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Maria Beatrice Bettazzi

Alla ricerca dell’identità perduta. Storie di luoghi a San Lazzaro di Savena*

 

Abito a S. Lazzaro da quasi quarant’anni, verso est, dove, lungo la dorsale della consolare via Emilia, l’addensamento dell’edilizia, per lo più di carattere residenziale lascia spazio a quanto resta della campagna oppure, a nord, agli insediamenti industriali. Una zona che a fatica si può dire che, tranne qualche apertura bucolica attorno a Villa Cicogna, abbia un appeal paesaggistico e come tale, nell’indifferenza è vissuta e percepita dagli abitanti e dagli utilizzatori di passaggio.
Queste mie note hanno l’obiettivo di riportare per un momento l’attenzione invece proprio su questo piccolo comparto che, pur nella relativa identità che connota l’intero centro di San Lazzaro, si fa a cavallo degli anni Sessanta un polo attrattivo di significato.
Si sono incrociate in quelle poche centinaia di metri personalità di indubbie capacità e il tasso culturale ed etico di quei luoghi ha raggiunto livelli degni di nota. Stiamo parlando, venendo da ovest, dello stabilimento industriale ex OM, del Villaggio per lavoratori di via dei Ciliegi voluto da padre Marella e del negozio Gavina.
Più in dettaglio, il progetto dell’insediamento che oggi ospita un grande magazzino di abbigliamento, ma ai tempi era l’OM, si apre con una sfida (Nota 1). Gandolfi, che produce e commercializza camion e macchinari per l’industria ed è in forte espansione, siamo nei primi anni Sessanta, vuole 5.000 metri quadri di stabilimento, uno spazio libero e sgombro da ostacoli alla vista e al movimento. Si è imbattuto in un progetto eseguito da un giovane architetto e gli è molto piaciuto: Glauco Gresleri deve lavorare per lui.
L’impresa non è da poco: servono delle travi con una luce di 60 metri e senza sostegni intermedi.
Si ricorre a un’impresa svizzera, l’unica che in quel momento sembra in grado di prendersi in carico un’opera del genere. Gli svizzeri arrivano a Bologna, impiantano il cantiere e i servizi necessari al lavoro di 100 uomini che vengono assunti e lì si trasferiscono per cominciare a operare. Ma a questo punto interviene un colpo di scena: la ditta svizzera improvvisamente fallisce e tutto quel lavoro preliminare che era stato già intrapreso rischia di venire vanificato. Si riesce a risolvere il problema economico, ma manca chi diriga l’impresa: nonostante la complessità delle questioni, il giovane architetto si accolla il compito, mentre a nuovi professionisti viene affidata la responsabilità dei calcoli strutturali.
La realizzazione delle travi a sostegno della copertura implica, però, due ordini di questioni. La prima, progettuale: il committente non vuole, nel corpo principale, quello produttivo, sostegni intermedi per meglio organizzare la catena di montaggio dei mezzi. Pertanto bisogna prevedere un’ampiezza molto accentuata che vada di pari passo con una straordinaria sottigliezza degli spessori (in modo da tenere più leggere possibile le strutture); ma tutto questo deve essere in qualche modo controbilanciato e reso stabile e si pensa a catene interne alle solette che contrastino la spinta delle travi ad aprirsi.
Un’altra questione da risolvere è invece contestuale alla costruzione delle strutture: trovare una soluzione per fare fronte agli assestamenti delle travi al momento del disarmo, una volta fatto presa il cemento armato che viene, quindi, a questo fine precompresso in opera.
Varrebbe davvero la pena sentire dalle vive parole del progettista alcuni degli episodi che hanno segnato la vita del cantiere. Come quando si dovevano gettare i grandi travoni in situazioni metereologiche estreme con l’ansia della responsabilità di materiali costosissimi, ma anche della vita di uomini impegnati in un lavoro al limite della resistenza fisica. Il gelo aveva cominciato a ghiacciare la pasta del cemento che rischiava di non giungere fino in fondo alle casserature. Questo avrebbe significato, una volta rappresa la materia, avere delle lacune e quindi dei punti di debolezza insostenibili in una struttura di quella portata. Poteva crollare tutto. Bisognava che il cemento rimanesse fluido, ma la temperatura continuava a scendere. Gresleri mettendo in gioco tutto, compreso il rapporto umano col capomastro che era contrario (ma poi, visto che aveva avuto torto, si dimise dall’incarico, allora usava), fece un falò di copertoni che contribuì a sciogliere il ghiaccio. La centrale di betonaggio potè ripartire e il cantiere fu salvo.

