Home

Isabella Manchia

La Compagnia autonoma speciale e il suo capitano Renato Tartarotti. Analisi delle carte processuali della Corte d’assise straordinaria di Bologna

Questo saggio vuole rendere conto del lavoro di ricerca incentrato sulla Compagnia autonoma speciale e sul suo capitano Renato Tartarotti, condotto con l’obiettivo di ricostruire, nel modo più accurato possibile, la nascita e l’operato di una delle bande autonome della Repubblica sociale italiana (Rsi) e del suo capitano tra l’8 settembre 1943 e il settembre-ottobre 1944 (Nota 1).
Renato Tartarotti fece parte delle forze armate della Rsi, fu attivo soprattutto a Bologna tra il 1943 e il 1944. La sua carriera militare iniziò nel 1934 quando a 18 anni si arruolò volontario a Bologna come fante. Tra quell’anno e il settembre 1943 combattè sul fronte africano come sergente e, dopo un congedo di due anni terminato per sua volontà, fu impegnato con il grado di sergente maggiore anche in Croazia e Slovenia. All’indomani dell’armistizio firmato dall’Italia, tornò a Bologna e si arruolò nella polizia (prima federale e poi ausiliaria). La sua carriera fu così travolgente che ricevette l’incarico di comandare con il grado di capitano un reparto autonomo della Polizia ausiliaria dal giugno all’ottobre 1944. Per i gravi crimini commessi, fu giudicato e processato dalla Corte d’Assise straordinaria di Bologna e condannato, il 4 luglio 1945, alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena (unica sentenza eseguita in città).
La Compagnia autonoma speciale fu una delle otto principali squadre “autonome” attive durante il periodo della Rsi e fu l’unica a operare a Bologna. Creata nel giugno 1944, in pochi mesi seminò il terrore tra la popolazione combattendo atrocemente la Resistenza con catture, rastrellamenti, fucilazioni sommarie e arresti a cui seguivano torture di ogni tipo. Gli appartenenti al reparto però non subirono alcun processo collettivo. Questo ha reso difficile individuare esattamente alcuni componenti del reparto e far luce sul panorama dei numerosi reati commessi.
Si è scelto di indagare proprio sull’operato di Renato Tartarotti sia perché è stato un personaggio di potere dell’epoca, violento esecutore di condanne e torture e spietato comandante di un reparto autonomo della polizia molto attivo nella repressione del movimento partigiano, sia perché è stato l’unico, tra i protagonisti della repressione fascista a Bologna, a essere condannato alla pena di morte e a essere successivamente fucilato al termine di un processo pubblico di grande risonanza presso la popolazione.
Sul suo conto esiste una fotocronaca del processo pubblicata nel 1945 (Nota 2), ma non ci sono studi specifici: Tartarotti non è stato infatti oggetto di particolari ricerche anche se le operazioni e i delitti da lui compiuti, che hanno segnato la città e la popolazione, sono spesso citati in numerose opere che ricordano le vicende bolognesi degli anni della guerra civile.
Per quanto riguarda la Compagnia autonoma speciale, la ricerca ha tentato di ricostruire i meccanismi che portarono alla sua formazione, cercando di capire quanto il reparto fosse veramente autonomo e se fosse controllato o meglio gestito da esponenti fascisti della città, quali e quanti militi ne facessero effettivamente parte, e inoltre come operavano nel mettere in atto azioni criminose.
Lo studio è stato realizzato attraverso un’attenta analisi dell’intero fondo della Corte d’Assise straordinaria di Bologna (Nota 3), conservato presso l’Archivio di Stato della città, ed è stato finalizzato alla ricerca del maggior numero possibile di informazioni e di collegamenti inerenti al soggetto della ricerca, di cui il fondo si è rivelato molto ricco. Per approfondire alcuni elementi si è inoltre ricorso alla consultazione di alcuni fascicoli del fondo Gabinetto di Questura cat. A8, Persone pericolose per la sicurezza dello Stato 1872-1983, conservato anch’esso all’Archivio di Stato di Bologna.

 

