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Andrea Brazzoduro, Soldati senza causa. Memorie della guerra d’Algeria, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 318

(Riccardo Caporale)

Il lavoro di Brazzoduro si occupa della memoria della guerra di Algeria, combattuta dalla Francia tra il 1954 ed il 1962. Non è un libro di storia che lavora su fonti archivistiche, ma utilizza la memoria collettiva che la guerra ha prodotto, seguendo la lezione di Maurice Halbwachs.
L’autore analizza tutti gli strumenti che la memoria utilizza per diventare il «presente del passato» nella società francese. Da un lato lascia parlare i reduci che lamentano, a tutt’oggi, una «parola confiscata», cioè la difficoltà a render pubbliche le proprie testimonianze dirette. Dall’altro, una copiosa produzione letteraria ha forse saturato il bisogno dell’oralità della memoria, anche se forse non ha reso giustizia ai combattenti, che solo nel 1974 sono stati riconosciuti come tali.
I reduci hanno utilizzato come scrigno privilegiato delle proprie memorie personali le due maggiori associazioni combattentistiche, la Fnaca e l’Ucn: questo però ha prodotto in molti casi due memorie antagoniste ed antitetiche. La Fnaca raccoglie i combattenti che vissero come una catarsi positiva il cessate il fuoco; l’Ucn invece, ancorata alla memoria continuativa delle guerre che la Francia ha combattuto, senza differenze di sorta, è formata principalmente da chi ritenne uno sbaglio l’abbandono dell’Algeria.
La lotta per la memoria pubblica tra le due associazioni non si è risolta nella discussione su quale fosse la data del “ricordo” per i caduti: per la Fnaca il 19 marzo, giorno della firma del cessate il fuoco, per l’Ucn il 16 ottobre, giorno della inumazione, nel 1977, del milite ignoto caduto in Algeria. Solo nel novembre del 2012 si è deciso, tra polemiche feroci, che la data celebrativa fosse il 19 marzo, creando una frattura forse insanabile tra le due associazioni.L’autore utilizza anche il cinema come fonte della memoria collettiva data l’importanza che riveste tra le fonti storiografiche della storia contemporanea.
Nonostante ciò che si potrebbe pensare, la produzione cinematografica dedicata alla guerra d’Algeria è copiosa sin dall’inizio. Si parte da film di propaganda per passare poi a film “engagés” della Nouvelle Vague dove la guerra, se non è il soggetto principale, allunga la propria ombra per poi diventare, negli anni seguenti al 1962, soggetto a se stante: si pensi al film Muriel di Alain Resnais del 1964. Tuttavia il cinema non riesce a suscitare quel dibattito sulla guerra che forse gli autori avrebbero auspicato e si dovrà arrivare agli anni Novanta e alla programmazione in tv per avere un risveglio della memoria. Altro fattore mnesico è il “cortocircuito”, ben analizzato dall’autore, tra la memoria oscurata di Vichy e l’Algeria.  Negli anni Novanta, quando si processa Maurice Papon, solerte deportatore di ebrei assieme alla Gestapo, si ricorda che, nell’ottobre 1961, era prefetto di Parigi. Egli rispose con una violenza spropositata ad una manifestazione di algerini sostenitori del Fln, tanto che si ebbero molti i morti e diverse persone gettate nella Senna dalle forze di polizia. Le due memorie si sono sovrapposte e disvelate reciprocamente.
Nella memoria non mancano i “buchi” o le omissioni: gli algerini compaiono marginalmente in tutta la produzione mnesica e la questione della tortura spesso è marginalizzata dai reduci, che  addossano ogni responsabilità ai corpi speciali, come i parà e la legione straniera.
Il lavoro di Brazzoduro è prezioso, sia perché apre una finestra su una vicenda ancora poco conosciuta di storia europea, sia perché si può utilizzare come strumento storiografico per la lettura della memoria collettiva. Il testo evidenzia come il ricordo della guerra d’Algeria abbia trovato un posto nella storia della Francia contemporanea, chiamata a confrontarsi con il suo passato coloniale.
Forse un lavoro tanto puntuale e prezioso avrebbe potuto essere arricchito dalla memoria dei coscritti figli di immigrati di prima generazione, soprattutto italiani e spagnoli: potrebbe essere in futuro un valido e originale oggetto di studio per il bravo autore.