Anche se oggi si fatica un po’ a leggere la vastità dello spazio interno, il capannone principale è un grandioso quadrato coperto da cinque campate, ciascuna composta da una trave, con sezione a Y e andamento curvilineo all’estradosso. Nello spazio fra la centinatura e la soletta di copertura sottostante si aprono lunghe finestre che seguono l’andamento arcuato e illuminano dall’alto l’area di lavoro. La copertura ospita anche parte degli impianti.
Nel progetto originario, oggi non più leggibile, anziché giustapporre semplicemente un corpo per gli uffici, questo fu inserito dalla parte del fronte, come una lama nella carne, di testa, per agevolare la massima osmosi così nelle operazioni lavorative, come nei rapporti fra colleghi e coi clienti (Nota 2).
Era poi previsto, e fu costruito, un fabbricato, più a est, autonomo per ospitare alcuni appartamenti per il personale, un bar e un ristorante che divenne famoso e meta di gourmet da tutta la regione.
Le foto scattate all’epoca dell’inaugurazione rendono molto bene, anche nel bianco e nero, l’idea di “fabbrica giardino”, la volontà cioè di creare, al pari delle contemporanee e certo più note esperienze olivettiane, un ambiente piacevole in cui lavorare, arricchendolo con specchi d’acqua, vegetazione e opere d’arte, queste ultime di Giuliano Gresleri. La scultura in quella che era la vasca d’acqua davanti allo stabilimento oggi campeggia tristemente fra erbacce e sporcizia. Un cenno va anche al parallelepipedo di vetro che nell’area antistante lo stabilimento doveva presentare in una gigantesca vetrina l’ultimo modello, il gioiello nuovo fiammante della ditta. Anche per questo contenitore, ormai ridotto a una gabbia arrugginita, pur consapevoli che non sia semplice trovargli una funzione, auspichiamo a breve un intervento che ne eviti il definitivo deterioramento.
La qualità architettonica di questo complesso non passò inosservata. L’associazione culturale fondata da Bruno Zevi per promuovere l’architettura in Italia, l’In-Arch, conferì nell’anno 1966 a Glauco Gresleri un premio proprio per questo complesso che, contemporaneamente, dall’altro capo dell’Oceano, al Museo d’Arte moderna di New York, entrò nella lista fra le opere di ingegneria più rappresentative del XX secolo.
Spostandoci leggermente più a nord, discosti di poco dalla via Emilia sorge il cosiddetto Villaggio dei ragazzi di padre Marella. Padre Olinto Marella, da tempo portava la sua opera di sostegno e recupero alle giovani vite organizzando laboratori in cui i ragazzi imparassero un mestiere e potessero così rimanere lontani dalla strada e farsi una vita degna di questo nome. Dopo l’ennesimo sfratto subito dalla sua comunità, siamo intorno al 1956, si trovò il terreno fuori San Lazzaro che venne acquisito contestualmente alla vicina proprietà, quella di un mobiliere con idee originali, un certo Dino Gavina (ne parleremo più oltre). In questo caso la storia architettonica di questo piccolo microcosmo urbano va di pari passo alla storia di un sogno, di un progetto ad alta caratura etica che prende il sopravvento e ruba la scena alla forma. Non sta a me in questa sede ricordare l’operato del sacerdote veneto a cui tanti bolognesi devono la vita loro e delle loro famiglie. Qui non è questione di fare architettura, qui c’è bisogno di tetti sotto cui fare dormire la gente, far lavorare i giovani e col tempo riunire una comunità in preghiera. Intuiamo rapporti con le radici geografiche del padre, in Veneto, a motivare la scelta di un ingegnere veneziano, Tullio Campostrini, che appresta i progetti per tre serie di edifici: residenze, uno spazio ampio per il lavoro, laboratori e, per ultima, la chiesa.
Un’interessante ricerca d’archivio ha messo in luce che esistono ben tre soluzioni planimetriche diverse per la distribuzione degli spazi residenziali e comunitari. Una prima risale all’iniziale insediamento di casette, quelle poste sulla destra scendendo per via dei Ciliegi. Siamo nel 1956 e vengono costruiti otto fabbricati a due piani disposti affiancati, in diagonale rispetto alla strada. Il piano prevedeva sul lato opposto, un altro gruppo di abitazioni di fronte alla proprietà di Gavina, più verso la via Emilia, la chiesa e una terza serie di casette di fronte alle prime costruite.
Nel 1964 viene presentata una variante che, rinunciando al terreno verso la via Emilia concentra l’edificato dopo la leggera curva di via dei Ciliegi. Qui, sulla destra compare l’edificio per la comunità, accanto alle prime abitazioni. La chiesa finisce in fondo al lotto a chiudere la prospettiva e di qua e di là dalla strada sono previste nuove residenze. Il disegno di queste ultime cambia rispetto alla prima serie. Ogni unità si compone di un corpo a due piani leggermente discosto dalla strada affiancato da un volume perpendicolare che giunge a lambirla ospitando il garage. È proprio questo elemento, nella progressiva e sempre più diffusa acquisizione da parte dei nuclei famigliari di un automezzo, a motivare la necessità di adeguare anche il primitivo gruppo di casette fornendo agli abitanti un ricovero per le auto, inizialmente non previsto. Ecco che spunta la terza e ultima planimetria, siamo nel 1967. La chiesa torna a occupare una posizione di visibilità all’ingresso del piccolo comparto, sulla sinistra, e, a destra, fra le prime abitazioni costruite e la nuova serie, si apre uno slargo contenuto, una sorta di piazzetta alberata, su cui si allinea una serie di rimesse. In fondo al lotto, ove nella seconda soluzione era prevista la chiesa e abitazioni, ora lo spazio viene destinato ad attrezzature sportive e per il gioco dei ragazzi.
