraverso l’amplissimo arco cronologico coperto dalla documentazione.
La prima e più importante delle partizioni del fondo della Questura di Bologna è l’archivio di Gabinetto, che copre un arco cronologico compreso tra il 1859 ed il 1899; la consistenza dell’archivio di Gabinetto è di 271 buste e 18 registri.
Seconda partizione è l’archivio generale che copre, invece, un arco cronologico compreso tra il 1859 e il 1903, e ha una consistenza totale di 687 buste e 150 registri.
E ora una breve nota preliminare in merito alla serie cosiddetta dei “Sovversivi”. Essa si compone di 8.644 fascicoli personali ordinati alfabeticamente e relativi a soggetti nati o residenti nella provincia di Bologna.
L’attuale fisionomia della serie risale alle disposizioni emanate attraverso una circolare del Ministero dell’Interno del 1931, quando un nuovo titolario per gli archivi delle questure individuò, tra le categorie della Divisione 1ª Gabinetto, quella delle «persone pericolose per la sicurezza dello Stato», contrassegnata dalla sigla A8, e destinata fin da subito alla conservazione permanente.
Così la documentazione precedentemente raccolta e rubricata genericamente sotto la denominazione di “Sovversivi”, nel corso del biennio 1930-1931 venne progressivamente riorganizzata, con la creazione, accanto ai fascicoli attivi, di due sottoserie di unità archivistiche passate in fase di quiescenza e denominate “Radiati” e “Defunti”; in seguito venne anche predisposta la sottoserie dei “Defunti di recente”.
Nel 2004 la Questura di Bologna ha versato la documentazione all’Archivio di Stato, che dunque, oltre l’archivio di Gabinetto e l’archivio generale, che come già sopra esposto, coprono un arco cronologico compreso tra il 1859 ed il 1903, conserva per intero solo tale categoria di atti, che abbraccia un periodo racchiuso tra il 1872 ed il 1983.
Una simile circostanza fa sì che, se per gli anni compresi entro la fine del XIX secolo l’analisi della serie dei sovversivi trova riscontro e conforto nella coeva documentazione di polizia, per tutto il XX secolo essa rappresenti quella che dal linguaggio musicale sarebbe definita una “frequenza singola”, una monade, una pista isolata sulla quale risulta particolarmente rischioso avventurarsi. Fino a quando non sarà integrata dal versamento di ulteriori categorie, l’A8 rimane pur sempre in Archivio di Stato l’unica fonte contemporanea di tipo seriale sulla base della quale tentare di ricostruire non solo la storia del sovversivismo politico nella provincia di Bologna, ma anche quella del dissenso sociale, della realtà demografica e, non ultima, naturalmente dell’amministrazione della pubblica sicurezza.
A sopperire alla mancanza degli archivi generali e di Gabinetto contribuirà, nell’analisi della documentazione, l’applicazione del “metodo seriale” e statistico, basato su dati numerici esatti, che consentirà di tracciare linee generali di tendenza dell’andamento del lavoro dell’ufficio e della sedimentazione della documentazione. Anche in questo caso però la mancanza dei documenti relativi ai dati statistici elaborati a suo tempo dalla polizia non consente di effettuare quel fondamentale confronto che solo può rilevare, per esempio, l’entità delle eventuali lacune verificatesi all’interno della serie dei sovversivi.
Nel corso del 2009, nell’ambito del progetto strategico Una città per gli archivi, promosso dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e dalla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, la serie dei sovversivi è stata sottoposta a un intervento di riordinamento ed inventariazione che l’ha resa pienamente fruibile dal pubblico dei ricercatori.
L’analisi del casellario politico della Questura di Bologna vuole prendere le mosse dal 1894, da quell’anno mirabile che segnò per la serie archivistica oggetto principale di questo intervento un ideale punto di partenza: sebbene la documentazione conservata risalga, infatti, almeno fino al 1872, fu solo nel 1894 che il complesso cominciò ad assumere una propria fisionomia e una reale consistenza. Fu, infatti, da quel periodo che l’autorità locale di Pubblica sicurezza cominciò a orientarsi decisamente verso il controllo e la schedatura mirata di internazionalisti, anarchici e socialisti, sulla scia di quanto ufficialmente avviato a livello centrale a partire proprio dal 1894 con lo Schedario biografico degli affiliati ai partiti sovversivi, che, com’è naturale, necessitò per il suo impianto di un flusso continuo di informazioni apportate dagli uffici periferici, costretti così – come ha scritto Giovanna Tosatti – «a mantenere sempre desta l’attenzione sulle attività e gli eventuali spostamenti dei “sovversivi”, attuando una incisiva azione di polizia preventiva» (Nota 1).