 

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Giovanni Borgognone, Come nasce una dittatura. L’Italia del delitto Matteotti, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 265

(Marco Torello)

Giacomo Matteotti viene rapito ed assassinato il 10 giugno 1924 a Roma, appena dieci giorni dopo aver pronunciato il celebre discorso alla Camera dei deputati con il quale, a nome del Partito socialista unitario, contestava l’esito delle precedenti elezioni «inficiate dalla violenza fascista». La sua scomparsa desta notevole scalpore non solo nel mondo politico, ma anche nella società civile: la secessione dell’Aventino – ignorata dal governo Mussolini e dallo stesso Vittorio Emanuele III – è affiancata da una forte campagna mediatica portata avanti dalle principali testate giornalistiche legate ai partiti d’opposizione e, con minore veemenza, ad ambienti industriali ed agrari vicini alle forze di governo. A questi si aggiungono manifestazioni e scioperi organizzati più o meno spontaneamente in ogni parte del paese che perdurano anche dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto il 16 agosto in un bosco nei pressi di Riano.
Tramite i principali giornali dell’epoca, le testimonianze rese nei verbali della magistratura inquirente ed i memoriali di alcuni dei protagonisti della vicenda, Giovanni Borgognone ricostruisce gli eventi che hanno condotto al delitto Matteotti e ne illustra le conseguenze – drammatiche – per le istituzioni democratica del paese.
Il discorso alla Camera del 30 maggio è considerato il principale movente che porta Matteotti alla morte. Tuttavia, secondo Borgognone, non può essere l’unica causa, né tantomeno la più importante: sebbene l’A. riconosca in Matteotti il più intransigente oppositore del fascismo, la sua attenzione è tutta rivolta ai metodi con cui il deputato socialista ha condotto, negli anni, la sua lotta contro il fascismo: data la sua formazione da economista, Matteotti si interessa in particolar modo del bilancio dello Stato in cui ravvisa un ammanco di svariati milioni di Lire, nonostante il governo Mussolini millanti il raggiungimento del pareggio di bilancio. A questo si aggiunge una attenta indagine che porta Matteotti ad individuare un intricato giro di tangenti che coinvolge il «Popolo d’Italia» – che l’A. definisce «giornale di famiglia» del duce – e società petrolifere texane a cui viene concesso il permesso di perforazione in Emilia, in contrasto con la legge che prevede il monopolio delle indagini geologiche da parte dello Stato. Scoperte preoccupanti che avrebbero potuto anche privare il fascismo dell’appoggio di importanti settori industriali ed agrari da cui lo stesso Mussolini traeva il sostentamento economico necessario per mantenere in piedi il neonato Pnf.
Nei mesi successivi al rapimento, il governo Mussolini rischia più volte il tracollo. Borgognone descrive minuziosamente quella che considera una autentica partita a scacchi tra il duce del fascismo ed una serie di avversari – tra cui anche diversi esponenti del Pnf – che mirano a scalzarlo dalla poltrona di capo del governo o ad indurlo ad azioni drammaticamente più drastiche contro gli oppositori del fascismo. L’Aventino si rivela un fallimento, chiuso in un immobilismo di cui numerosi intellettuali – tra cui Piero Gobetti – contestano la dannosità. Allo stesso tempo Farinacci, dal suo giornale «Cremona Nuova», esorta Mussolini a non cedere alla «romanizzazione» del partito ed a tornare ad un più puro «fascismo padano» di cui il manganello è il rappresentante più autorevole. Con questi avversari, Mussolini alterna il bastone alla carota: nei suoi discorsi si manifesta intransigente, minaccioso, persino autoritario per poi mostrarsi condiscendente, compassionevole, sensibile. Grazie a questa tattica, il capo del fascismo riesce a tenere al suo fianco gli industriali, gli agrari e parti dell’Associazione nazionale combattenti, sia i ras delle province, riuscendo, in questo modo, ad arrivare al fatidico 3 gennaio 1925.
In quella occasione, sfruttando le stesse forme retoriche già accennate di cui ormai si considera maestro, Mussolini assume su se stesso la responsabilità «morale, storica, politica di tutto quanto è avvenuto», ma non quella penale, lasciata ai responsabili materiali del delitto di cui, comunque, il governo ha già pronta una provvidenziale amnistia. Il discorso del 3 gennaio non scardina nulla dal punto di vista costituzionale: per Borgognone – concorde con De Felice – l’evento getta sicuramente le basi per la costruzione del futuro regime e a giustificazione della sua tesi indica negli errori delle opposizioni, incapaci di concretizzare la propria azione politica, i principali responsabili di un mancato crollo del governo Mussolini prima del 1925. Dal suo discorso alla Camera, Mussolini ed il suo governo si adopereranno incessantemente per emanare quelle disposizioni utili alla costruzione dello Stato fascista, dapprima limitando e, successivamente, eliminando la libertà di stampa, le associazioni sindacali ed i partiti d’opposizione.
Quasi come in un romanzo giallo Borgognone riassume i destini dei diversi protagonisti e comprimari che hanno affollato la sua ricostruzione: dagli esecutori materiali del delitto, tutti premiati dal regime, ai principali esponenti dell’opposizione, morti in galera o in esilio; dagli alleati del governo fascista ai giudici che hanno condotto le indagini. L’A. chiude, con rammarico, annotando la triste vittoria dell’Italia dei furbi e dei servi e tornando alle parole che lo stesso Matteotti aveva lucidamente pronunciato già nel 1922, esortando i propri compagni a non credere in una illusoria restituzione della libertà da parte del fascismo. Un avvertimento che, purtroppo come evidenzia Giovanni Borgognone nella sua opera, rimase inascoltato.
L'opera di Borgognone si presenta come un testo certamente utile sia per gli addetti ai lavori, sia per i profani, in cui l’A. si premura di non far mancare tutti i riferimenti necessari alla comprensione degli eventi. Spesso Borgognone si lascia andare a precisi – seppur velati – riferimenti alla realtà contemporanea, generando al contempo una sensazione di déjà vu che, in ogni caso, bisogna sempre e comunque porre nel giusto contesto storico. Questi elementi, uniti alla brillante esposizione dei fatti, ne fanno un testo consigliato a chiunque voglia comprendere quelle meccaniche che hanno portato l’Italia degli anni Venti verso la deriva autoritaria fascista.