Non credo che padre Marella volesse lasciare un segno architettonico ai posteri. Le casette dovevano essere popolari e ogni lusso era bandito. Ma oggi, a seguito di un recente restauro, l’impatto di questo piccolo villaggio è improntato a grande decoro. Secondo la volontà del padre, ogni casa ha il suo giardinetto, le dimensioni sono contenute ma vi è cura nella composizione degli spazi. Nelle casette della versione più recente sembra quasi che il progettista abbia riletto la lezione del Movimento moderno, quando la ricerca era attorno al concetto di existenz minimum, uno spazio sufficiente a ospitare in modo decoroso tutte le principali funzioni della vita umana, organizzandole in modo funzionale e secondo dettami formali improntati al rigore delle linee e alla semplicità dei volumi. I grandi portelloni blu elettrico conferiscono una piacevole nota di colore.
Il lodevole impegno dell’ispiratore di questa comunità di garantire un tetto, uno spazio per il lavoro e solo quando le principali funzioni del vivere sono assicurate, un luogo per la preghiera, lascia al termine della storia la costruzione della chiesa. Anche qui esistono due progetti. Nel primo era prevista una copertura più mossa che però non piacque alla Commissione edilizia che la bocciò. Campostrini redasse allora una seconda soluzione semplificata che è quella che vediamo oggi. Per il corpo della chiesa è stato scelto il mattone faccia a vista su cui si staglia il blocco d’ingresso intonacato di bianco come del resto le abitazioni. La forma poligonale è accentuata negli spigoli da un gioco di mattoni apparecchiati in modo da creare una sorta di disegno astratto che accentua la sensazione di trapasso da una superficie a quella contigua.
Piccoli vezzi, piccoli segni di cura, ma la specificità qui si gioca su altri valori: quelli del lavoro che nobilita e della vita che si arricchisce nella dimensione comunitaria, nell’aiuto reciproco e nella condivisione delle risorse.
Comunque anche l’occhio vuole la sua parte e fra le cose belle si vive meglio. In una luminosa giornata di primo autunno le pietre di questo villaggio ridono al sole.
L’ultimo caso che affrontiamo entra in scena per via di un’altra, ulteriore motivazione: non eccellenza strutturale e costruttiva, come nel primo, non missione ad alta caratura umana e comunitaria, come nel secondo. Qui parliamo di un’esperienza di punta a livello internazionale sul piano della cultura, e del design in specifico.
Nella zona più a est del comparto in esame, in contiguità con l’area di padre Marella vengono costruiti a partire dal 1956 tre capannoni. I primi due, eretti a distanza di due anni (Nota 3), vengono adibiti alla realizzazione di mobili da un bravo produttore col fiuto per gli affari. Dino Gavina (1922-2007), questo è il suo nome, aveva cominciato nei primi anni Cinquanta con gli allestimenti teatrali e con la tappezzeria, ma ben presto, però, la sua forte personalità aveva rotto gli argini delle vie precodificate. La conoscenza e frequentazione con giovani artisti, ma anche il rapporto con Lucio Fontana, lo allenano al gusto per la trasversalità, per l’irritualità, per l’essenza vera della creatività. E poi cominciano gli scambi con Milano, con la Triennale, centro pulsante del mondo dell’architettura, e con alcune figure destinate ad avere un ruolo fondamentale nella vita di Gavina. Per esempio i fratelli Castiglioni di cui diventa inseparabile amico, prima che committente e produttore. Sono loro a firmare il progetto dell’ultimo capannone (Nota 4), quello sulla via Emilia destinato a diventare sede espositiva della ditta, e sempre loro disegnano uno dei primi oggetti che farà la fortuna dell’imprenditore bolognese, la poltrona Sanluca. Questo è solo l’inizio: Gavina recupererà il rapporto con uno dei maestri del Movimento moderno, il tedesco Marcel Breuer, dando alla ditta un respiro internazionale e una risonanza culturale amplissima. Breuer, negli anni Venti docente al Bauhaus, la scuola che ha rivoluzionato l’architettura aprendo definitivamente alla modernità, darà licenza di far riprodurre alcuni suoi modelli a quello che considerava «il più emotivo e impulsivo di tutti i costruttori di mobili del mondo»: ricordiamo per tutti la poltroncina in tubolare di acciaio cromato e cuoio Wassily. Disegnata nel 1929, venne riproposta dalle vetrine del nuovo punto vendita Gavina nel 1962 e così battezzata per aver varcato la soglia di casa Kandinsky ancora in forma di prototipo. E da lì in poi si costruisce un catalogo, commerciale, certo, ma che non ha nulla da invidiare alla collezione di un museo del design. Perché Dino Gavina è, lo diciamo con le parole del critico Beppe Finessi,