Tenuto, dunque, conto della precarietà nella quale si svilupparono le prime esperienze di schedatura a livello locale, avviate ufficialmente tra il 1889 e il 1890 sulla base del regolamento attuativo del testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza del 1888 (e che pochissimo influirono sulla reale sedimentazione della documentazione di polizia), per i casellari politici provinciali si può legittimamente parlare di una “genesi riflessa”, di un avvio non ufficiale, quasi di un effetto collaterale e indiretto, mediato dalle necessità dell’amministrazione centrale, alle cui esigenze il servizio esercitato nelle singole questure si dimostrava funzionale.
Nel solo 1894, anno della soppressione del neonato Partito socialista dei lavoratori italiani, la Questura di Bologna avviò così ben 64 schedature sistematiche, per un numero di soggetti, vale a dire, di poco inferiore alla somma complessiva di quanti erano stati in qualche modo segnalati, o dei quali erano state raccolte informazioni, tra il 1872 ed il 1893 (69 individui). Tale dato ci consente di affiancare alla “teoria” delle disposizioni normative, la “pratica” dell’evidenza documentaria, l’unica in grado di dare una risposta, se non inequivocabile, quanto meno attendibile, al quesito che tutt’oggi persiste sulla data dell’istituzione dei casellari politici, tanto a livello centrale quanto in ambito periferico, e sul concreto svolgersi della loro attività.
Se, dunque, per Bologna il 1894 costituì un’evidente soluzione di continuità, negli anni precedenti non mancarono, come già accennato, esempi di una prima e significativa attività, quasi esclusivamente indirizzata al controllo dell’elemento anarchico: per esempio 8 furono i fascicoli aperti nel 1890, 13 nel 1891, 16 nel 1892 e 20 nel 1893. Residuale appare l’attività condotta prima degli anni Novanta dell’Ottocento, riconducibile a una dimensione episodica piuttosto che organica della pratica della schedatura (o, ancora più verosimilmente, alla raccolta, di documentazione con data anteriore in fascicoli costituiti in epoca successiva).
Prima di affrontare la descrizione del casellario politico per il periodo compreso tra il 1923 e il 1944, vale la pena soffermarsi a riflettere sulle motivazioni che si celano dietro il particolare sviluppo dell’attività di schedatura in periodo fascista, accennando alcune brevi ipotesi sul cosiddetto “paradigma eziologico” all’origine della crescita dell’attività poliziesca, ovvero su quella sequenza di cause che generò in definitiva l’effetto analizzato in questa sede, con la piena consapevolezza che nessuna di esse può essere considerata risolutiva in senso assoluto.
1. Può individuarsi solo nell’aumento del dissenso e dell’attività sovversiva l’origine dell’ampliamento dell’attività e degli strumenti della repressione, e la conseguente crescita dei complessi documentari prodotti dagli apparati di polizia?
2. Può la crescita di questi apparati, invece, essere svincolata da cause esterne e contingenti (quali appunto l’aumento del dissenso), e spiegata esclusivamente dal rafforzamento e da un migliore (o, forse, solo maggiore) funzionamento del sistema, che tese a “stringere le maglie” della propria rete, a fronte di un’attività sovversiva, e in generale delittuosa, costante e tendenzialmente immutata? In altri termini, è forse possibile che un maggior numero di fascicoli, e quindi di sovversivi all’interno del casellario, sia dovuto a un affievolimento del discrimine tra oppositori politici e personaggi comuni, responsabili solamente di mal celare il proprio scontento?
3. O piuttosto tale dispiegamento di mezzi repressivi, con la mole di documentazione da essi prodotta, non può forse essere giustificato da una debolezza congenita dell’esecutivo e dell’autorità politica, il cui principale sintomo fu rappresentato proprio dallo sviluppo degli strumenti eccezionali?
Il perché di tale aumento e a cosa si debba la crescita abnorme in periodo fascista dei casellari politici, sia a livello centrale sia periferico, rimane ancora oggi uno degli aspetti più rilevanti dello studio del rapporto tra repressione politica e opposizione al fascismo, e uno dei fronti aperti dagli storici delle istituzioni interessati all’organizzazione dei servizi di polizia, che durante il ventennio subirono gravi e profonde trasformazioni.