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Silvia Buzzelli, Marco De Paolis, Andrea Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni preliminari, Giappichelli, Torino 2012, pp. XII-320

(Michele Castellari)

Lo studioso del diritto; il magistrato dell’accusa; l’avvocato della parte civile. Tre diversi e complementari punti di vista, per un unico tema: l’analisi critica della giurisprudenza formatasi dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri, relativamente ai crimini nazisti e fascisti compiuti nel nostro Paese contro civili nel periodo dal 1943 al 1945.
Se ne occupa nella prima delle tre parti Silvia Buzzelli, docente di Procedura penale europea all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, la quale introduce il lavoro degli altri coautori con qualche indispensabile precisazione terminologica, utile a dipanare molti equivoci, e a sgomberare il campo da troppi luoghi comuni sull’argomento.
Non vi è mai stata, intanto, alcuna “giustizia dei vincitori” in danno di quella “dei vinti”, se con essa si intendesse una specie di vendetta generalizzata e sommaria perpetrata dai trionfatori della seconda guerra mondiale, contro coloro che vi soccombettero. Al di là, infatti, della problematica collocazione dell’Italia in questo dualismo, una definizione siffatta non terrebbe in alcun conto le pavidità formali e le reticenze sostanziali, gli equilibrismi diplomatici e le complicità diffuse che per troppi anni, anche nel nostro Paese, elusero, minimizzarono, relativizzarono, spesso consentendo, con dolosa connivenza o con colposa ignavia, agli artefici di molte atroci vicende, di sottrarsi a qualunque responsabilità, penale e talora persino morale, oltre che di riprendersi, in altra veste, identiche posizioni di potere, o almeno di impunità, rispetto a quelle appena lasciate nella vigenza dei vecchi regimi, di pace e di guerra.
E non vi fu, correlativamente, nessun vincolante o decisivo ricorso alla memoria e alla sua conservazione neppure in sede legislativa o politica, prevalendo talora, e per larghi tratti, quella che Piero Calamandrei chiamava la “facilità all’oblio”. In questo contesto si innesta, dunque, il senso storico e giuridico della ricostruzione di taluni terribili eventi e di chi ne fu, ai diversi livelli di concezione e di esecuzione, efferato autore. E questo, in un ideale ricongiungimento a una visione filosofica e civile del rapporto tra delitto, colpa, espiazione, che affonda le sue radici nella più remota ma illuminante classicità: dal “dovere della disobbedienza” di Antigone che demolisce qualunque alibi all’esecutore di leggi (o di ordini) ingiusti; all’hybris nazifascista che vìola in modo irreparabile qualunque astratto principio di proporzione o necessità militare tra il crimine bellico, e le sue vittime civili; infine, al ripristino, etico ed etimologico, di quel concetto greco di verità come “a-letheia”, che rievoca il fiume Lete e le acque dell’oblio non più facile, ma impossibile, e che diviene così, con quell’alfa privativo questa volta così denso di contenuto costitutivo, una “non dimenticanza” e un “non nascondimento” di ciò che non è lecito negare o tacere.
Nella seconda parte del lavoro, Marco De Paolis, già Procuratore capo della Procura militare della Repubblica di La Spezia, e pubblico ministero nei processi per le stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole-Marzabotto, per l’eccidio di Cefalonia ed altri, compie un agile ed incisivo excursus storico, proprio sulle tendenze giurisprudenziali formatesi in argomento negli ultimi 65 anni della nostra storia. Dalle iniziali timidezze relativiste della prima giurisprudenza militare dell’immediato dopoguerra, tesa a condannare solo gli ufficiali più alti in grado e a deresponsabilizzare i sottoposti (processi Reder e Kappler), alla prima svolta sostanziale del 1994, allorché, in occasione del processo Priebke, fu casualmente rinvenuto un imponente archivio di documenti relativi a crimini di guerra del periodo 1943-1945 fino a quel momento dimenticato (?) in un locale della Procura militare di Corte d’Appello di Roma, che consentì di istruire, o riprendere, processi contro i responsabili, a diverso livello, di numerosi eccidi nazisti e fascisti; alla successiva ed affermata possibilità per i familiari delle vittime di costituirsi parti civili nei processi militari, sancita dalla nota e per certi versi epocale sentenza della Corte costituzionale n. 60 del 1996; infine, all’ultimo periodo dal 2002 ad oggi, in cui si è finalmente riusciti, con rigoroso metodo investigativo ed analitica disamina delle fonti di prova, ad individuare e condannare, per ciascuno dei successivi processi istruiti dalla magistratura militare, i diversi responsabili (mandanti ed esecutori) di diversi crimini nazifascisti, dalle stragi dell’Appennino tosco-emiliano a quelle della foce del Centa, da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema, da Padule di Fucecchio a San Terenzo ecc.
