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Angela Verzelli

Riflessioni per una didattica della storia


Dai tempi della formazione universitaria, alla metà degli anni Ottanta, fino alla attuale esperienza come docente in servizio presso la sezione didattica dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna Luciano Bergonzini (Isrebo), mi sono sempre interessata di come si potesse far circolare in modo corretto e possibilmente non noioso la conoscenza storica. Problema complesso da affrontare perché da un lato occorre lottare contro il pregiudizio sciocco, ma assai diffuso, che minimizza le difficoltà degli studenti ad apprendere la materia con la frase «ma come fai ad avere storia insufficiente, basta studiarla!», dall’altro però bisogna non sottovalutare il fatto che i testi storiografici sono, in effetti, piuttosto pesanti da leggere e spesso talmente specialistici da interessare veramente solo gli addetti ai lavori.
Se condividiamo l’idea che far circolare il sapere storico sia importante, è inevitabile riflettere sul ruolo che in questa trasmissione hanno gli insegnanti delle scuole primarie e secondarie. Tralascio qualsiasi considerazione sugli insegnanti della primaria perché non ho esperienza in merito se non quella legata a conoscenze personali e alle maestre, bravissime, che hanno avuto i miei figli, e spenderò invece alcune righe di questa riflessione sugli insegnanti della secondaria di primo e secondo grado. Ciascuno di noi ne conosce alcuni bravi e competenti, altri sono forse tecnicamente meno bravi ma hanno un approccio corretto con la materia che insegnano, cosa che alla fine è più che sufficiente per svolgere un programma sensato, ma il problema che voglio sottolineare riguarda il sistema e non certamente le singole individualità. Per ragioni legate al reclutamento e alle modalità di formazione dei docenti in vigore fino a oggi, si arriva a insegnare storia da vari tipi di laurea, e direi che gli insegnanti che provengono da corsi di laurea in Storia, con i suoi vari indirizzi diversissimi per approccio alle fonti e per tipo di competenze richieste, sono attorno al 35%. Questo implica che la maggior parte degli insegnanti comunica e trasmette conoscenze che ha appreso su libri, per lo più su manuali scolastici, senza aver mai fatto un salto in un archivio. Questo rappresenta una anomalia, a mio parere, che non si è mai voluta affrontare perché c’erano sempre altri problemi più evidenti da risolvere e in assoluto si può anche concordare su questo, però vediamone gli effetti con qualche esempio. Sarebbe pensabile che un insegnante insegnasse scienze o chimica senza aver mai fatto un esperimento in laboratorio? Si potrebbe accettare l’idea che in un istituto tecnico per geometri l’insegnante di costruzioni non avesse mai, dico mai, fatto un progetto edile? O infine se un insegnante di storia dell’arte non fosse un assiduo frequentatore di musei e gallerie ma si limitasse a leggere la parte manualistica di quanto deve poi raccontare ai suoi studenti, cosa penseremmo della sua capacità didattica?
Ovviamente nessuno pensa che per insegnare italiano in un liceo occorra essere Montale, né Le Goff per parlare di storia, però la possibilità che un insegnante che ha la responsabilità di sviluppare un programma di storia in una scuola non abbia mai visto un documento in originale e non abbia mai posto due fonti di diversa tipologia a confronto, dovrebbe davvero porci qualche problema. Non si tratta qui di addossare colpe agli insegnanti ma gli esempi un po’ ironici di cui mi sono servita dovrebbero far riflettere sul fatto che la trasmissione della conoscenza storica, se intesa come ripetizione di quanto indicato esclusivamente nei testi scolastici, non è sufficiente a formare quelle competenze di cittadinanza previste dalle Direttive Europee che potrebbero invece scaturire molto facilmente da una strutturazione efficace della programmazione curricolare di storia. La sudditanza al manuale, l’ansia di non terminare il “programma”, la resistenza a fare delle scelte su rilevanze e temi che potrebbero essere forse contestati, sono tutti elementi che pongono gli insegnanti anche più motivati in situazioni difficili e gli studenti non possono che reagire con un senso di insofferenza di fronte alla mole di “cose” da memorizzare per l’interrogazione. Cose che saranno presto dimenticate, se studiate nel modo ripetitivo a cui siamo abituati, come ben sa chiunque di noi sappia fare un poco di autocritica.
Dall’osservatorio di un Istituto che opera su programmi di storia contemporanea e di educazione alla cittadinanza si ha la sensazione che il grande lavoro sulla didattica della storia portato avanti nei decenni finali del secolo scorso dagli Irre (Istituti regionali di ricerca educativa), dagli storici del gruppo Clio ’92, dal Landis (Laboratorio nazionale per la didattica della storia), dagli istituti delle rete Insmli (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) e da altre associazioni più o meno diffuse sul territorio, sia arrivato a toccare la pratica didattica solo marginalmente. Tenendo presente le frequentazioni delle “sale insegnanti”, più che i documenti di programmazione spesso perfettamente redatti ma non seguiti poi nella pratica, si potrebbe dire che un insegnante su quattro si pone il problema, quando costruisce il percorso curricolare di storia, di utilizzare le macro rilevanze per fare scelte coraggiose che rechino in sé il grande vantaggio di dare un senso allo studio, accettando consapevolmente il rischio, peraltro insito nella materia stessa, di tralasciare qualche “pezzo”, qualche battaglia e qualche data. La maggior parte utilizza l’indice dei volumi di storia che ha in adozione, sempre più dettagliati e curati, e lo utilizza come percorso di lavoro. La dinamica presente-passato-presente, così radicata nella strutturazione delle unità didattiche a cui Mattozzi, Gusso, Marostica e tanti altri ci hanno abituato riuscirebbe da sola ad attivare l’interesse di studenti del triennio superiore mediamente motivati, eppure sembra “passata di moda”. Continuo a pensare che dovrebbe essere un diritto-dovere degli insegnanti poter fruire di occasioni formative che colmino le carenze che la formazione iniziale reca inevitabilmente in sé: queste occasioni ci sono certamente state fornite nel corso degli anni Ottanta-Novanta e ancora agli inizi del 2000 e molti insegnanti hanno saputo coglierle per rendere il proprio ruolo sempre più vicino a quello di «organizzatore di apprendimento e non trasmettitore» come lo chiama Marostica nelle sue riflessioni sulla formazione degli insegnanti apparse nell’ultimo numero di «Storia e Futuro». Dal volume coordinato da Paolo Bernardi nel 2006, Insegnare Storia, prenderò in prestito un punto del saggio di Aurora Del Monaco, storica presidente del Landis, per concludere questa mia riflessione e tornare con la mente alle aule scolastiche dalle quali sono partita: «Cosa succede troppo spesso quando si insegna storia? Di ogni capitolo si privilegiano i contenuti e si fa un atto di fede sul fatto che i nessi logici che sostengono il discorso siano acquisiti naturalmente, come a ricalco, grazie alla memorizzazione. Poi si va oltre, si procede verso un altro capitolo». Certo i capitoli vanno bene, le conoscenze vanno apprese, ovvio, ma davvero si può credere che le competenze storiche, e con queste quelle strettamente connesse di cittadinanza e partecipazione democratica, si possano conseguire solo con la lettura-ascolto delle pagine del manuale?

 

Questo contributo si cita: A. Verzelli, Riflessioni per una didattica della storia, in «Percorsi Storici», 0 (2011) [http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/36-verzelli-riflessioni-per-una-didattica-della-storia]

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