Le Corti d’Assise straordinarie: un breve excursus

Prima di entrare nel dettaglio della ricerca è necessario introdurre le Corti d’Assise straordinarie. Come afferma Carmela Binchi nel saggio Repressione del dissenso e giustizia penale: la Corte d’Assise di Bologna, nel secondo dopoguerra furono istituite in ogni capoluogo di provincia le Corti d’Assise straordinarie: tali corti speciali, che operarono tra il 1945 e il 1947, erano composte da un magistrato e da quattro giudici popolari e giudicavano gli imputati che, nella loro giurisdizione, si erano macchiati, dopo l’8 settembre 1943, del reato di collaborazionismo con il tedesco invasore (Nota 4).
Qui è necessario precisare, seppur brevemente, in cosa consistesse questo crimine: è opportuno citare il decreto legislativo del 22 aprile 1945 n. 142 quando definisce collaboratori coloro che rivestivano mansioni di controllo, ovvero ex ministri e cariche direttive del Partito fascista repubblicano, federali, membri dei tribunali straordinari, direttori di giornali politici e ufficiali superiori con funzioni politico-militari (Nota 5). Le Corti d’Assise straordinarie avevano il compito di giudicare gli italiani che, in collaborazione con i tedeschi, avevano partecipato a rastrellamenti, devastazioni, rapine, requisizioni, deportazioni di ebrei, fucilazioni; preso parte a tribunali speciali; fatto delazioni; inflitto sevizie; attuato forme di collaborazionismo economico o fornito assistenza al nemico (Nota 6).
Per tale reato le Corti potevano comminare pene che comprendevano anche la condanna a morte. Il decreto legislativo del 27 luglio 1944 n. 159 stabiliva l’estensione del codice penale militare a tutti i civili (Nota 7). Con tale disposizione si riconosceva l’esistenza di una situazione di guerra civile e di militarizzazione della popolazione che implicava il ricorso a pene severe che comprendevano anche la pena capitale, ma che soprattutto, equiparando i cittadini ai membri delle forze armate in sede di giudizio, li obbligava a render conto non solo del reato di collaborazionismo ma anche di quello di tradimento. Il codice penale militare, infatti, comminava la pena di morte per diversi reati, quali l’aiuto al nemico, l’intelligenza o la corrispondenza con il nemico, l’aiuto o le informazioni a spie o ad altri agenti nemici (tali reati erano puniti anche dal codice penale ordinario con pene che andavano dai dieci anni all’ergastolo).
Nel contempo, va precisato che il decreto del 22 aprile 1945 n. 142 introduceva un’attenuante nell’emissione della pena in base alla quale la condanna inflitta agli ufficiali poteva essere compresa solo tra i dieci e i venti anni di reclusione. Inoltre non costituivano reato né la semplice appartenenza al Partito fascista repubblicano, né l’arruolamento, volontario o involontario, nelle varie formazioni militari della Rsi.
Nonostante la pena capitale potesse essere comminata dalle Corti d’Assise straordinarie, le sentenze di pena di morte emanate e in seguito realmente eseguite furono molto poche (Nota 8).
Si verificò, infatti, qualche tempo dopo la Liberazione una «progressiva attenuazione della severità» (Nota 9) e questo per tutti i delitti considerati dalle Corti. Soprattutto la Corte di Cassazione tendeva a modificare le sentenze di primo grado appellandosi a problemi procedurali tramite i quali cercava di annullare le sentenze di condanna a morte. Questo si verificava perché i componenti della Corte di Cassazione, persone che avevano raggiunto tale prestigioso ruolo durante il fascismo, utilizzavano la loro autorità per strumentalizzare «coscientemente e impietosamente contraddizioni e difetti tecnico-giuridici» della legislazione creata per sanzionare il fascismo (Nota 10).

 

La Corte d’Assise straordinaria di Bologna: il fondo dell’Archivio di Stato

Dopo questo doveroso excursus generale sulle Corti d’Assise straordinarie si approfondirà ora il caso specifico di Bologna.
La Corte d’Assise straordinaria della città iniziò le sue udienze il giorno 11 giugno 1945 e proseguì i propri lavori fino al dicembre dell’anno 1947, momento in cui la Corte – così come tutte le Corti straordinarie istituite per lo stesso scopo – cessò di esistere e tutte le eventuali pratiche processuali o i restanti iter processuali passarono per competenza agli usuali organi della Giustizia.
La documentazione prodotta dalla Corte è attualmente conservata presso l’Archivio di Stato di Bologna, nel fondo Corte d’Appello di Bologna. Atti penali. 1861-1937 che si articola in due grandi parti: la serie V Procura Generale presso la Corte d’Appello di Bologna. 1861-1949, composta da 10 buste; e la serie Fascicoli Processuali. Processi della Corte d’Assise straordinaria, composta da 24 buste contenenti 655 procedimenti penali, così divisi: 404 per il 1945, 168 per il 1946 e 83 per il 1947.
Vanno aggiunti come utili strumenti di consultazione, fondamentali per orientarsi nel fondo, il Registro Generale dei Processi della Corte d’Assise straordinaria e la Rubrica. Il primo, diviso per anni (1945, 1946, 1947), elenca tutti i procedimenti processuali in base alla data di istruzione del caso, specificandone le imputazioni, le sentenze, eventuali ricorsi, e la data di scarcerazione. Il secondo dispone, in una comune rubrica, i nomi di tutti gli imputati con a fianco il numero relativo al Registro Generale (Nota 11).
La documentazione è in gran parte protetta dal decreto legislativo del 22 gennaio 2004, n. 42, codice dei Beni culturali e del paesaggio, art. 122. Secondo questo decreto i documenti riguardanti la privacy delle persone (in particolare i fatti inerenti lo stato di salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare degli individui) possono essere liberamente visionati solo allo scadere dei 70 anni. Sono riservate 26 buste su 34, e precisamente le prime due della Serie V e tutte quelle contenenti i procedimenti processuali.
È importante sottolineare che il fondo non è del tutto inventariato e che questo ha reso più complessa la ricerca: è stato infatti necessario realizzare, per personale necessità organizzativa, una sorta di rudimentale inventario contemporaneamente alla prima lettura dei documenti.

