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Andrea Dessardo

Dentro e fuori d'Italia

Processi di nazionalizzazione e prima guerra mondiale in due scuole di Trieste

 

«Le questioni scolastiche qui sono squisitamente politiche; anzi
la politica per quattro quinti si fa nella scuola»
(L. Credaro, Personale riservata ad Antonino Anile, 20 aprile 1922 (Nota 1))

La propaganda nazionale e una tradizione storiografica che fa ormai difficoltà a legittimarsi hanno a lungo presentato la partecipazione dell’Italia alla Grande Guerra nascondendo o almeno mitigando le mire imperialiste del giovane Regno, per concentrarsi sull’opera cosiddetta di «redenzione» degli italiani che si trovavano ancora soggetti al nemico storico per eccellenza, l’Austria-Ungheria, con la quale pure era stata sottoscritta nel 1882 un’alleanza, che l’Italia rinnovò ancora nel 1912 (Nota 2).
Attorno all’effettiva realtà degli italiani d’Austria, alla loro cultura e alle loro aspirazioni vi era però nel Regno qualche confusione, giungendo le notizie a Roma principalmente attraverso la rete dell’emigrazione, non pienamente rappresentativa della popolazione nel suo complesso in quanto composta perlopiù da elementi che si trovavano in Italia a causa delle loro idee politiche. Sicché nel momento in cui giunse a Trieste – non consideriamo in questo saggio il fronte trentino – l’Italia trovò un panorama un po’ diverso da quello immaginato, così come, del resto, l’Italia vagheggiata dall’irredentismo giuliano – un Paese giovane e moderno, laico, erede consapevole di una grande cultura letteraria e artistica – non era esattamente quella presentatasi il 3 novembre 1918 sbarcando sul molo San Carlo dal cacciatorpediniere «Audace». Desideriamo perciò aprire qualche finestra osservando gli ultimi decenni prima dello scoppio della guerra e gli anni del conflitto dall’altra parte della frontiera. E lo faremo non dal punto di vista istituzionale, ma «dal basso», a partire dalla vita quotidiana di due scuole di Trieste: Claus Gatterer (Nota 3) ha icasticamente definito le scuole le «trincee della nazione», trincee di una guerra combattuta più a lungo di quella scoppiata in Europa nell’estate del 1914. Una guerra incruenta nei mezzi con cui veniva condotta, ma che scavò in profondità il tessuto sociale dei territori nei quali aveva preso avvio, come proveremo a mostrare nelle righe seguenti. Intendiamo la scuola come spaccato di una comunità, come luogo di socializzazione e nazionalizzazione, nel quale si incontrano - attraverso le circolari, i decreti, i programmi - le istanze delle autorità, e le vicissitudini quotidiane del popolo, interessato dalle stagioni della semina e della trebbia, dai lavori domestici cui erano tenute le bambine, dalla vendemmia, dalle piccole e grandi epidemie, dalle festività civili e religiose; ruolo che risalta con maggior vividezza nei centri più piccoli, dove la scuola costituiva uno dei pochi presidi del potere centrale: «gli storici non studiano i villaggi», sentenziava Clifford Geertz, ma «nei villaggi» (Nota 4). L’unire poi a uno studio sulle scuole uno studio sulle aree di frontiera – quale era allora da un punto di vista etnico-nazionale Trieste, e lo è ancora anche politicamente - può essere un esperimento non privo di valore euristico.