un imprenditore con il fiuto del talent scout, col piglio di chi vuole percorrere per primo certe strade, un ‘sovversivo’ vero, inclassificabile, difficilmente controllabile, generoso e filantropo, spiazzante e cangiante, nei pensieri e nelle azioni. Di indubbia classe, di controllata eleganza: lontano mille miglia dalla figura tipica dell’imprenditore dei nostri giorni tutto business e cinismo. Polemista, a volte sprezzante, certamente sincero fino all’estremo… (Nota 5).

Evoluzioni societarie, qui credo poco rilevanti, scandiscono ulteriori incontri nodali come quello con Carlo Scarpa (che diviene presidente della Gavina spa nel 1960), grande figura dell’architettura italiana del Novecento che Gavina definirà «padre della patria, colui che ha capito tutto meglio di tutti» (Nota 6). Il sodalizio fra i due genera il famoso punto vendita in pieno centro storico, a Bologna, manifesto di un moderno compatibile con la storia, tratto caratteristico del genio di Scarpa.
L’avventura successiva è eminentemente culturale: la cessione del côté commerciale a una multinazionale del design gli consente di aprire una ulteriore porta di comunicazione fra diversi versanti della creatività. Nasce così il Centro Duchamp (1967) che mutua dall’artista francese, incontrato due anni prima, il concetto di ready made: l’oggetto d’uso quotidiano, spesso senza un vero e proprio designer, si carica di risonanze artistiche e ritorna, poi, a far parte dell’uso quotidiano, in questo caso di arredo, enfatizzato nel suo significato di oggetto universale. Nella sua “stanza delle meraviglie”, come era chiamato lo studio sanlazzarese, talvolta in compagnia di un altro rilevantissimo personaggio, Man Ray, Gavina tesse le fila per costruire un dialogo serrato fra artisti, produttori e fruitori.
L’anno successivo, insieme a un’altra figura cardine, Maria Simoncini (scomparsa nel settembre 2010), viene fondata la Simon International, una nuova scommessa imprenditoriale ma, al solito, con un forte portato ideale. Il sodalizio fra i due garantisce un alto tenore di creatività sposato a un concreto spirito imprenditoriale, fondamentale perché le idee possano essere vincenti e sostenersi.
Ciò avviene subito con il programma denominato Ultrarazionale a indicare la volontà di superamento dei dettami del Movimento moderno: cura del dettaglio e della qualità, «violentemente compromessa da una quantità non controllata» (Nota 7). È l’epoca dei grandi tavoli di Carlo Scarpa, come anche delle sedie in tondino di acciaio cromato Tulu di Kazuhide Takahama, altro fedele compagno di avventure.
Nel 1971, Ultramobile: nasce un vero e proprio progetto culturale per allargare la base di fruitori di opere d’arte, portandole nelle loro case sotto forma di mobili, per quanto singolari.