 

Metodologia di lavoro

La ricerca è stata realizzata in seguito alla visione integrale del fondo della Corte d’Assise straordinaria di Bologna con l’obiettivo di raccogliere informazioni attraverso la documentazione processuale. Al fine di ricostruire i fatti oggetto di studio sono stati selezionati 40 procedimenti penali della Corte d’assise straordinaria e sei fascicoli del fondo sovversivi.
I documenti hanno da subito mostrato una complessità che risiede non solo nella vasta mole ma soprattutto nelle caratteristiche che li contraddistinguono. Le carte processuali, infatti, per poter essere correttamente utilizzate, devono essere considerate nel contesto politico, giuridico, burocratico e amministrativo del tempo. Ne consegue ovviamente che è necessario soffermarsi sull’iter che portava il processo alla Corte d’Assise straordinaria, sull’operato all’interno di quest’ultima, sugli eventuali ricorsi in Cassazione e sugli sconti di pena dovuti alle varie amnistie.
Un altro problema essenziale è quello dell’ambiguità della documentazione, o meglio di ciò che i documenti dicono. Molte delle affermazioni fatte nei vari processi dai testi e dagli imputati non sempre sono verificate e verificabili e molto spesso sono contraddette dagli stessi enunciatori in tempi successivi. Proprio il poter disporre, grazie alla vastità della documentazione, di numerose testimonianze sia di testimoni sia, soprattutto, di imputati ha consentito di poter mostrare differenti punti di vista che, sebbene a volte molto discordanti, hanno fornito spesso importanti elementi di analisi. Si è comunque ritenuto opportuno indicare sempre la fonte delle informazioni riportate, a maggior ragione davanti alla gravità dei fatti a cui si riferiscono.
La documentazione è stata rispettata il più possibile nella sua complessità: si è cercato di dare voce a ogni singolo protagonista o spettatore. Gli interrogatori e le risultanze processuali sono state utilizzate come preziose informazioni storiche, senza intraprendere un’analisi dal punto di vista giuridico degli atti. Si è sempre riportata la verità di tutte le persone coinvolte cercando anche di mettere in luce, nei singoli casi, l’intenzione degli imputati di modificare la verità per non incorrere in gravi condanne.

 