Nell’ultima parte del libro, Andrea Speranzoni, avvocato penalista del Foro bolognese e legale di parte civile in diversi processi contro criminali nazisti, tra cui quello relativo ai fatti di Casalecchio di Reno e Marzabotto, si sofferma dapprima sul contenuto processuale di talune delle vicende a cui egli ha personalmente partecipato, narrandoci e illustrando, spesso in modo testuale, alcuni dei passaggi più delicati e drammatici di quei dibattimenti, e tutti i problemi giuridico-interpretativi che ne derivarono per chi fu chiamato a definirli con le sentenze conclusive: l’attendibilità storica, e quella giuridica, delle singole deposizioni testimoniali; la sovrapposizione, non sempre processualmente rilevante, tra la mozione degli affetti e la rigorosa adesione ai dati fattuali; la differenza tra la deposizione di testi oculari, e quella di chi riferiva cose apprese da altri; l’inevitabile necessità di discernere, nel racconto di fatti spesso temporalmente lontanissimi da parte di protagonisti che all’epoca del loro verificarsi erano talora bambini, quanto di autentico vi fosse nel loro ricordo, e quali inconsci meccanismi di rielaborazione e/o rimozione fossero invece successivamente intervenuti a modificarlo.
La parte conclusiva dell’elaborato di Speranzoni, invece, è dedicata a correlate questioni di diritto internazionale, fondamentalmente sintetizzabili in una sola: quale sia, e se vi sia, la contestuale responsabilità civile di uno Stato, (e nella fattispecie della Germania) rispetto a crimini commessi da propri concittadini, e quando e come l’immunità giuridica “storica” di ciascuno Stato sovrano debba soccombere di fronte alle istanze risarcitorie e ripristinatorie dei singoli individui, o delle collettività esponenziali che li rappresentano: il problema è risolto dalla nostra costante giurisprudenza con l’assunto per cui l’immunità del singolo Stato non è più assoluta e intangibile, ma cede di fronte al compimento, per usare le parole di una recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, di comportamenti «lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statuali».
Principio inappuntabile e certo suggestivo nella forma, ma, a sommesso parere di chi scrive, tutt’altro che privo di complicazioni nella sostanza. Si pensi, infatti, alla trasposizione di quell’enunciato non più su di un piano di postuma rifusione di danni a fronte di crimini già consumati, ma di attivazione anticipata di una struttura giuridica (o militare) di un altro Stato, per evitarne il verificarsi, o l’aggravarsi: con tutto ciò che ne consegue in ordine alla possibile teorizzazione (giuridica, e militare) non solo di un diritto di intervento umanitario, bensì anche di quello, ben più oltranzista e problematico, di una cosiddetta guerra preventiva nei confronti del preteso Stato “disumano”.
Alla fine della lettura di un’opera senza alcun dubbio di pregevole fattura, e probabilmente indispensabile per avere una significativa cognizione di causa dell’argomento trattato, a colpire il lettore resta lo spirito complessivo che sembra trasparirne, e che sembra affratellare, dall’inizio alla fine, lo storico e il giurista: la visione, cioè, mobile, e per così dire progressiva, non solo della storia, ma anche della giustizia, in un’accezione che non è, appunto, di mera rievocazione statica e retrospettiva di ciò che è stato, ma che pretende, semmai, uno sforzo di superamento e rielaborazione virtuosa del passato, proprio nel momento in cui tenta di comprenderne analiticamente gli eventi, e di riparare (naturalmente in modo sempre tardivo e incompleto) il dolore e la sofferenza delle vittime.
E per tornare ancora ai rimandi classici di cui si diceva all’inizio, ci è venuta in mente un’altra possibile spiegazione etimologica della parola verità, di cui parla Socrate con Cratilo nell’omonimo dialogo di Platone: “aletheia” come “theia ale”, ossia “il vagabondare di Dio”. Dunque, la verità come movimento finalistico senza pace e senza sosta, che produce conflitto, ma anche libertà, e che assume non solo il connotato di uno svelamento di quanto è accaduto, ma diviene, in quanto tale, anche l’unico fondamento itinerante di qualunque possibile avvenire. E naturalmente, sostituendo all’idea di Dio quella della Storia, il cerchio, hegelianamente, si è chiuso.