Il territorio di Trieste, seppure limitato per estensione, si trova sulla linea di faglia lungo la quale si sono scontrati i nazionalismi, essendo a popolamento misto italiano e sloveno: prenderlo in esame per un periodo sufficientemente lungo, circa una trentina d’anni dalla fine degli anni Ottanta del secolo XIX agli anni della prima guerra mondiale, consente di potersi rendere progressivamente conto del mutare delle esigenze e delle aspirazioni delle diverse comunità nazionali. L’evento bellico venne a perturbare delle dinamiche già in atto da alcuni decenni, che qui prenderemo sotto la lente d’ingrandimento. Proviamo insomma a risalire per induzione dalla parte all’intero, facendo attenzione al fatto che le “parti” erano, e forse sono ancora, zone sensibili in grado di rivelare dei processi, che hanno le loro radici nella più generale storia europea, di quell’Europa «di mezzo» (la cosiddetta Mitteleuropa (Nota 5)), confine tra i confini. Raoul Pupo ha parlato di «laboratorio giuliano» (Nota 6), riproduzione in un’area assai limitata di un processo in corso in tutta l’Europa centro-orientale, spesso caratterizzata dalla compresenza di diverse comunità nazionali, generalmente polarizzate sul cleavage città-campagna. Era il caso della Venezia Giulia che qui prendiamo in esame, ma era soprattutto il caso della Boemia e della Moravia, dove i centri maggiori erano tedeschi ma il contado perlopiù ceco – con l’eccezione dei Sudeti -, della Slesia, della Galizia divisa tra polacchi e ruteni, della Bucovina, dei Paesi baltici, ma anche di alcune zone dell’Asia minore, dove a contrapporsi erano greci e turchi. Lo sviluppo industriale e il connesso inurbamento delle masse contadine, l’ampliarsi delle possibilità di movimento per un crescente numero di persone, le necessità di disciplinamento delle popolazioni principalmente attraverso l’istruzione e la leva obbligatoria portarono in quella stagione storica allo scontro tra diverse identità nazionali che fino ad allora avevano convissuto, Kulturnationen e «nazioni senza storia». Sono processi storici importanti, che tuttavia dal “centro” – dove predomina in genere l’omogeneità - appaiono sfumati, ma che si possono osservare dalle periferie: partire dunque dalle periferie per conquistare il centro può essere – a livello letterale e metaforico, seguendo la suggestione del neologismo di «hinternazionale» coniato da Johannes Urzidil pensando a Praga, città «dietro le nazioni» oltre che “tra” - una via metodologica abbastanza feconda se, come affermano Paul Guichonnet e Claude Raffestin, «la frontiera è un sismografo sensibile che registra le scosse politiche di cui l’origine profonda è altrove» (Nota 7). «La marginalità geografica assume […] – sostiene Silvia Salvatici - una rilevanza specifica nella costruzione di quelle unità nazionali di cui deve rappresentare il perimetro» (Nota 8).

Trieste apparteneva agli Asburgo dal lontano 1382, allorché il Comune vi si era liberamente assoggettato per sottrarsi all’espansione di Venezia, ottenendo difesa militare in cambio del pagamento di un tributo. La città, un piccolo borgo di alcune migliaia di anime dedito principalmente al commercio del sale, alla pesca e alla coltivazione della vite, si era così tenuta al riparo dalla storia, mantenendo larga autonomia nella cornice dell’impero, fino al 1719, quando Carlo VI vi aveva proclamato – parallelamente a quanto tentato sul Mar del Nord a Ostenda, ma con meno fortuna – il porto franco e, successivamente, altri privilegi commerciali e sociali che, nei decenni, attirarono mercanti e avventurieri, trasformando in breve il comune medievale in un grosso emporio (Nota 9): nel 1900 Trieste contava già 176.000 abitanti, saliti vertiginosamente a 235.000 nel 1910 sull’onda del successivo sviluppo industriale. Nel 1913 i cantieri dell’Adriatico orientale erano al settimo posto nella graduatoria della produzione navale mondiale, ed erano attivi a Trieste 1.099 esercizi industriali, che davano lavoro a 24.652 persone (Nota 10); il Lloyd Austro-ungarico vi gestiva, nel 1914, quattordici linee di navigazione regolari con 61 piroscafi per complessive 20.000 tonnellate (Nota 11).