Renato Tartarotti e la Compagnia autonoma speciale

Per ricostruire la storia di Tartarotti e del suo reparto tra il 1943 e il 1944 si è proceduto alla selezione della documentazione utile e in seguito alla scelta degli episodi da approfondire. Ci si è soffermati su quei fatti che permettessero di seguire contemporaneamente: la sua carriera all’interno delle forze armate della Rsi, l’escalation di violenza verificatasi in città atta a contrastare la lotta partigiana, i meccanismi che portarono alla formazione della Compagnia autonoma speciale e le pratiche adottate dal reparto per perseguire i propri scopi repressivi. Il filo rosso di tutti gli episodi narrati è la partecipazione (attiva e inattiva) di Renato Tartarotti, anche perché la sua presenza è indissolubilmente legata alla nascita e all’attività della Compagnia autonoma speciale.
In questo saggio si è dovuto effettuare un’ulteriore selezione: si è scelto di riproporre brevemente i fatti essenziali e di approfondire maggiormente solo alcuni episodi.
La ricerca si sviluppa a partire dall’8 settembre 1943 quando il sergente Renato Tartarotti, tornato a Bologna dal fronte, si arruolò prima nella Polizia federale e, in seguito allo scioglimento di quest’ultima, nella Polizia ausiliaria. Fu così che entrò in contatto con l’allora questore Giovanni Tebaldi (Nota 12).
Il clima di tensione in città esplose il 26 gennaio 1944 con l’assassinio del federale fascista Eugenio Facchini cui seguì un processo per rappresaglia celebrato quella stessa notte dal Tribunale militare straordinario di guerra contro dieci antifascisti (Nota 13) già detenuti al momento dell’omicidio. La corte giudicò tutti gli imputati colpevoli e condannò nove di loro alla pena capitale. Renato Tartarotti, poiché prescelto dal questore in qualità di sua guardia del corpo, presenziò eccezionalmente al processo e, probabilmente perché già reputato milite affidabile, ricevette l’incarico di tradurre i condannati al luogo della fucilazione. Durante il trasferimento i prigionieri si ribellarono, riuscirono a ferire gravemente Tartarotti ma non a scappare. Questo episodio è rilevato solo nella documentazione processuale e non è riportato da Bergonzini che ricorda in proposito solo chi eseguì materialmente la condanna (Nota 14).
Tartarotti, dopo la convalescenza, riprese servizio il 28 febbraio 1944, entrando a far parte di un nuovo battaglione della Polizia ausiliaria, e il giorno seguente partecipò, insieme ad altri ufficiali, all’arresto, voluto dal questore, di diversi membri effettivi della 6ª compagnia mobile di polizia e altre persone tutte fermate con l’accusa di antifascismo (Nota 15). Gli arrestati, a seguito di una breve inchiesta, furono denunciati al Tribunale per la difesa dello Stato di Parma e là tradotti.
In seguito alla nomina a sottotenente Tartarotti fu inviato, a fine marzo, a Sassuolo per prender parte a una scuola di addestramento, dove conobbe molti dei suoi militi più fidati.
Successivamente, in seguito all’uccisione di due ufficiali della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) (Nota 16) e al conseguente rastrellamento ordinato dal questore che portò all’arresto di sei antifascisti (Nota 17), Tartarotti fu incaricato prima di comandare un gruppo di militi della Gnr componenti il plotone di esecuzione che trucidò i fermati nella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile, e poi di occuparsi dell’inumazione dei cadaveri.
Nell’aprile 1944 ottenne da Tebaldi l’incarico di recarsi, con un reparto di circa 60 agenti tra ausiliari ed effettivi, nel territorio della Questura di Arezzo per fornire aiuto militare. In territorio toscano la sua squadra presidiò il paese di Loro Ciuffenna e a San Giovanni Valdarno comandò, dietro ordine del questore di Arezzo, il plotone che fucilò tre partigiani (Nota 18).
Quest’ultimo episodio è molto significativo poiché Tebaldi inviò come rinforzo un’unica squadra comandata dal solo Tartarotti. Quella del questore non fu certo una scelta casuale: il suo gesto appare alla luce dei fatti sia una dimostrazione di fiducia che un’ulteriore prova per il tenente. Quest’ultimo non deluse le aspettative del suo superiore: portò a termine la missione, riuscendo a coordinare in modo efficiente, in quanto unico ufficiale, molti uomini. Come riportato più volte nei documenti, fu grazie al suo carisma che riuscì a gestire la situazione ottenendo obbedienza da tutti gli agenti, anche da quelli cui non aveva mai impartito comandi prima e persino dai più restii a commettere gravi azioni delittuose.
Il reparto rientrò a Bologna nel maggio 1944: fu però solo nel mese successivo che si verificò la svolta per la carriera del giovane tenente. Infatti, in seguito alla scioglimento del battaglione di Polizia ausiliaria, Tartarotti ottenne da Tebaldi l’incarico di formare e comandare, col grado di capitano, un reparto: nacque così la Compagnia autonoma speciale che si acquartierò nella residenza del questore, Villa Camponati in via Siepelunga. Qui, come accerta la Corte, si istituì una sorta di «seconda questura che si occupava di fatti politici» e che, «se anche amministrativamente era autonoma, funzionalmente dipendeva dal Questore e ne costituiva il corpo di guardia» (Nota 19). La compagnia infatti era comandata da Tartarotti ma riceveva ordini anche da Tebaldi che «aveva sul Tartarotti piena autorità sia di diritto che di fatto» (Nota 20).
Non ci sono certezze circa il numero di militi che facevano parte del reparto, si ipotizza tra i 60 e i 180 uomini (Nota 21).
La Compagnia autonoma speciale oltre a svolgere il servizio di guardia del corpo del questore, realizzava molte operazioni volte a danneggiare la popolazione e a indebolire fortemente la lotta partigiana. I patrioti venivano arrestati e sottoposti a duri interrogatori in cui Tartarotti e i suoi agenti infliggevano loro terribili torture: i detenuti erano percossi con guantoni da boxe, cinghie di cuoio, bastoni e spranghe di ferro in tutto il corpo, ma specialmente ai piedi e al volto (in particolare gli occhi venivano punzecchiati con spilli fino a far perdere la vista ai malcapitati). Tali torture ordinate da Tartarotti e da Tebaldi spesso portavano alla morte degli arrestati.
Inoltre il capitano era solito infliggere dure punizioni anche ai suoi agenti che quando si rifiutavano di obbedire ai suoi ordini venivano puniti con la tortura del palo. Tale pratica consisteva nel legare il ribelle a un palo posto all’esterno della villa sotto il sole senza cibo né acqua.
Il reparto però non si occupava solo di reprimere la lotta partigiana (arrestando, maltrattando, torturando, eseguendo rastrellamenti e fucilazioni) ma realizzò anche, come emerge per esempio dai numerosi capi di imputazione di Tartarotti, molte rapine aggravate, requisizioni ed estorsioni.
Un caso esemplare riguardante le modalità di operare del reparto, le torture praticate agli arrestati e l’attività di requisizione di beni è quello di Remo Ruggi, accusato di trafficare in oro. Il 30 luglio 1944, con lo scopo di smascherare l’attività illecita, alcuni agenti finsero di essere interessati al commercio di oro e contattarono la vittima. Con tale pretesto Tartarotti e i suoi uomini perquisirono il suo esercizio commerciale e la sua abitazione e, pur non avendo trovato prove sufficienti, arrestarono i titolari della tabaccheria: Ruggi e suo cognato. Li portarono nella sede del reparto ove alcuni agenti comandanti da Tartarotti e Tebaldi li interrogarono e li percossero con guantoni da boxe e leve di ferro. Si accanirono su Ruggi con una tale ferocia che furono costretti a portarlo all’ospedale dove, poco dopo il suo arrivo, nella mattina del 31 luglio 1944 morì per le gravi lesioni riportate. In seguito a tale episodio Tebaldi, per occultare la vicenda, fece redigere un falso rapporto in data 2 agosto 1944 in cui si riferiva che alcuni agenti avevano rinvenuto Ruggi gravemente ferito in un fosso. Ma il figlio del defunto tabaccaio, anche in qualità del suo ruolo di sottotenente della Decima Mas, chiese spiegazioni al questore, che, messo di fronte al misfatto, fu costretto a comprare il silenzio del giovane dopo alcune trattative.
Le torture inflitte al tabaccaio in soli due interrogatori furono così bestiali da ridurlo in poche ore (dalla mattina alla sera) in uno stato che agli agenti apparve come comatoso. Va precisato che questo arresto, seguito da barbari interrogatori, venne effettuato per verificare una semplice, seppur grave, accusa di contrabbando e non per una collaborazione politica o militare con i partigiani.
La sentenza contro Tebaldi a tal proposito specifica quanto segue:

Va infatti tenuto presente che il Ruggi fu sottoposto a sevizie perché si voleva rivelasse il luogo ove teneva nascosto l’oro di cui si riteneva in possesso. Questo essendo lo scopo degli inquisitori, è anche logico ritenere che fosse in contrasto colla loro volontà e con il loro interesse (e quindi azione antieconomica sotto l’aspetto criminoso) la soppressione del Ruggi la cui morte avrebbe definitivamente fugato la speranza di ricupero dell’oro. La morte del tabaccaio Ruggi all’uccisione del quale non c’era fra l’altro una clausola adeguata (non ricorre invece per gli omicidi in persona di partigiani) rappresentò un evento più grave di quello effettivamente voluto, di quello cioè di ledere la integrità fisica dello arrestato per farlo soffrire e quindi indurlo alla confessione.
Le lesioni aggravate dalle atroci sevizie provocarono invece la morte (Nota 22).

