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Elena Mazzini, L'antiebraismo cattolico dopo la Shoah. Tradizioni e culture nell'Italia del secondo dopoguerra (1945-1974), Viella, Roma 2012, pp. 200

(Olindo De Napoli)

La voce “Razzismo” pubblicata nel 1953 dall'Enciclopedia cattolica, esponeva la tesi di una “insanabile antitesi” storicamente determinatasi tra la dottrina cattolica e il razzismo. Era una evidente semplificazione, anche laddove si estendeva la condanna al razzismo dell’enciclica Mit Brennender Sorge di Pio XI all’antisemitismo. Elena Mazzini in un interessante libro sulla cultura cattolica del dopoguerra svela oblii, “livellamenti concettuali”, ma anche rivendicazioni di ostilità religiosa verso gli ebrei e continuità del discorso antiebraico cattolico del secondo dopoguerra.
Il primo merito del libro è nell'argomento stesso. Mentre si è sviluppata nei decenni una abbondante storiografia sull'antisemitismo che si è concentrata sull'età fascista, l’età post-fascista poco è stata studiata. Altro merito è portare nel dibattito storiografico nuove fonti, sempre analizzate con finezza interpretativa e con una solida base storiografica.
La tesi di fondo del saggio è che vi è continuità nel riproporsi del deposito culturale antiebraico del cattolicesimo: «in quanto elemento endogeno al cristianesimo, la tradizione antiebraica ha trovato permanenze e stabilità continuative adeguandosi e plasmandosi a seconda dei contesti e tempi storici» (p. 61). Secondo l’A. l’abbandono delle stereotipie antiebraiche non comportò l’abbandono del pregiudizio sugli ebrei; piuttosto il “potenziale antiebraico” emigrando in altri contesti si riformulava.
La vicenda delle persecuzioni e della Shoah, insomma, non fu nell’immediato dopoguerra un’occasione per un ripensamento radicale del deposito antiebraico: al contrario stilemi, concetti e immagini sugli ebrei continuavano a riproporsi in modo plasmato, adattato al tempo post-genocidio. Gli studiosi cattolici, ad esempio quelli di una rivista come «Civiltà Cattolica», esaltavano l’opera di contrasto al razzismo da sempre svolta dalla Chiesa, l’aiuto e l’assistenza agli ebrei nei tempi della persecuzione e anche una certa “cautela” nella millenaria tradizione cattolica verso gli ebrei. Come scriveva la suddetta rivista nel 1945: «è lecito un antisemitismo nel campo delle idee, volto alla vigile tutela del patrimonio religioso-morale e sociale della cristianità» (p. 52). L’ottica, del resto, fu a lungo quella dell'attesa della conversione degli ebrei. Si perpetrava una strategia di silenzio tenace verso le responsabilità del pregiudizio antiebraico. La “cautela” si accompagnava alla paura verso gli ebrei portatori della cultura della rivoluzione francese. La tesi di Mazzini risulta convincente, soprattutto per il primo decennio postbellico.
Il capitolo più delicato del libro è a mio parere quello su antiebraismo e antisionismo. Questione questa assai scivolosa, per il rischio di riprodurre indebite equazioni tra antisionismo e antisemitismo di cui una certa pubblicistica si fa promotrice.  Del resto, sono problemi di cui l’A. stessa si mostra consapevole. Le fonti utilizzate, molto utili e originali, sono i resoconti del pellegrinaggio a Gerusalemme. In alcuni di questi libri, scritti da sacerdoti, accanto a espressioni di dolore per il male subito dal popolo ebraico, si nota il rifiuto di parlare di Israele, stato al tempo non riconosciuto dalla Santa Sede e talora il permanere di alcuni stereotipi. Mi sembra di vedere a questo proposito alcune forzature, come nell'interpretazione delle parole di don Divo Barsotti, il quale tra l’altro esprimeva un'accorata richiesta di perdono al popolo ebraico. Di certo però vi è ragione nel sottolineare come la cultura cattolica dell'immediato dopoguerra fosse caratterizzata da un “fissismo” ancora incapace di elaborare in modo diverso il rapporto con il popolo della prima alleanza.
È solo con la Declaratio Nostra Aetate che la Chiesa produce una riflessione davvero nuova sul tema, come è noto. Ed è proprio ai riflessi di tale documento del Concilio Vaticano II che è dedicato un capitolo che analizza la complicata ricezione nella cultura e nella prassi ecclesiastica del nuovo atteggiamento di apertura proclamato in sede conciliare. Traccia ne è il permanere di alcune tradizioni liturgiche legate alla memoria di sacrifici di sangue su bambini cristiani compiute da ebrei, memorie non poggianti su dati storici certi e il più delle volte anche osteggiate dai vescovi. Sul problema della ricezione l’A. si concentra su alcune autorevoli riviste che animavano il dibattito post-conciliare: Renovatio, di orientamento tradizionalista, che faceva riferimento al cardinal Siri, «La Palestra del Clero», che era preposta alla formazione dei preti, «Il Regno», rivista dei dehoniani, e «Studi Cattolici», legata all’Opus Dei. Qui il lettore sente la mancanza dell'analisi di due altre riviste, forse davvero le più autorevoli nel dibattito post-conciliare: «Concilium», ritenuta espressione delle tendenze “progressiste”, e «Communio». Il libro termina con lo studio della ricezione delle aperture del Concilio da parte della stampa ebraica, che si dimostrava insoddisfatta dall’incapacità dei cattolici di discorrere di “popolo di Israele”.
In sintesi, per quanto si riconosca che la tradizione antigiudaica è segnata da interruzioni e percorra un percorso tortuoso, il saggio propone una visione perlopiù basata sul concetto di continuità, per cui si parla di una «ristrutturazione discorsiva» piuttosto che una revisione del sistema (p. 173). La copertina, che riproduce un’immagine satirica degli anni Venti, contribuisce a alimentare l’immagine di una Chiesa compatta nella direzione ad essa imposta dal clero. Il dopo concilio segna un incontro a metà, sulle cui ragioni si lascia una prospettiva di indagine aperta.
In conclusione, si tratta di un libro importante e davvero molto interessante, che si riferisce a un tema fondamentale e poco studiato della contemporaneità. Alcune notazioni critiche: a tratti si dà l’impressione di interpretare il cattolicesimo come inevitabilmente antiebraico (vedi citazione iniziale di Adorno) e ciò può essere un rischio nella ricostruzione di questo “incontro a metà”. Sarebbe stato opportuno all’interno dell’analisi delle continuità mettere in luce anche fratture, cercando di dar conto della complessità della situazione della Chiesa italiana negli anni Sessanta: anni non solo di innovazione, ma anche di crisi e di spinte centrifughe.
In questa scia, sarebbe stato utile che le fonti, sempre analizzate in modo approfondito e con finezza storiografica, fossero messe più in dialogo tra di loro, nell’ottica di ricostruire una serie di dibattiti in seno al mondo cattolico e con quello ebraico. Inoltre qualche riferimento in più al contesto avrebbe giovato: gli oblii e i silenzi cattolici del dopoguerra, per fare un esempio, sono da inserire in un contesto generale di rimozione, anche della storiografia del tempo: problemi generali della cultura italiana.

 

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