L’annessione all’Italia del Veneto e del Friuli nel 1866 (Nota 12) influì nel far progressivamente spostare l’attenzione dell’élite cittadina dalla corte di Vienna a quella sabauda. L’accelerazione decisiva la diede però soprattutto la presa di consapevolezza nazionale delle popolazioni slave dell’entroterra che, se fino ad allora si erano inurbate pacificamente inserendosi nel tessuto cittadino senza scosse, assumendone solitamente l’uso linguistico e nel giro di una o due generazioni, fattesi nella seconda metà dell’Ottocento più consistenti le comunità e più avvertite dei loro retaggi storici – non più contadini, ma operai –, frenavano l’assimilazione e iniziavano anzi sempre più a reclamare di essere riconosciute quali soggetti titolari di diritti nella vita sociale ed economica della città, insidiando la tradizionale egemonia italiana. «Nell’epoca della nazionalizzazione di massa – quando cioè l’appartenenza nazionale si faceva perno dell’identità personale e collettiva – le ragioni della politica e dell’economia, vocazione nazionale e destino economico, a Trieste entravano in palese contraddizione» (Nota 13): lo sviluppo economico della città, legato alle logiche interne di un impero multinazionale, veniva a cozzare contro le tradizioni latine della maggioranza della sua popolazione. Quando l’Italia giunse a Trieste (Nota 14), le élite italiane della città vissero la vittoria come la fine di una logorante guerra di posizione contro il risveglio sloveno (Nota 15), ma giunsero all’appuntamento private della loro eredità storica recente, alla disperata ricerca di nuovi approdi economici e riferimenti culturali (Nota 16).
Di queste tensioni (Nota 17) possiamo trovare traccia nella vita delle scuole (Nota 18). La nostra attenzione si è concentrata su due scuole soltanto, una popolare di campagna (paragonabile alle elementari italiane, ma destinata a ragazzi e ragazze fino ai quattordici anni) e una media, la civica scuola reale, che possiamo affiancare a un istituto tecnico o a un liceo scientifico (Nota 19). Si è voluto così, in un esperimento di «storia dal basso» (Nota 20) – si spera senza grosse forzature – considerare fasce d’età diverse (bambini e adolescenti), diverse condizioni sociali (la città e la campagna) e diversi profili nazionali (la scuola popolare di lingua slovena con sezione italiana e la scuola media italiana), cercando – consapevoli di tutti i limiti dell’operazione – di tracciare, in poche pagine, per cenni il panorama socio-culturale che caratterizzava la città e i suoi immediati paraggi. Le cronache della “scuoletta” di Barcola illustrano, attraverso i puntuali riferimenti del maestro sul registro, il mutare sempre più veloce del profilo della campagna circostante Trieste, trasformatasi velocemente in periferia industriale; in particolare consentono di assistere al maturare delle condizioni del conflitto nazionale: la città italiana cercava di assimilare la campagna slovena, mentre le masse operaie slave lottavano per mantenere la loro identità, o addirittura per mutare il profilo nazionale storico della città, sentendosi non più ospiti, ma parte integrante dei residenti. Sono dinamiche che appaiono con meno evidenza nelle scuole comunali di città dove, seppure la provenienza degli alunni fosse la più disparata, predominava l’uso dell’italiano: gli sloveni del centro, privi di scuole pubbliche per l’opposizione intransigente delle autorità cittadine, potevano contare solo su quelle private della società dei Santi Cirillo e Metodio, oppure su quelle statali in lingua tedesca, nelle quali costituivano la maggioranza della popolazione, sebbene non vi mancassero – oltre ai ragazzi della comunità tedesca, perlopiù figli di funzionari dello Stato – i bambini e i ragazzi italiani (Nota 21). Altri sono i dati che si possono osservare con maggior soddisfazione nella scuola reale, una scuola media italiana, di città: qui i contrasti più evidenti sono interni alla medesima comunità nazionale, e ad essere messe alla prova sono le posizioni politiche degli alunni, adolescenti coscienti e già partecipi, con l’esuberanza della giovane età (Nota 22), del mondo loro circostante, e in molti casi direttamente costretti a una scelta poiché chiamati, allo scoppio della guerra, a prestare il servizio militare. Diverso anche il ruolo dei docenti, evidentemente: i maestri del contado sloveno non trovarono contraddizione nel rispondere alla chiamata della patria austriaca, eventualità che si presentò con maggiore frequenza tra i professori di città, specie dopo il 24 maggio 1915, quando gli invasori parlavano la loro stessa lingua e si presentavano come liberatori. Il nostro sguardo partirà da Barcola, dalle trasformazioni di medio periodo della periferia, per concentrarsi infine sulla città in guerra; da una scuola popolare, centro del villaggio e crocevia, quasi libromastro della comunità, per fermarsi poi sulle aspirazioni delle classi medie urbane, per le quali la guerra, ben più che per la campagna, assumeva significati teleologici.