La sentenza definisce il delitto Ruggi come «delitto politico» (Nota 23). Affermazione, questa, che appare in contrasto con quanto precedentemente affermato dalla Corte a proposito della natura del reato di omicidio commesso, oltre che con la logica legata allo svolgimento dei fatti.
Certo l’importanza del traffico di oro è indubbia, così come i ricavi economici che ne sarebbero derivati per la Compagnia e per il questore se si fosse riuscito a sequestrare il presunto patrimonio in oro del tabaccaio: appaiono però comunque eccessivi la violenza e l’accanimento esercitati tra l’altro in modo così feroce solo su uno dei due fermati. Il cognato di Ruggi fu infatti arrestato solo perché anch’egli titolare dell’esercizio commerciale ma la segnalazione originaria vedeva il reato di contrabbando imputato solo a Ruggi.
Perché comunque accanirsi in quel modo solo su quest’ultimo? È forse ipotizzabile che tutto questo si sia verificato per riuscire a mettere le mani su un presunto tesoro che di certo faceva gola alle casse della Questura e forse, in particolar modo, alla nuova Compagnia? Non ci sono elementi per affermarlo. E ancora: la violenza era quindi esercitata anche contro coloro che non erano partigiani e che nemmeno fornivano aiuto a essi?
Come è possibile, infine, che gli agenti non avessero svolto nessuna indagine sul conto del tabaccaio e non avessero scoperto che egli aveva un figlio che ricopriva il ruolo di ufficiale all’interno della Decima Mas? Circostanza davvero particolare e sfavorevole ai torturatori. L’ingenuità appare disarmante, oltre che controproducente, per gli assassini, quando realizzano di aver compiuto un omicidio ai danni del padre di un loro camerata. Ma in quale momento il questore si rese conto dell’errore? Quando Ruggi era già spirato o la notte precedente quando era ferito ma ancora in vita? E comunque, per quale motivo affermare di aver ritrovato il tabaccaio ferito sulla pubblica via? Non era infatti necessario produrre un documento in proposito dato che già altre volte in situazioni simili o nel caso di fucilazioni i corpi delle vittime erano stati abbandonati per strada.
Questo fatto unito a tutta una serie di reati fa ipotizzare che oltre alla lotta alla Resistenza molte delle operazioni della squadra di Tartarotti fossero indirizzate a realizzare requisizioni di ogni tipo attuate forse con lo scopo di soddisfare le esigenze della Questura e del reparto: aspetto indubbiamente rilevante e che andrebbe ulteriormente approfondito.
La Compagnia autonoma speciale continuò a operare a Bologna fino al settembre 1944 periodo in cui il reparto fu trasferito a Trieste, città dove già era stato trasferito Tebaldi che era stato sostituito a Bologna da Fabiani. Tartarotti non era in buoni rapporti con il nuovo questore: quest’ultimo, d’altra parte, non lo vedeva di buon occhio soprattutto dopo che si era rifiutato di comandare la fucilazione dei membri del Partito d’azione catturati e condannati a morte (Nota 24).
Si può dire che questo rifiuto di Tartarotti pose fine alla sua carriera. Il reparto, infatti, con il trasferimento, perse dapprima la sua autonomia e poi il suo capitano che, in seguito alla denuncia prodotta dal questore Tebaldi circa la gestione finanziaria del corpo, fu arrestato e trascorse gli ultimi mesi della Rsi in prigione prima di essere giudicato, al termine della guerra, dalla Corte d’Assise straordinaria di Bologna.

 

Esiti della ricerca. L’ombra di Tebaldi su Tartarotti e la Compagnia autonoma speciale. Tanti colpevoli, un solo condannato