Per comprendere appieno quanto il regime fascista abbia fatto della schedatura di polizia una delle principali armi per la prevenzione e la lotta all’antagonismo politico e al dissenso sociale basti dare un rapido sguardo alle cifre della serie: se nei cinquant’anni intercorsi tra il 1872 ed il 1922 furono aperti 2.070 fascicoli (ossia il 24% del totale), nel ventennio compreso tra il 1923 ed il 1944 le unità predisposte furono ben 6.213 (vale a dire il 72% dell’intera serie documentaria) con punte massime toccate tra il 1925 ed il 1927.
Come già in precedenza anticipato, il biennio 1930-1931 coincise, inoltre, da un punto di vista più strettamente storico-istituzionale e archivistico, con un primo pesante intervento di riorganizzazione della serie, attraverso la revisione di molte centinaia di posizioni e la conseguente chiusura di molti fascicoli.
Alla frenetica operosità degli anni Venti seguì, inoltre, una costante diminuzione del numero dei fascicoli aperti annualmente. E, al contrario poi di quanto si possa immaginare, il quinquennio 1940-1944 fu caratterizzato, come mai prima di allora, da un’intensissima campagna di smantellamento del casellario: 1.289 fascicoli chiusi nel 1940, con una media annuale di 625 sovversivi “radiati”, o solo semplicemente “dismessi” per inerzia, nel rimanente lasso di tempo, rappresentano il “canto del cigno” di un fenomeno – quale la schedatura politica –, che, formalizzato e riorganizzato, si cristallizza, perdendo forza e sostanza.
Il primo e più rilevante degli aspetti che caratterizzò la serie dei sovversivi nel periodo postbellico fu l’apertura, dall’aprile 1945, di nuovi fascicoli intestati a fascisti, squadristi, brigatisti, collaborazionisti e, più in generale, ai sospettati di essere coinvolti in qualche modo nelle attività del passato regime.
Particolarmente intensa fu, naturalmente, l’attività concentrata nel quadriennio 1945-1948, con picchi nel biennio 1945-1946: solamente nel 1945 furono, infatti, schedati 150 fascisti.
L’amnistia concessa nel giugno 1946 provvide, per quel che riguarda l’autorità di Pubblica sicurezza, a sospendere l’apertura di nuovi fascicoli e a ridurre notevolmente l’attività delle Assise straordinarie.
Altra fattispecie (non certo trascurabile) di questo primo e principale aspetto è la costituzione di fascicoli inerenti alla scomparsa di fascisti nei giorni immediatamente successivi la liberazione della città (generalmente tra aprile e maggio 1945), a opera di soggetti che procedettero a prelevare i nuovi sovversivi direttamente nelle loro abitazioni, facendone perdere definitivamente le tracce.
Un’ulteriore prassi che contraddistinse quest’ultimo periodo fu la rinnovata vigilanza, da parte della polizia, sulle mosse degli attivisti socialisti e comunisti, già presenti all’interno della serie, anche dopo la ricostituzione delle istituzioni del regime democratico, soprattutto a partire dagli ultimi anni Quaranta (1948). Tutto ciò appare emblematico di un nuovo clima politico generale, durante il quale si assistette alla rottura tra le forze popolari cattoliche, comuniste e socialiste che avevano composto l’Assemblea costituente e alla creazione dei primi steccati sollevati dalla “guerra fredda”.
Tenuto naturalmente conto dei numeri oramai ridottissimi della serie (329 fascicoli per un 4% del totale), particolarmente intensa fu, inoltre, l’attività anticomunista nel quadriennio 1952-1955, con picchi nel biennio 1954-1955, nei riguardi di soggetti in precedenza estranei al casellario: se, infatti, i comunisti schedati ex novo nell’intero arco repubblicano furono complessivamente 62, solamente nel 1954-1955 furono aperte 23 nuove posizioni.
Un’ultima osservazione. La permanenza stessa, sebbene quantitativamente ridotta, di un casellario politico in periodo democratico, attesta come l’attività fondamentale che un cittadino potesse svolgere per una democrazia, ossia la partecipazione politica, continuasse a essere considerata “pericolosa per la sicurezza dello Stato” e, per tale motivo, oggetto di indagini di polizia.
Ciononostante, come confermato dalle cifre, il 1956 rappresentò un importante spartiacque per la storia dell’amministrazione della Pubblica sicurezza: il 1956 fu, infatti, l’anno dei fondamentali pronunciamenti della Consulta in merito alla legittimità costituzionale di molti dei provvedimenti e delle pratiche di polizia adottati fino a quella data.