La nostra narrazione, ricostruita a partire dai registri e dalle cronache scolastiche, parte dalla data del 24 marzo 1888, giorno che segnò la prima incrinatura socio-economica nella storia – perlomeno di quella recente – della piccola borgata rivierasca di Barcola (Nota 23), alla periferia occidentale di Trieste. Il 24 marzo 1888 (Nota 24) il magistrato civico Zaccaria Gandusio comunicava al dirigente della locale scuola Giuseppe Mosettig (Nota 25) che l’i.r. Luogotenenza aveva dato parere favorevole all’inaugurazione, in ottobre, grazie all’intervento economico della Fondazione Marenzi, del nuovo edificio scolastico, con annessi gli appartamenti per gli insegnanti. Il 19 giugno Gandusio aggiungeva che la scuola sarebbe stata collegata all’acquedotto, sia pure con un rubinetto soltanto.
Un passo decisivo, quello dell’acqua corrente, che proiettava il borgo nella modernità. Probabilmente Mosettig non si era reso ancora pienamente conto della portata storica dei cambiamenti che avrebbero scosso profondamente la stessa comunità di cui lui era una delle personalità più in vista, ma sarebbero bastati pochi mesi di quell’anno scolastico. Nel 1888 Mosettig era già al suo diciannovesimo anno di servizio e possiamo presumere che si stesse ormai avvicinando alla quarantina: aveva infatti iniziato la sua carriera di maestro il 1° novembre 1868 e dal 1880-81 aveva ottenuto la dirigenza di Barcola, dove sarebbe rimasto fino al primo decennio del secolo per far poi posto al maestro Kressevich.
L’assetto della scuola austriaca datava al 24 aprile 1869, quando il Consiglio dell’impero aveva promulgato, con 111 voti a favore, 4 contrari e 65 assenze, il Reichsvolksschulgesetz (Nota 26). La riforma del 1869 deve essere considerata anche in relazione al momento politico, decisivo per la storia centro-europea: nel 1867 era stata riscritta la Costituzione, che aveva completamente ridisegnato gli assetti interni dello Stato, dividendolo in due entità autonome in tutto fuorché nella politica finanziaria, in politica estera e nella difesa. Era la duplice monarchia austro-ungarica, di cui Francesco Giuseppe era imperatore e re (Nota 27).
La legge aveva ottenuto la sovrana sanzione dell’imperatore il 14 maggio. Si trattava della riforma più grossa dal 1774, allorché era nata in Austria, in seguito alla Schulordnung di Maria Teresa, la scuola di Stato (Nota 28), la prima organizzazione centrale del sistema d’istruzione nella monarchia. La Schulordnung teresiana veniva ufficialmente introdotta a Trieste da un’ordinanza dell’Intendenza di commercio (Nota 29) del 28 marzo 1775, che decretava l’apertura di una scuola normale imponendo contestualmente la chiusura di tutte le scuole private (Nota 30).