La ricerca delinea così la figura di Renato Tartarotti mostrando la sua evoluzione o meglio la sua rapida scalata al potere e il suo ancor più veloce declino.
Il giovane sergente, obbedendo diligentemente agli ordini dei superiori e distinguendosi per lealtà, crudeltà e abilità nel comandare, si inserì infatti velocemente nel meccanismo di lotta tra poteri della Rsi e riuscì a conquistare la protezione del questore della città che lo sostenne nella sua ascesa all’interno delle forze armate.
Emerge infatti in maniera molto evidente, grazie all’incrocio delle diverse testimonianze e ai fatti accertati dalle sentenze emesse dalla Corte, che Renato Tartarotti ottenne e perse il suo potere a causa dell’intervento della stessa persona: Giovanni Tebaldi. Il questore, infatti, prese il giovane sergente maggiore sotto la propria ala protettrice nominandolo dapprima sottotenente, poi tenente e infine capitano per meriti ottenuti sul campo, concedendogli anche il “diritto di bottino”, secondo la ricostruzione di Bergonzini (Nota 25): creò così un milite senza scrupoli, crudele, obbediente, fedelissimo alla causa fascista, ma soprattutto fedelissimo a lui in prima persona. In seguito, quando vennero a galla l’eccessivo spargimento di sangue, i troppi arresti, le torture e i furti compiuti dalla Compagnia autonoma speciale, il questore, pur di non risultare implicato e per insabbiare ogni cosa, denunciò Tartarotti per scorrettezze nel bilancio del reparto e lo fece arrestare. Scaricando così su di lui, prima implicitamente e poi, nel dopoguerra, esplicitamente, ogni diretta responsabilità per qualsiavoglia reato compiuto dalla squadra autonoma. Distrusse così quella che poteva apparire la sua creatura.
Si deve osservare che Tartarotti fu l’unico a essere veramente punito per le sue colpe, pagando con la vita. Va detto che i processi del dopoguerra furono molto importanti per la popolazione che, dopo aver vissuto una guerra caratterizzata dalle violenze contro i civili, desiderava vendicarsi sui responsabili di tante atrocità. I processi, come ricorda anche Toni Rovatti, furono il principale mezzo per gestire e controllare la violenza popolare avvicinandola alla giustizia e alla legalità (Nota 26). Al processo Tartarotti vi fu una grande partecipazione di popolo ma solo una cinquantina di persone, per ordine del presidente della Corte, potè assistere all’udienza e vedere l’imputato, il “famigerato” capitano che tanto avevano temuto e che desideravano fosse duramente punito (Nota 27). A ogni modo la popolazione comunque riuscì ad assistere al processo tramite la radio e gli altoparlanti posti nelle piazze (Nota 28).
Certamente durante l’udienza è stata accertata la colpevolezza dell’imputato Tartarotti in merito a moltissimi dei suoi capi di imputazione, ma è altrettanto vero che nel clima del dopoguerra la popolazione desiderava per lui la pena di morte. Alla proclamazione della sentenza il pubblico accolse la notizia della condanna alla fucilazione alla schiena «con applausi scroscianti» (Nota 29). Tartarotti era senz’altro colpevole di numerosi crimini e i bolognesi comprensibilmente reclamavano la massima pena, ma solo il “famigerato” capitano fu colpito effettivamente dalla giustizia, eppure certamente non avrebbe potuto compiere tali e così tanti delitti da solo. Si attivò quindi un processo collettivo, necessario per l’elaborazione del lutto, che portò a individuare in Tartarotti il capro espiatorio, il mostro, la bestia feroce e crudele. Per capire l’entità di questa demonizzazione del capitano della Compagnia autonoma speciale si riporta uno stralcio dalla fotocronaca completa del processo, pubblicata nel luglio 1945, poco dopo la condanna a morte, che descrive l’imputato in base a quello che era il pensiero in quei mesi sul suo conto:

Un uomo, soprattutto, un ufficiale della polizia ausiliaria, esplicava una spaventosa, nefanda attività non solo contro i partigiani, ma contro chiunque avesse la malasorte di cadere sotto i suoi artigli lordi di sangue umano ed avidi di rapine. L’ombra di questo essere perverso e sanguinario si distese sinistra sulla città e gravò come un incubo spaventoso. La gente pronunciava timorosamente il suo nome, che suscitava brividi di paura. Sui muri delle case apparvero le scritte a carbone: «Morte a Tartarotti» (Nota 30).

Nel libello si racconta brevemente la vita di Tartarotti: lo si dipinge come contraddistinto da una cattiveria innata manifestata già da bambino, si enfatizza poi la sua indole nei racconti di tutti i terribili ed efferati crimini da lui veramente e atrocemente compiuti, fino ad arrivare a chiedersi come sia possibile dire qualcosa a favore dell’imputato: «C’è forse qualcuno che possa in buona fede dichiarare che la jena non è una bestia feroce bensì un animale mansueto e vegetariano?» (Nota 31). Come è possibile quindi difendere una persona, o meglio un essere che ha perso ogni sembianza umana e che si è macchiato di tali crimini? è difficile dirlo, forse è veramente impossibile soprattutto per le violenze indicibili da lui inferte ad altri esseri umani.
Se la colpevolezza di Tartarotti è indubbia, è altrettanto indiscutibile il meccanismo che porta a individuare in lui l’unico responsabile, il mostro, l’uomo diabolico che si distingue per la sua innata cattiveria, la «jena», l’animale, ciò che di più lontano dall’umanità possa esistere. Tale processo di costruzione del responsabile unico, l’individuazione del capro espiatorio, certamente ha favorito l’elaborazione del lutto e ha saziato la richiesta di giustizia della popolazione, ma ha anche causato un’interpretazione errata del contesto (Nota 32). è infatti necessario occuparsi dei numerosi, efferati crimini compiuti da Tartarotti ma è evidente che difficilmente il capitano avrebbe potuto compiere tali atti e raggiungere le posizioni di comandante di un reparto autonomo senza l’avallo dei suoi superiori e l’aiuto dei suoi sottoposti, e tutti questi sono stati condannati a pene ridicole poi in poco tempo amnistiate o condonate. Un esempio su tutti, quello del questore Tebaldi, riconosciuto come la persona che ha permesso l’ascesa di Tartarotti e come suo principale correo per la maggior parte dei gravi fatti criminosi imputati a entrambi. Infatti Tebaldi fu condannato in primo grado a nove anni, poi ridotti a due. La sproporzione è evidente.