Ultramobile, che può anche essere usato come un mobile, è un oggetto carico di stupore, un totem evocatore di meraviglia, una presenza che palpita e che respira in casa, un’aggressione vitale e sardonica, una poesia congelata in un guizzo di allegria; perché fortunatamente la vita è anche follia, l’esistenza è sorpresa, l’avventura è avventura. Ultramobile è un’avventura… (Nota 8),

come si legge nel pieghevole di presentazione dell’iniziativa.
La terna si chiude con Metamobile del 1974 che trae origine dai progetti di “autocostruzione” del designer Enzo Mari. Gavina intendeva sgombrare il campo dalle accuse che gli erano state fatte di produrre mobili per la ricca borghesia: «Metamobile non è solo una proposta di mobili semplici a basso prezzo ma costituisce un’autentica rivoluzione: solo l’idea che ogni persona è autorizzata a fabbricarsi i mobili per uso proprio diventa un vero manifesto» (Nota 9). Oggi la pervasività del modello di vendita del noto colosso svedese rende tutto ciò commovente, ma allora è stata una vera rivoluzione. Un importante e autorevole mobiliere vende a prezzi contenuti mobili che si “autocostruiscono” fornendo disegni e istruzioni di facilissima lettura: «un’autentica azione sociale: oltre non si può andare!» (Nota 10).
Negli anni Ottanta con Simongavina Paradisoterrestre l’attenzione creativa investe anche gli arredi per esterno che sono riletti in chiave contemporanea: «in questo mondo di brutture vogliamo costruire uno spazio per l’uomo, tentare di avvicinarci al paradiso» (Nota 11). Da non dimenticare anche l’opera di promozione di progetti legati all’illuminazione con la produzione di alcune importanti lampade oggi nei principali musei del design di tutto il mondo.
Imprenditore di idee e di pensieri prima che uomo d’affari, Dino Gavina aveva una missione: portare la bellezza ovunque.
Al di là del pure importante lascito morale e intellettuale dei protagonisti incontrati, ciò che conta ribadire al termine di queste note è la necessità di mantenere viva l’attenzione sulle valenze informali del nostro territorio, quel patrimonio non tangibile di saperi e di memorie che, soli, sono in grado di conferire identità ai luoghi e scatenare la cura necessaria a non disperderne il valore, anzi a salvaguardarlo e, nel caso, a riqualificarlo.