Le leggi ordinavano l’istituzione d’una scuola sistematica per uno o più luoghi ove vi fossero – secondo una media di cinque anni – più di quaranta bambini in età dell’obbligo, ossia dai sei ai quattordici anni. A seconda del numero di alunni, le scuole potevano essere regolate su una sola o su più classi, divise per età e/o per sesso (Nota 31). Nei centri maggiori era stata introdotta la cosiddetta «scuola cittadina», un corso che forniva agli alunni degli ultimi tre anni un’istruzione maggiormente professionalizzante. Le scuole rurali, invece – e tale era quella di Barcola –, offrivano un’istruzione propedeutica al lavoro agricolo, prevedendo a tal fine anche periodi di sospensione delle lezioni in occasione della trebbia o della vendemmia. A Trieste i dati sulla frequenza erano meno favorevoli che altrove nell’impero, ma migliori che in paragonabili città del Regno: alla fine dell’anno scolastico 1908-09, per esempio, la frequenza si attestava a 27.719 scolari su 31.319 obbligati, un non disprezzabile 88%. Le promozioni erano circa del 75%, esclusi coloro che si erano ritirati prima della pausa estiva. In Austria l’obbligo scolastico cessava automaticamente al compimento del quattordicesimo compleanno, senza esami, tranne che nel caso di alunni privatisti. Per l’accesso all’istruzione media, nel Regno bisognava sostenere l’esame di maturità, valido a livello statale; in Austria invece ogni scuola media provvedeva da sé agli esami d’ammissione, mostrando anche in questo caso un assetto schiettamente decentrato.
Le differenze maggiori (Nota 32) rispetto all’Italia sussistevano nella preparazione dei maestri. All’istituto magistrale si poteva accedere a quindici anni previo esame di ammissione, dopo aver frequentato i corsi inferiori del ginnasio o della scuola reale. L’art. 32 della legge 62, 14 maggio 1869, puntualizzava che, tra i requisiti richiesti, vi dovevano essere la forte costituzione fisica e l’integrità morale. Il corso durava quattro anni, contro i tre delle scuole normali italiane (l’ammissione, nel Regno, avveniva però a sedici anni). Già dal terzo anno gli allievi venivano introdotti come uditori in una scuola popolare, la «scuola di pratica» generalmente annessa all’istituto magistrale; durante il quarto anno, vi tenevano già esercitazioni tra i bambini. Gli aspiranti maestri austriaci dovevano studiare anche il tedesco e la religione e, i soli maschi, anche violino ed organo, quest’ultimo indispensabile per l’assunzione presso le scuole di campagna e titolo necessario per la promozione a dirigente (altro titolo per poter rivestire la funzione era l’abilitazione all’insegnamento della religione); le donne, facoltativamente, potevano studiare il francese, lingua che rientrava nei programmi delle scuole cittadine. Al termine del quarto anno gli allievi si sottoponevano a un esame di maturità che l’ordinanza ministeriale del 31 luglio 1886 voleva «rigoroso», e che si declinava su tre prove: scritta, orale e pratica. La prova scritta toccava la lingua, la pedagogia e la matematica, quella orale verteva invece su tutte le materie, e la pratica consisteva in una lezione da tenersi in presenza della commissione. Ma l’addestramento non era ancora terminato: ricevuto il diploma di maturità, il candidato maestro doveva far pratica per due anni sotto la supervisione di un maestro di ruolo e appena poi – se aveva assolto il tirocinio lodevolmente – poteva accostarsi agli esami di abilitazione, anch’essi divisi su tre prove.
Una volta abilitato, il maestro poteva ricoprire in via definitiva un posto presentandosi a un qualsiasi concorso bandito dai consigli scolastici distrettuali, per soli titoli e sempre a tempo indeterminato. I candidati presentavano la propria domanda al consiglio, che la vagliava insieme all’ispettore e all’organo cui spettava la nomina, ossia alla deputazione comunale o al consiglio scolastico locale; la nomina doveva quindi ricevere il nullaosta del consiglio scolastico provinciale. I posti eventualmente rimasti sguarniti per mancanza di candidati muniti di abilitazione, venivano provvisoriamente ricoperti da diplomati degli istituti magistrali.