 

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Luigi Colombari, La penultima verità. Fatti e misfatti a Bologna (1943-1945), Giraldi editore, San Lazzaro di Savena (BO), pp. 138

(Roberto Colombari)

Riassumere il contenuto e l’intento de La Penultima Verità è molto semplice: il testo ripropone fatti accaduti durante la guerra di Liberazione di Bologna, raccogliendone le diverse interpretazioni proposte negli oltre sessant’anni trascorsi da quell’aprile del 1945 e proponendone una nuova lettura che, come indicato dal titolo, ha la sola presunzione di presentare uno dei modi possibili e uno dei motivi plausibili. Però, prima ancora di ricordare quali siano gli eventi di cui si occupa il libro, è inevitabile affrontare una parola e quanto essa implica: revisionismo, un termine che può avere un’accezione semantica positiva o negativa, ma in realtà, per quanto concerne la storiografia, significa semplicemente l’esame critico dei fatti dovuto all’emergere di nuove evidenze o alla rielaborazione di quelle esistenti, qualcosa di completamente diverso dalla manipolazione o dalle forzature interpretative tipiche, per esempio, delle varie versioni del negazionismo dell’Olocausto. “Revisionare” i fatti dunque, presentando una lettura del passato conforme alle conoscenze e alla consapevolezza del presente. Il passato, infatti, (si possono citare le Meditazioni sulla Genesi di sant’Agostino come i Quattro Quartetti di T.S. Eliot) contiene il futuro e può venire meno in quanto realtà oggettiva per trasformarsi in una dimensione costruita per controllarlo insieme al presente. Lo storico Tony Judt racconta di un ascoltatore di Radio Armenia che in epoca sovietica, alla domanda se fosse possibile predire il futuro, riceveva la risposta «Non c’è alcun problema: sappiamo esattamente come sarà il futuro, il nostro problema è il passato che cambia continuamente».
La Penultima Verità presenta quindi la rivisitazione di tre vicende della Resistenza bolognese, ma principalmente la vicenda relativa alla scomparsa di Sante Vincenzi, ufficiale di collegamento del Comando unico militare Emilia-Romagna, e Giuseppe Bentivogli, segretario provinciale del Psiup, i cui cadaveri vennero ritrovati il 21 aprile 1945 fuori Porta San Felice. La versione ufficiale riferisce come nel pomeriggio del 20 aprile si trovassero entrambi in piazza Trento Trieste col comandante delle Sap Giacomo Masi che, notando i movimenti sospetti di un gruppo di ciclisti, dopo aver segnalato il pericolo si sottrasse alla cattura. Non così Vincenzi e Bentivogli arrestati, seviziati e uccisi da brigatisti neri che, in fuga, ne trascinarono poi i corpi «già spenti, lacerati e torturati fino ai Prati di Caprara» (L. Bergonzini, La svastica a Bologna settembre 1943-aprile 1945, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 326). Tale resoconto contrasta in primo luogo con un documento certo imparziale: la fotografia dei corpi scattata sul luogo del loro ritrovamento. In primo piano è il cadavere di Bentivogli che indossa giacca e gilet, forse la cravatta, il cappello appoggiato sulla testa, calza ancora le scarpe e non sembra aver subito violenze, mentre la pozza di sangue visibile accanto alla testa parrebbe dimostrare che l’esecuzione sia avvenuta proprio nel luogo