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Silvia Buzzelli, Marco De Paolis, Andrea Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni preliminari, Giappichelli, Torino 2012, pp. XII-320

(Michele Castellari)

Lo studioso del diritto; il magistrato dell’accusa; l’avvocato della parte civile. Tre diversi e complementari punti di vista, per un unico tema: l’analisi critica della giurisprudenza formatasi dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri, relativamente ai crimini nazisti e fascisti compiuti nel nostro Paese contro civili nel periodo dal 1943 al 1945.
Se ne occupa nella prima delle tre parti Silvia Buzzelli, docente di Procedura penale europea all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, la quale introduce il lavoro degli altri coautori con qualche indispensabile precisazione terminologica, utile a dipanare molti equivoci, e a sgomberare il campo da troppi luoghi comuni sull’argomento.
Non vi è mai stata, intanto, alcuna “giustizia dei vincitori” in danno di quella “dei vinti”, se con essa si intendesse una specie di vendetta generalizzata e sommaria perpetrata dai trionfatori della seconda guerra mondiale, contro coloro che vi soccombettero. Al di là, infatti, della problematica collocazione dell’Italia in questo dualismo, una definizione siffatta non terrebbe in alcun conto le pavidità formali e le reticenze sostanziali, gli equilibrismi diplomatici e le complicità diffuse che per troppi anni, anche nel nostro Paese, elusero, minimizzarono, relativizzarono, spesso consentendo, con dolosa connivenza o con colposa ignavia, agli artefici di molte atroci vicende, di sottrarsi a qualunque responsabilità, penale e talora persino morale, oltre che di riprendersi, in altra veste, identiche posizioni di potere, o almeno di impunità, rispetto a quelle appena lasciate nella vigenza dei vecchi regimi, di pace e di guerra.
E non vi fu, correlativamente, nessun vincolante o decisivo ricorso alla memoria e alla sua conservazione neppure in sede legislativa o politica, prevalendo talora, e per larghi tratti, quella che Piero Calamandrei chiamava la “facilità all’oblio”. In questo contesto si innesta, dunque, il senso storico e giuridico della ricostruzione di taluni terribili eventi e di chi ne fu, ai diversi livelli di concezione e di esecuzione, efferato autore. E questo, in un ideale ricongiungimento a una visione filosofica e civile del rapporto tra delitto, colpa, espiazione, che affonda le sue radici nella più remota ma illuminante classicità: dal “dovere della disobbedienza” di Antigone che demolisce qualunque alibi all’esecutore di leggi (o di ordini) ingiusti; all’hybris nazifascista che vìola in modo irreparabile qualunque astratto principio di proporzione o necessità militare tra il crimine bellico, e le sue vittime civili; infine, al ripristino, etico ed etimologico, di quel concetto greco di verità come “a-letheia”, che rievoca il fiume Lete e le acque dell’oblio non più facile, ma impossibile, e che diviene così, con quell’alfa privativo questa volta così denso di contenuto costitutivo, una “non dimenticanza” e un “non nascondimento” di ciò che non è lecito negare o tacere.
Nella seconda parte del lavoro, Marco De Paolis, già Procuratore capo della Procura militare della Repubblica di La Spezia, e pubblico ministero nei processi per le stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole-Marzabotto, per l’eccidio di Cefalonia ed altri, compie un agile ed incisivo excursus storico, proprio sulle tendenze giurisprudenziali formatesi in argomento negli ultimi 65 anni della nostra storia. Dalle iniziali timidezze relativiste della prima giurisprudenza militare dell’immediato dopoguerra, tesa a condannare solo gli ufficiali più alti in grado e a deresponsabilizzare i sottoposti (processi Reder e Kappler), alla prima svolta sostanziale del 1994, allorché, in occasione del processo Priebke, fu casualmente rinvenuto un imponente archivio di documenti relativi a crimini di guerra del periodo 1943-1945 fino a quel momento dimenticato (?) in un locale della Procura militare di Corte d’Appello di Roma, che consentì di istruire, o riprendere, processi contro i responsabili, a diverso livello, di numerosi eccidi nazisti e fascisti; alla successiva ed affermata possibilità per i familiari delle vittime di costituirsi parti civili nei processi militari, sancita dalla nota e per certi versi epocale sentenza della Corte costituzionale n. 60 del 1996; infine, all’ultimo periodo dal 2002 ad oggi, in cui si è finalmente riusciti, con rigoroso metodo investigativo ed analitica disamina delle fonti di prova, ad individuare e condannare, per ciascuno dei successivi processi istruiti dalla magistratura militare, i diversi responsabili (mandanti ed esecutori) di diversi crimini nazifascisti, dalle stragi dell’Appennino tosco-emiliano a quelle della foce del Centa, da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema, da Padule di Fucecchio a San Terenzo ecc.