 

* Desidero ringraziare per l’aiuto che ho ricevuto nelle ricerche e nella rielaborazione dei materiali: Lino Landro, Massimo Battisti, Giovanni Nobilini, la signora Elena dell’Opera padre Marella, Glauco Gresleri, Antonella Gornati dello Studio Museo Achille Castiglioni, Daniele Vincenzi, Estenio Mingozzi e, naturalmente, Mauro Maggiorani. Sono stati consultati: l’Archivio storico del Comune di San Lazzaro di Savena, l’archivio dell’Opera padre Marella, l’archivio professionale dell’architetto Glauco Gresleri. Torna al testo

 

NOTE:

 

Nota 1. Traggo queste note da una avvincentissima chiacchierata che ho avuto col progettista degli edifici, l’archietto Glauco Gresleri. Laureato a Firenze nel 1956 si butta nella professione e nel grandioso progetto culturale ma anche tecnico di dotare la periferia bolognese di chiese moderne: è tra i fondatori della rivista «Chiesa e Quartiere» che avrà risonanza mondiale sui temi dello spazio sacro (1955-1968). Al termine di quel percorso, segnato dal magistero del cardinal Lercaro, insieme al compagno di avventure intellettuali, l’architetto Giorgio Trebbi, fondano un’altra testata destinata a diventare anch’essa piattaforma importante di dialogo e di conoscenza, questa volta sui temi più ampi dell’architettura e della città contemporanea, la rivista «Parametro» (1970-2006). Intanto prosegue l’attività di progettista soprattutto in Emilia Romagna e in Friuli. È stato poi insignito di numerosi premi e onorificenze. Si veda G. Rosa (a cura di), Glauco Gresleri. L’ordine del progetto, Edizioni Kappa, Roma 1988. Torna al testo

 

Nota 2. Oggi, nella ristrutturazione che ne ha fatto l’attuale esercizio commerciale, è stata demolita la parte interna del corpo uffici per accorparla con il grande quadrato della ex officina, mentre la parte che sporge all’esterno, è abbandonata. Torna al testo

 

Nota 3. Il progetto è firmato dall’ingegnere Antonio Bonfiglioli; nella pratica relativa al secondo capannone va segnalata la presenza dell’architetto Sergio Cometti. Torna al testo

 

Nota 4. L’ingegner Bonfiglioli compare ancora come direttore dei lavori. Torna al testo

 

Nota 5. B. Finessi, Dino Gavina. Imprenditore anomalo, in Atlante Gavina / Atlas Gavina, Corraini, Mantova 2010, p. 11. Torna al testo

 

Nota 6. C. Morozzi, in Atlante Gavina / Atlas Gavina, cit., p. 21. Torna al testo

 

Nota 7. Fondazione Scientifica Querini Stampalia, Dino Gavina. Collezioni emblematiche del moderno dal 1950 al 1992, catalogo mostra, Jaca Book, Milano 1992, p. 69. Torna al testo

 

Nota 8. Ivi, p. 81. Torna al testo

 

Nota 9. Ivi, p. 86. Torna al testo

 

Nota 10. IbidemTorna al testo

 

Nota 11. Ivi, p. 152. Torna al testo

 

Questo contributo si cita: M. B. Bettazzi, Alla ricerca dell’identità perduta. Storie di luoghi a San Lazzaro di Savena, 0 (2011) [http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/32-bettazzi-alla-ricerca]

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