In sintesi, quello che emerge dall’analisi della documentazione e da questo lavoro di ricerca è che Tartarotti ha senz’altro compiuto crimini efferati, ma sempre all’interno di una struttura di potere che indirizzava o motivava il suo operato. Per questo bisognerebbe ulteriormente fare luce, oltre che sui singoli protagonisti della scena bolognese, sui meccanismi interni di potere che reggevano la città durante la Repubblica sociale italiana. Allo stesso tempo sarebbe interessante indagare quanto la popolazione e i movimenti partigiani avessero compreso il funzionamento dei meccanismi di potere e se avessero individuato come responsabili non solo i bracci armati, che come Tartarotti compivano materialmente stragi e violenze, ma anche i mandanti, i vertici politici e militari.

 

NOTE:

 

Nota 1. Tesi di laurea di Isabella Manchia, Repressione e violenza nella Rsi. Il caso della Compagnia autonoma speciale e del suo capitano Renato Tartarotti. Uno studio basato sulla documentazione processuale della Corte d’assise straordinaria di Bologna (1945-47), Università degli Studi di Bologna, a.a. 2009/2010. Torna al testo

 

Nota 2. Vita, crimini, condanna del famigerato “capitano” Tartarotti, Steb, Bologna luglio 1945 [pubblicato con autorizzazione del Psychological Warfare Branch (Pwb)]. Torna al testo

 

Nota 3. Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi asbo), Corte d’Appello di Bologna. Atti penali. 1861-1937 (d’ora in poi Corte d’Appello. Atti penali), serie V Procura Generale presso la Corte d’Appello di Bologna. 1861-1949, bb. 10; e asbo, Corte d’Appello. Atti penali, serie Fascicoli Processuali. Processi della Corte d’Assise straordinaria, bb. 24. Torna al testo

 

Nota 4. C. Binchi, Repressione del dissenso e giustizia penale: la Corte d’Assise di Bologna, in «Percorsi storici», 0 (2011). Torna al testo

 

Nota 5. M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006, p. 29. Torna al testo

 

Nota 6. M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza del dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 35. Torna al testo

 

Nota 7. M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, cit., p. 29. Torna al testo

 

Nota 8. «Globalmente le condanne alla pena capitale comminate in primo grado sono stimabili tra le 500 e le 550 delle quali 91 eseguite, pari a circa il 18% del totale. Sulla non esecuzione delle condanne a morte influiscono efficacemente tre poteri: la Commissione alleata, il ministero di Grazia e Giustizia (che può agire autonomamente o dietro sollecitazione anglostatunitense) e la Corte di Cassazione»: M. Dondi, La lunga liberazione, cit., p. 48. Torna al testo

 

Nota 9. Ivi, p. 47. Torna al testo

 

Nota 10. G. Neppi Modona, La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia repubblicana, in G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria delle guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2001, p. 279. Torna al testo

 

Nota 11. asbo, Corte d’Appello. Atti penali, Registri. Corte d’Assise, n. 171 Registro Generale dei processi della Corte d’Assise straordinaria, 1945-1947, n. 171 e asbo, Corte d’Appello. Atti penali, Registri. Corte d’Assise, n. 172 Rubrica dei processi della Corte d’Assise straordinaria, 1945-1947. Torna al testo

 

Nota 12. Giovanni Tebaldi arrivò a Bologna nel novembre 1943 per ricoprire il ruolo di questore, dopo essersi distinto come fascista convinto a Perugia dopo l’8 settembre 1943 per essersi autonominato capo della polizia e per aver eseguito numerosi arresti, anche quello del prefetto e del questore di Perugia. Torna al testo

 

Nota 13. Si tratta dei fratelli Alfredo e Romeo Bartolini, di Sante Contoli, di Francesco D’Agostino, di Alessandro Bianconcini, di Ezio Cesarini, di Zosimo Marinelli, di Cesare Budini, di Silvio Bonfigli e di Luigi Missoni. Torna al testo

 

Nota 14. Cfr. L. Bergonzini, La svastica a Bologna settembre 1943 - aprile 1945, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 41-42. Torna al testo

 

Nota 15. Il capitano Gherardo Paolino, il tenente Carlo Galli, il vice prefetto dottor Efisio Giua Loi, il segretario di prefettura dottor Dante La Rocca, il commissario aggiunto di Ps (Pubblica sicurezza) Luigi Garcea e il vicebrigadiere di Ps Fortunato Amante. Furono arrestati inoltre (non è chiaro se il 29 febbraio o in seguito) Tommaso Fornaciari, il maresciallo Alberico Racalbuto, Nerina Baldanza, Alberto Pistolini e Clara Gervasoni, moglie di Paolino. Torna al testo

 

Nota 16. Il 31 marzo 1944 furono uccisi a colpi di arma da fuoco in un attentato due ufficiali della Gnr: il capitano Mario Mele e il tenente Giuseppe Massobrio. Torna al testo

 

Nota 17. Tra il 27 e il 30 marzo 1944 furono arrestate dalla Polizia ausiliaria in seguito alla delazione di Remo Naldi sei persone accusate di attività partigiana: il vice brigadiere dei vigili urbani Ettore Zaniboni, la diciannovenne Francesca Edera De Giovanni, Egon Brass, Attilio Diolaiti, Enrico Foscardi, Ferdinando Grilli. Torna al testo

 