in cui venne rinvenuto il corpo. Il cadavere di Vincenzi, parzialmente nascosto da quello del compagno, appare invece scarmigliato, le braccia sembrano legate dietro la schiena e davvero non si può escludere sia stato torturato. Anche le motivazioni delle medaglie d’oro assegnate ai due esponenti della Resistenza a prima vista sembrano contraddire la versione ufficiale. Sante Vincenzi: «Varcava più volte le linee svolgendo brillantemente missioni importanti e delicate. Durante il compimento di una di esse veniva sorpreso da una pattuglia fascista, che, dopo fiera lotta, riusciva a catturarlo. Sottoposto a disumane torture e ad efferate sevizie, con il corpo straziato e l’animo indomo, non faceva alcuna rivelazione per non nuocere alla causa dei compagni di lotta, finché il nemico, esasperato da tanto stoico silenzio, barbaramente lo freddava». Giuseppe Bentivogli: «Catturato, sopportava le atroci torture infertegli dal nemico con impassibile fermezza; condannato alla pena capitale affrontò la morte da eroe». Nella cattura di Vincenzi, che aveva il compito di trasmettere al comando della Divisione Bologna la parola d’ordine per la rivolta in città, viene inoltre individuato il motivo della mancata insurrezione partigiana del 20 aprile, ma anche questo aspetto è ricco di evidenti contraddizioni. Charles Macintosh, il comandante della Special Force n. 1, la sezione speciale dei servizi inglesi riferisce infatti di aver incontrato Vincenzi dietro le linee tedesche ai primi di aprile chiedendogli di imparare a memoria la frase che, trasmessa da Radio Londra, avrebbe dato luogo all’insurrezione di Bologna: «all’ippodromo ci sono le corse domani» e la morte di Vincenzi avrebbe impedito quindi alla Resistenza di riconoscere e ubbidire l’ordine. Secondo Ena Franzoni, membro del Cumer, la frase era invece stata suggerita da Leonillo Cavazzuti (Sigismondo, vice comandante del Cumer) «appassionato di corse al trotto» ed era quindi nota ai leader della Resistenza, quindi l’insurrezione fallì perché Sante Vincenzi era il solo fra i dirigenti del Cumer a conoscere la localizzazione del comando della Divisione Bologna, fatto per altro smentito da una testimonianza di Giacomo Masi: «prendemmo sede in via Mezzofanti, in casa del dott. Medici. Qui si riunì il comando di Divisione, alla presenza di Dario (Ilio Barontini comandante del Cumer). Questa abitazione divenne per alcuni giorni, fino alla liberazione, la sede del comando stesso».
Nel libro viene dunque evidenziata la superficialità della versione ufficiale, le contraddizioni dei testimoni, le incoerenze nelle informazioni sparse in diverse pubblicazioni tali da sembrare volontarie, quali fossero tracce lasciate per consentire la ricostruzione dei fatti. La versione ufficiale venne accettata e definitivamente archiviata dalla storiografia locale quando il caso stesso era ancora cronaca e le esigenze politiche contingenti rendevano assolutamente inopportuna qualsiasi indagine critica. Il semplice trascorrere degli anni ha ora logorato quelle esigenze e la necessità diventa un’altra: indagare come gli eventi si svolsero effettivamente, la ricerca di una verità che, in assenza di nuove testimonianze e documenti, non potrà però che essere quanto il libro promette “la penultima”.

