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Luigi Colombari, La penultima verità. Fatti e misfatti a Bologna (1943-1945), Giraldi editore, San Lazzaro di Savena (BO), pp. 138

(Roberto Colombari)

Riassumere il contenuto e l’intento de La Penultima Verità è molto semplice: il testo ripropone fatti accaduti durante la guerra di Liberazione di Bologna, raccogliendone le diverse interpretazioni proposte negli oltre sessant’anni trascorsi da quell’aprile del 1945 e proponendone una nuova lettura che, come indicato dal titolo, ha la sola presunzione di presentare uno dei modi possibili e uno dei motivi plausibili. Però, prima ancora di ricordare quali siano gli eventi di cui si occupa il libro, è inevitabile affrontare una parola e quanto essa implica: revisionismo, un termine che può avere un’accezione semantica positiva o negativa, ma in realtà, per quanto concerne la storiografia, significa semplicemente l’esame critico dei fatti dovuto all’emergere di nuove evidenze o alla rielaborazione di quelle esistenti, qualcosa di completamente diverso dalla manipolazione o dalle forzature interpretative tipiche, per esempio, delle varie versioni del negazionismo dell’Olocausto. “Revisionare” i fatti dunque, presentando una lettura del passato conforme alle conoscenze e alla consapevolezza del presente. Il passato, infatti, (si possono citare le Meditazioni sulla Genesi di sant’Agostino come i Quattro Quartetti di T.S. Eliot) contiene il futuro e può venire meno in quanto realtà oggettiva per trasformarsi in una dimensione costruita per controllarlo insieme al presente. Lo storico Tony Judt racconta di un ascoltatore di Radio Armenia che in epoca sovietica, alla domanda se fosse possibile predire il futuro, riceveva la risposta «Non c’è alcun problema: sappiamo esattamente come sarà il futuro, il nostro problema è il passato che cambia continuamente».
La Penultima Verità presenta quindi la rivisitazione di tre vicende della Resistenza bolognese, ma principalmente la vicenda relativa alla scomparsa di Sante Vincenzi, ufficiale di collegamento del Comando unico militare Emilia-Romagna, e Giuseppe Bentivogli, segretario provinciale del Psiup, i cui cadaveri vennero ritrovati il 21 aprile 1945 fuori Porta San Felice. La versione ufficiale riferisce come nel pomeriggio del 20 aprile si trovassero entrambi in piazza Trento Trieste col comandante delle Sap Giacomo Masi che, notando i movimenti sospetti di un gruppo di ciclisti, dopo aver segnalato il pericolo si sottrasse alla cattura. Non così Vincenzi e Bentivogli arrestati, seviziati e uccisi da brigatisti neri che, in fuga, ne trascinarono poi i corpi «già spenti, lacerati e torturati fino ai Prati di Caprara» (L. Bergonzini, La svastica a Bologna settembre 1943-aprile 1945, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 326). Tale resoconto contrasta in primo luogo con un documento certo imparziale: la fotografia dei corpi scattata sul luogo del loro ritrovamento. In primo piano è il cadavere di Bentivogli che indossa giacca e gilet, forse la cravatta, il cappello appoggiato sulla testa, calza ancora le scarpe e non sembra aver subito violenze, mentre la pozza di sangue visibile accanto alla testa parrebbe dimostrare che l’esecuzione sia avvenuta proprio nel luogo in cui venne rinvenuto il corpo. Il cadavere di Vincenzi, parzialmente nascosto da quello del compagno, appare invece scarmigliato, le braccia sembrano legate dietro la schiena e davvero non si può escludere sia stato torturato. Anche le motivazioni delle medaglie d’oro assegnate ai due esponenti della Resistenza a prima vista sembrano contraddire la versione ufficiale. Sante Vincenzi: «Varcava più volte le linee svolgendo brillantemente missioni importanti e delicate. Durante il compimento di una di esse veniva sorpreso da una pattuglia fascista, che, dopo fiera lotta, riusciva a catturarlo. Sottoposto a disumane torture e ad efferate sevizie, con il corpo straziato e l’animo indomo, non faceva alcuna rivelazione per non nuocere alla causa dei compagni di lotta, finché il nemico, esasperato da tanto stoico silenzio, barbaramente lo freddava». Giuseppe Bentivogli: «Catturato, sopportava le atroci torture infertegli dal nemico con impassibile fermezza; condannato alla pena capitale affrontò la morte da eroe». Nella cattura di Vincenzi, che aveva il compito di trasmettere al comando della Divisione Bologna la parola d’ordine per la rivolta in città, viene inoltre individuato il motivo della mancata insurrezione partigiana del 20 aprile, ma anche questo aspetto è ricco di evidenti contraddizioni. Charles Macintosh, il comandante della Special Force n. 1, la sezione speciale dei servizi inglesi riferisce infatti di aver incontrato Vincenzi dietro le linee tedesche ai primi di aprile chiedendogli di imparare a memoria la frase che, trasmessa da Radio Londra, avrebbe dato luogo all’insurrezione di Bologna: «all’ippodromo ci sono le corse domani» e la morte di Vincenzi avrebbe impedito quindi alla Resistenza di riconoscere e ubbidire l’ordine. Secondo Ena Franzoni, membro del Cumer, la frase era invece stata suggerita da Leonillo Cavazzuti (Sigismondo, vice comandante del Cumer) «appassionato di corse al trotto» ed era quindi nota ai leader della Resistenza, quindi l’insurrezione fallì perché Sante Vincenzi era il solo fra i dirigenti del Cumer a conoscere la localizzazione del comando della Divisione Bologna, fatto per altro smentito da una testimonianza di Giacomo Masi: «prendemmo sede in via Mezzofanti, in casa del dott. Medici. Qui si riunì il comando di Divisione, alla presenza di Dario (Ilio Barontini comandante del Cumer). Questa abitazione divenne per alcuni giorni, fino alla liberazione, la sede del comando stesso».
Nel libro viene dunque evidenziata la superficialità della versione ufficiale, le contraddizioni dei testimoni, le incoerenze nelle informazioni sparse in diverse pubblicazioni tali da sembrare volontarie, quali fossero tracce lasciate per consentire la ricostruzione dei fatti. La versione ufficiale venne accettata e definitivamente archiviata dalla storiografia locale quando il caso stesso era ancora cronaca e le esigenze politiche contingenti rendevano assolutamente inopportuna qualsiasi indagine critica. Il semplice trascorrere degli anni ha ora logorato quelle esigenze e la necessità diventa un’altra: indagare come gli eventi si svolsero effettivamente, la ricerca di una verità che, in assenza di nuove testimonianze e documenti, non potrà però che essere quanto il libro promette “la penultima”.

 

 

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