Mi avvio a concludere. L’iniziale impressione di chiunque si accosti alla documentazione raccolta in casellari di tale natura è sicuramente quella della continuità; tale condizione è già stata espressa, in riferimento alla ben più ampia realtà del casellario politico centrale, da Giovanna Tosatti quando ha affermato che «il primo aspetto che viene in evidenza è la sua notevole longevità attraverso regimi politici del tutto diversi» (Nota 2).
Una realtà, quella della continuità e della longevità, che di per sé lascerebbe gli addetti ai lavori, e in special modo gli archivisti, ben poco sorpresi – abituati come sono a confrontarsi con complessi documentari che mantengono per secoli il medesimo aspetto e la stessa struttura organizzativa –, se non fosse per il particolare carattere “politico” da sempre attribuito a tale serie, un carattere che ha imposto al soggetto produttore della documentazione (la Questura) di sommare alle esigenze di continuità richieste della sua natura amministrativa, quelle della duttilità e dell’adattabilità di fronte al mutare delle condizioni politiche, interne e internazionali, e soprattutto dei soggetti verso i quali indirizzare le attività di controllo e repressione.
Ecco allora che di colpo la serie, così apparentemente monolitica anche nel suo aspetto esteriore (centinaia di buste che sfilano per decine di metri nei lunghi corridoi dei depositi d’archivio), a un’analisi attenta rivela la sua multiforme varietà di colori, in questo caso appunto “politici”, che sono stati al centro dell’interesse dei diversi governi succedutisi nell’arco di tempo compreso tra il 1872 ed il 1983.
Continuità e adattabilità appaiono, così, come i risvolti della medesima medaglia, caratteri che da secoli ormai contraddistinguono le istituzioni e gli uomini che le reggono, e sui quali molti hanno tentato di fornire interpretazioni, dallo stesso Badoglio che nel novembre 1943 dichiarò come «la polizia e l’Ovra non erano mai state sotto il controllo diretto del fascismo, ma erano rimaste indipendenti e proprio per questo invise al Partito fascista e ai federali» (Nota 3), fino a più recenti dichiarazioni che hanno individuato nell’atteggiamento delle forze di polizia «una linearità di comportamento che esclude una “faziosità politica” di questi istituti né a favore né contro qualsiasi governo» (Nota 4). La storiografia più illuminata non ha mancato fortunatamente di pronunciare un inflessibile giudizio di fronte ad analisi come quelle ora riferite, ricordandoci che
istituzioni e apparati che sembrano adattarsi ugualmente bene a regimi politici tanto diversi rispetto ai valori della democrazia sono istituzioni e apparati pericolosi, che non offrono alcuna garanzia democratica, mentre ne offrono molte all’autoritarismo e al fascismo, coi quali più intimamente consonano e dai quali si lasciano senza troppa resistenza conquistare, quando alla conquista attivamente non collaborino (Nota 5).
NOTE:
Nota 1. G. Tosatti, Il Ministero degli interni: le origini del Casellario politico centrale, in G. Melis (a cura di), Le riforme crispine, vol. I, Amministrazione centrale, Giuffrè, Milano 1999, p. 465. Torna al testo
Nota 2. G. Tosatti, L’anagrafe dei sovversivi italiani: origini e storia del casellario politico centrale, in «Le carte e la storia», 2 (1997), p. 133. Torna al testo
Nota 3. Citato in H. Reiter, I progetti degli alleati per una riforma della polizia in Italia (1943-1947), in «Passato e presente», 42 (1997), p. 39. Torna al testo
Nota 4. A. Sannino, Le forze di polizia nel secondo dopoguerra (1945-1950), in «Storia contemporanea. Rivista bimestrale di studi storici», 16/3 (1985), p. 428. Torna al testo
Nota 5. C. Pavone, La continuità dello Stato: istituzioni e uomini, in Intorno agli archivi e alle istituzioni. Scritti di Claudio Pavone, a cura di I. Zanni Rosiello, «Pubblicazioni degli Archivi di Stato», Saggi, 84, 2004, p. 502. Torna al testo
Questo saggio si cita: S. Alongi, Fascicolo in A8. Le carte di Pubblica sicurezza nell’Archivio di Stato di Bologna, in «Percorsi Storici», 0 (2011) [http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/22-salvatore-alongi-fascicolo-in-a8-le-carte-di-pubblica-sicurezza-nellarchivio-di-stato-di-bologna]