Nell’ultima parte del libro, Andrea Speranzoni, avvocato penalista del Foro bolognese e legale di parte civile in diversi processi contro criminali nazisti, tra cui quello relativo ai fatti di Casalecchio di Reno e Marzabotto, si sofferma dapprima sul contenuto processuale di talune delle vicende a cui egli ha personalmente partecipato, narrandoci e illustrando, spesso in modo testuale, alcuni dei passaggi più delicati e drammatici di quei dibattimenti, e tutti i problemi giuridico-interpretativi che ne derivarono per chi fu chiamato a definirli con le sentenze conclusive: l’attendibilità storica, e quella giuridica, delle singole deposizioni testimoniali; la sovrapposizione, non sempre processualmente rilevante, tra la mozione degli affetti e la rigorosa adesione ai dati fattuali; la differenza tra la deposizione di testi oculari, e quella di chi riferiva cose apprese da altri; l’inevitabile necessità di discernere, nel racconto di fatti spesso temporalmente lontanissimi da parte di protagonisti che all’epoca del loro verificarsi erano talora bambini, quanto di autentico vi fosse nel loro ricordo, e quali inconsci meccanismi di rielaborazione e/o rimozione fossero invece successivamente intervenuti a modificarlo.
La parte conclusiva dell’elaborato di Speranzoni, invece, è dedicata a correlate questioni di diritto internazionale, fondamentalmente sintetizzabili in una sola: quale sia, e se vi sia, la contestuale responsabilità civile di uno Stato, (e nella fattispecie della Germania) rispetto a crimini commessi da propri concittadini, e quando e come l’immunità giuridica “storica” di ciascuno Stato sovrano debba soccombere di fronte alle istanze risarcitorie e ripristinatorie dei singoli individui, o delle collettività esponenziali che li rappresentano: il problema è risolto dalla nostra costante giurisprudenza con l’assunto per cui l’immunità del singolo Stato non è più assoluta e intangibile, ma cede di fronte al compimento, per usare le parole di una recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, di comportamenti «lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statuali».
Principio inappuntabile e certo suggestivo nella forma, ma, a sommesso parere di chi scrive, tutt’altro che privo di complicazioni nella sostanza. Si pensi, infatti, alla trasposizione di quell’enunciato non più su di un piano di postuma rifusione di danni a fronte di crimini già consumati, ma di attivazione anticipata di una struttura giuridica (o militare) di un altro Stato, per evitarne il verificarsi, o l’aggravarsi: con tutto ciò che ne consegue in ordine alla possibile teorizzazione (giuridica, e militare) non solo di un diritto di intervento umanitario, bensì anche di quello, ben più oltranzista e problematico, di una cosiddetta guerra preventiva nei confronti del preteso Stato “disumano”.
Alla fine della lettura di un’opera senza alcun dubbio di pregevole fattura, e probabilmente indispensabile per avere una significativa cognizione di causa dell’argomento trattato, a colpire il lettore resta lo spirito complessivo che sembra trasparirne, e che sembra affratellare, dall’inizio alla fine, lo storico e il giurista: la visione, cioè, mobile, e per così dire progressiva, non solo della storia, ma anche della giustizia, in un’accezione che non è, appunto, di mera rievocazione statica e retrospettiva di ciò che è stato, ma che pretende, semmai, uno sforzo di superamento e rielaborazione virtuosa del passato, proprio nel momento in cui tenta di comprenderne analiticamente gli eventi, e di riparare (naturalmente in modo sempre tardivo e incompleto) il dolore e la sofferenza delle vittime.
E per tornare ancora ai rimandi classici di cui si diceva all’inizio, ci è venuta in mente un’altra possibile spiegazione etimologica della parola verità, di cui parla Socrate con Cratilo nell’omonimo dialogo di Platone: “aletheia” come “theia ale”, ossia “il vagabondare di Dio”. Dunque, la verità come movimento finalistico senza pace e senza sosta, che produce conflitto, ma anche libertà, e che assume non solo il connotato di uno svelamento di quanto è accaduto, ma diviene, in quanto tale, anche l’unico fondamento itinerante di qualunque possibile avvenire. E naturalmente, sostituendo all’idea di Dio quella della Storia, il cerchio, hegelianamente, si è chiuso.

 

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