Nota 18. Dovrebbe trattarsi della fucilazione «dei tre partigiani Paolini, Berton, e Fiscaletti (S. Giovanni Valdarno: 24 apr. 1944)» di cui si parla in Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo 1943-44 e che viene attribuita alla Gnr e non alla polizia. Cfr. I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo 1943-44, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990. Va comunque ribadito che non c’è perfetta coincidenza tra le informazioni contenute nel fondo e quelle fornite da Tognarini. Torna al testo

 

Nota 19. asbo, Corte d’Appello. Atti penali, Fascicoli processuali, b. 4 bis 1946, fasc. 88/1946, sentenza contro Giovanni Tebaldi, Bologna 22.10.1953. Torna al testo

 

Nota 20. IbidemTorna al testo

 

Nota 21. Per quanto riguarda il numero dei militi che facevano parte della compagnia non ci sono informazioni precise, i testimoni sono discordi: alcuni parlano di 60 uomini, altri di 180, altri addirittura di 380 agenti. è ipotizzabile che la cifra più prossima alla realtà si aggiri tra i 60 e i 180 uomini: probabilmente la grande differenza tra i numeri riportati dai testi deriva dal fatto che molti agenti della Questura pur non facenti parte della Compagnia autonoma speciale potessero però dipendere amministrativamente dal reparto di Tartarotti, come affermato da alcuni imputati. Incrociando i dati che emergono dalla documentazione si ricavano i nomi certi di circa 25 membri della squadra, mentre altri 17 sono citati in modo solo frammentario e a loro nome non si ritrovano né fascicoli processuali né schede di polizia. Torna al testo

 

Nota 22. asbo, Corte d’Appello. Atti penali, Fascicoli processuali, b. 4 bis 1946, fasc. 88/1946, sentenza contro Giovanni Tebaldi, Bologna 22.10.1953. Torna al testo

 

Nota 23. IbidemTorna al testo

 

Nota 24. In seguito a un’astuta opera di spionaggio, l’Ufficio politico investigativo della Gnr riuscì a ingannare e catturare nel settembre 1944 moltissimi membri del Partito d’azione. I prigionieri furono incarcerati, torturati e infine processati, il 19 settembre, da un Tribunale militare straordinario. Il processo-farsa si concluse con 8 condanne a morte inflitte a Massenzio Masia, Armando Quadri, Luigi Zoboli, Arturo Gatto, Mario Giurini, Sante Caselli, Sario Bassanelli e Pietro Zanelli, e 10 condanne alla reclusione, Giosuè Sabbadini e Orlando Canova a 30 anni, Giancarlo Canè a 11 anni, Anselmo Ramazzotti e Sergio Forni a 9 anni, Giuseppe Di Domizio a 8 anni, Alberto Zoboli a 7 anni, Gino Onofri a 6 anni, Umberto Zanetti a 2 anni, Leda Orlandi in Bastia a 10 mesi. Le condanne a morte non furono immediatamente eseguite perché in seguito a ordine ricevuto dal prefetto prima Tartarotti e poi un colonnello della Gnr si rifiutarono di comandare il plotone di esecuzione. Nonostante la richiesta di avanzare domande di grazia (proposta avallata anche da Tartarotti), le sentenze furono eseguite il 23 settembre 1944. Torna al testo

 

Nota 25. L. Bergonzini, La svastica a Bologna, cit., p. 45. All’interno della documentazione presa in esame non vi sono però riscontri precisi su quanto afferma Bergonzini circa il diritto di bottino. Torna al testo

 

Nota 26. «I processi appaiono come un tentativo cosciente di rifare i conti con il proprio recente passato, definendo in maniera inappellabile i nuovi valori della nazione. Da un punto di vista prettamente istituzionale si dimostrano anche uno strumento capace di incanalare la violenza popolare e gli strascichi della guerra civile nell’alveo della legalità»: T. Rovatti, Il caso Reder, in L. Casali, D. Gagliani, (a cura di), La politica del terrore. Stragi e violenze naziste e fasciste in Emilia Romagna, L’ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2008, pp. 259-275. Torna al testo

 

Nota 27. asbo, Corte d’Appello. Atti penali, Fascicoli processuali, b. 2 1945, fasc. n. 134/1945 Tartarotti Renato e altri, dibattimento del 3 luglio 1945. Torna al testo

 

Nota 28. M. Dondi, La lunga liberazione, cit., p. 50. Torna al testo

 

Nota 29. Vita, crimini, condanna del famigerato “capitano” Tartarotti, cit., p. 32. Torna al testo

 

Nota 30. Ivi, p. 3. Corsivo nostro. Torna al testo

 

Nota 31. Ivi, p. 29. Torna al testo

 

Nota 32. Cfr. T. Rovatti, Il caso Reder, cit., pp. 259-275. Si veda per esempio questo passo: «[...] il processo appura con certezza la sua colpevolezza per molti degli eccidi che gli sono imputati, ma egli non è il diavolo e la sua feroce criminalizzazione tende a decontestualizzare gli eventi», p. 274. Torna al testo

 

Questo saggio si cita: I. Manchia, La Compagnia autonoma speciale e il suo capitano Renato Tartarotti. Analisi delle carte processuali della Corte d’assise straordinaria di Bologna, in «Percorsi Storici», 0 (2011) [http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/30-isabella-manchia-la-compagnia-autonoma-speciale-e-il-suo-capitano-renato-tartarotti-analisi-delle-carte-processuali-della-corte-dassise-straordinaria-di-bologna]

Console Debug Joomla!

Sessione

Informazioni profilo

Utilizzo memoria

Queries Database