 

 

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Elena Mazzini, L'antiebraismo cattolico dopo la Shoah. Tradizioni e culture nell'Italia del secondo dopoguerra (1945-1974), Viella, Roma 2012, pp. 200

(Olindo De Napoli)

La voce “Razzismo” pubblicata nel 1953 dall'Enciclopedia cattolica, esponeva la tesi di una “insanabile antitesi” storicamente determinatasi tra la dottrina cattolica e il razzismo. Era una evidente semplificazione, anche laddove si estendeva la condanna al razzismo dell’enciclica Mit Brennender Sorge di Pio XI all’antisemitismo. Elena Mazzini in un interessante libro sulla cultura cattolica del dopoguerra svela oblii, “livellamenti concettuali”, ma anche rivendicazioni di ostilità religiosa verso gli ebrei e continuità del discorso antiebraico cattolico del secondo dopoguerra.
Il primo merito del libro è nell'argomento stesso. Mentre si è sviluppata nei decenni una abbondante storiografia sull'antisemitismo che si è concentrata sull'età fascista, l’età post-fascista poco è stata studiata. Altro merito è portare nel dibattito storiografico nuove fonti, sempre analizzate con finezza interpretativa e con una solida base storiografica.
La tesi di fondo del saggio è che vi è continuità nel riproporsi del deposito culturale antiebraico del cattolicesimo: «in quanto elemento endogeno al cristianesimo, la tradizione antiebraica ha trovato permanenze e stabilità continuative adeguandosi e plasmandosi a seconda dei contesti e tempi storici» (p. 61). Secondo l’A. l’abbandono delle stereotipie antiebraiche non comportò l’abbandono del pregiudizio sugli ebrei; piuttosto il “potenziale antiebraico” emigrando in altri contesti si riformulava.
La vicenda delle persecuzioni e della Shoah, insomma, non fu nell’immediato dopoguerra un’occasione per un ripensamento radicale del deposito antiebraico: al contrario stilemi, concetti e immagini sugli ebrei continuavano a riproporsi in modo plasmato, adattato al tempo post-genocidio. Gli studiosi cattolici, ad esempio quelli di una rivista come «Civiltà Cattolica», esaltavano l’opera di contrasto al razzismo da sempre svolta dalla Chiesa, l’aiuto e l’assistenza agli ebrei nei tempi della persecuzione e anche una certa “cautela” nella millenaria tradizione cattolica verso gli ebrei. Come scriveva la suddetta rivista nel 1945: «è lecito un antisemitismo nel campo delle idee, volto alla vigile tutela del patrimonio religioso-morale e sociale della cristianità» (p. 52). L’ottica, del resto, fu a lungo quella dell'attesa della conversione degli ebrei. Si perpetrava una strategia di silenzio tenace verso le responsabilità del pregiudizio antiebraico. La “cautela” si accompagnava alla paura verso gli ebrei portatori della cultura della rivoluzione francese. La tesi di Mazzini risulta convincente, soprattutto per il primo decennio postbellico.
Il capitolo più delicato del libro è a mio parere quello su antiebraismo e antisionismo. Questione questa assai scivolosa, per il rischio di riprodurre indebite equazioni tra antisionismo e antisemitismo di cui una certa pubblicistica si fa promotrice.  Del resto, sono problemi di cui l’A. stessa si mostra consapevole. Le fonti utilizzate, molto utili e originali, sono i resoconti del pellegrinaggio a Gerusalemme. In alcuni di questi libri, scritti da sacerdoti, accanto a espressioni di dolore per il male subito dal popolo ebraico, si nota il rifiuto di parlare di Israele, stato al tempo non riconosciuto dalla Santa Sede e talora il permanere di alcuni stereotipi. Mi sembra di vedere a questo proposito alcune forzature, come nell'interpretazione delle parole di don Divo Barsotti, il quale tra l’altro esprimeva un'accorata richiesta di perdono al popolo ebraico. Di certo però vi è ragione nel sottolineare come la cultura cattolica dell'immediato dopoguerra fosse caratterizzata da un “fissismo” ancora incapace di elaborare in modo diverso il rapporto con il popolo della prima alleanza.