Caratteristici del sistema austriaco erano i consigli scolastici e la funzione degli ispettori (Nota 33). Ne era prevista la costituzione in ogni capoluogo di provincia e di distretto; i comuni dotati di una propria scuola, o unioni di comuni consorziati, potevano costituire consigli locali. Nei consigli provinciali e distrettuali erano rappresentati il governo (presidente del consiglio provinciale era il luogotenente), la Chiesa, i comuni e i maestri. L’ispezione scolastica era condotta a livello distrettuale da personale di nomina ministeriale per un periodo di sei anni: si trattava di maestri scelti all’interno di una terna proposta dal consiglio scolastico provinciale, dunque in un processo di selezione quasi completamente interno alla classe magistrale e con modalità in buona parte informali. La nomina ad ispettore non mutava lo status giuridico dell’interessato, che rimaneva quello di maestro, non migliorandone la posizione economica al di là di un forfait (il «Pauschale») per le spese di viaggio connesse alla funzione. La condizione era dunque assai diversa dalle procedure del Regno, dove per divenire ispettori si doveva affrontare un apposito concorso per titoli ed esami (prova scritta, pratica e orale) su base nazionale, avendo un diploma di specializzazione conseguito presso le Università, e almeno otto anni di insegnamento alle spalle, con un’età non superiore ai quarant’anni. Quanto agli ispettori provinciali, essi erano invece scelti tra i professori di scuola media, e assolvevano, in sostanza, le funzioni che in Italia erano in capo ai provveditori. Questo era il quadro sociale e normativo entro il quale agiva anche il nostro Giuseppe Mosettig.

A Barcola circa duecento tra ragazzi e ragazze erano ammassati in sole due aule, con le conseguenze igieniche che ci si può immaginare. Rispondendo a un sondaggio delle autorità, nel 1881 Mosettig aveva riferito puntigliosamente che la prima aula, alta 3,80 m, misurava 11,40 x 6,65 m, aveva cinque finestroni di 1,90 per 0,90 m e contava 24 banchi da tre-quattro posti, mentre la seconda, alta 3,60 m, era quasi quadrata, lunga 9 m e larga 8,50, con tre finestre da 1,42 x 0,95 m e una da 1,66 x 0,87 m. Qui i banchi erano 16, ma da cinque posti ciascuno. Solo due i «cessi»: e ricordiamo che, fino al trasloco, non vi era acqua corrente.
Mosettig dal 13 marzo 1889 si era assicurato un aumento di 20 fiorini impegnandosi anche nell’istruzione agraria e nella cura di un orto pomologico, anche perché l’ultima vendemmia non era andata granché bene e i benefici dell’agricoltura eccedevano di poco i bisogni dell’autoconsumo. Nel tentativo di dare una scossa all’agricoltura barcolana, il 19 aprile 1889 il maestro scriveva alla Società Agraria chiedendo il favore di una buona parola presso l’inclito magistrato civico per l’uso, a scopo di bachicoltura, delle foglie dei gelsi che in estate procuravano ombra e refrigerio ai signori clienti dello stabilimento balneare «Excelsior», proprio lì dirimpetto alla chiesa oltre la strada. L’efficienza dell’amministrazione asburgica diede magnifica prova di sé presentando l’autorizzazione in soli giorni cinque, il tempo di ricevere il parere dell’autorità «sulle pubbliche piantagioni».
Entrarono così a contatto due mondi assai diversi eppure sempre più vicini, quello cittadino italiano che andava a prendere il fresco ai bagni «Excelsior» e quello campagnolo sloveno che elemosinava delle foglie di gelso per qualche nozione sperimentale alla folla di bambini che, pur abitando in faccia al mare, erano perlopiù figli di contadini e di salariati. E il cambiamento culturale in atto risalta spesso anche dalle parole del magistrato Gandusio, parole assennate, ma che segnano chiaramente la disparità fra la città e la campagna. Ricorrenti erano per esempio le raccomandazioni a migliorare l’insegnamento della lingua italiana, come il 28 dicembre 1887, allorché, restituendo alla scuola i temi, passati per un’ispezione tra le sue mani, si prendeva «a grata notizia il progresso fatto dalla scolaresca nella lingua italiana» e «si mette[va] a cuore de’ rispettivi insegnanti e di codesta Reggenza a voler anche per il futuro non tralasciare alcuna cura relativamente a codesta importantissima materia», quella che poteva dare un giorno lavoro ai ragazzi e braccia alla città. Così come un anno più tardi – il 21 dicembre 1888 – i temi venivano considerati «nel loro complesso siccome una confortevole prova dei progressi ottenuti», anche se si osservava che sarebbe stato auspicabile, per il futuro, che «i singoli insegnanti mettano una maggiore attenzione all’atto della correzione, essendosi notato che qua e là non pochi errori passarono inosservati e che non tutte le correzioni annotate sono sempre esatte».