È solo con la Declaratio Nostra Aetate che la Chiesa produce una riflessione davvero nuova sul tema, come è noto. Ed è proprio ai riflessi di tale documento del Concilio Vaticano II che è dedicato un capitolo che analizza la complicata ricezione nella cultura e nella prassi ecclesiastica del nuovo atteggiamento di apertura proclamato in sede conciliare. Traccia ne è il permanere di alcune tradizioni liturgiche legate alla memoria di sacrifici di sangue su bambini cristiani compiute da ebrei, memorie non poggianti su dati storici certi e il più delle volte anche osteggiate dai vescovi. Sul problema della ricezione l’A. si concentra su alcune autorevoli riviste che animavano il dibattito post-conciliare: Renovatio, di orientamento tradizionalista, che faceva riferimento al cardinal Siri, «La Palestra del Clero», che era preposta alla formazione dei preti, «Il Regno», rivista dei dehoniani, e «Studi Cattolici», legata all’Opus Dei. Qui il lettore sente la mancanza dell'analisi di due altre riviste, forse davvero le più autorevoli nel dibattito post-conciliare: «Concilium», ritenuta espressione delle tendenze “progressiste”, e «Communio». Il libro termina con lo studio della ricezione delle aperture del Concilio da parte della stampa ebraica, che si dimostrava insoddisfatta dall’incapacità dei cattolici di discorrere di “popolo di Israele”.
In sintesi, per quanto si riconosca che la tradizione antigiudaica è segnata da interruzioni e percorra un percorso tortuoso, il saggio propone una visione perlopiù basata sul concetto di continuità, per cui si parla di una «ristrutturazione discorsiva» piuttosto che una revisione del sistema (p. 173). La copertina, che riproduce un’immagine satirica degli anni Venti, contribuisce a alimentare l’immagine di una Chiesa compatta nella direzione ad essa imposta dal clero. Il dopo concilio segna un incontro a metà, sulle cui ragioni si lascia una prospettiva di indagine aperta.
In conclusione, si tratta di un libro importante e davvero molto interessante, che si riferisce a un tema fondamentale e poco studiato della contemporaneità. Alcune notazioni critiche: a tratti si dà l’impressione di interpretare il cattolicesimo come inevitabilmente antiebraico (vedi citazione iniziale di Adorno) e ciò può essere un rischio nella ricostruzione di questo “incontro a metà”. Sarebbe stato opportuno all’interno dell’analisi delle continuità mettere in luce anche fratture, cercando di dar conto della complessità della situazione della Chiesa italiana negli anni Sessanta: anni non solo di innovazione, ma anche di crisi e di spinte centrifughe.
In questa scia, sarebbe stato utile che le fonti, sempre analizzate in modo approfondito e con finezza storiografica, fossero messe più in dialogo tra di loro, nell’ottica di ricostruire una serie di dibattiti in seno al mondo cattolico e con quello ebraico. Inoltre qualche riferimento in più al contesto avrebbe giovato: gli oblii e i silenzi cattolici del dopoguerra, per fare un esempio, sono da inserire in un contesto generale di rimozione, anche della storiografia del tempo: problemi generali della cultura italiana.

 

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