Abbiamo iniziato la nostra narrazione dall’anno 1888 perché esso, per la scuola di Barcola, fu un anno che possiamo definire di svolta: la città si stava allargando, giungeva a lambire le periferie, che si popolavano di opifici e manifatture – la stazione non era poi così lontana, e dal 1883 era raggiungibile anche con un servizio di omnibus a cavalli (nel 1900 fu inaugurato il tram elettrico). Nel 1888 venne infatti aperta la sezione italiana. Proprio nell’anno in cui la scuola ottenne un edificio nuovo. E se anche Mosettig non diede mai segno di lamentarsene, c’è però da credere che provasse una certa frustrazione, anche perché molti degli alunni che vennero iscritti alla nuova sezione italiana altri non erano che suoi ex allievi figli di genitori ambiziosi, che vedevano nell’italiano la lingua per farsi strada nella società industriale.
La conquista di Barcola alla lingua di Dante ebbe le fattezze del giovane Francesco Zaratin, maestro provvisorio ancora privo dell’abilitazione, fino ad allora assistente alle civiche scuole popolari di città. Per ovviare alla mancanza di maestri già segnalata dall’ispettore Loser il 25 giugno, veniva però aperta anche una terza sezione slovena affidata alle cure della signorina Antonia Ferluga proveniente dalla scuola di Santa Croce. Nel 1889 fu aperta anche lì una sezione italiana, suscitando non poche polemiche, in quanto mentre agli sloveni continuava ad essere negata l’apertura di proprie scuole pubbliche nel perimetro cittadino, il Comune ardiva aprirne di italiane sul Carso, in luoghi di storico insediamento sloveno. Tra il 1884 e il 1892 si susseguirono quattro petizioni per l’apertura di istituti elementari sloveni a Trieste, che però non superarono il vaglio attentissimo delle autorità comunali, le quali si appellavano alla lettera della legge: erano necessarie le firme di quaranta genitori residenti nel quartiere da almeno dieci anni, e la scuola slovena più vicina non doveva distare più di quattro chilometri. Per contro, in quegli stessi anni furono aperte classi italiane anche a Servola (1878) e a Guardiella (1906), entrambi quartieri suburbani a forte presenza slovena. Il mite Mosettig non sembra partecipare alla vita politica su cui Gandusio spendeva qualche parola, ricordando i doveri dei maestri e ribadendo indirettamente la gerarchia fra centro e periferia: «Si darà ogni premura per il benessere della scuola che deve essere l’unica mira cui deve tendere il docente, astenendosi da qualunque altra azione, ed in specie da qualsiasi agitazione politica, tanto peggiore se tende a turbare i buoni rapporti tra la città e la campagna di questo nostro Comune» (Nota 34).
Già il 19 ottobre, dopo nemmeno tre settimane di scuola, Mosettig veniva informato che la Società Pro Patria aveva messo gli occhi sulla nuova sezione italiana, per farne un avamposto della conquista del territorio: in occasione della festa del patrono san Giusto – allora ancora celebrata il 2 novembre, prima che la concomitanza con la commemorazione dei defunti e la ghiotta coincidenza del 3 novembre consigliassero di far aderire calendario religioso e civile in una grande festa di popolo e di patria – ai bambini italiani poveri di Barcola, Roiano e Servola, quartieri periferici a consistente presenza slovena, sarebbero stati donati indumenti nuovi. I patrioti avrebbero fatto dono di «stivaletti ed eventualmente vestiti» anche l’11 novembre in occasione dell’apertura del giardino d’infanzia che la Pro Patria gestiva dal 1886 (nel 1890 la proprietà sarebbe stata assunta dal Comune) nel contermine rione di Gretta (Nota 35).
Eppure, anche in quelle campagne non ricche, talora non bastavano gli stivaletti nuovi a convertire le coscienze. Ci furono dei ripensamenti, delle riflessioni successive, anche qualche ribellione; e capitava che i genitori scegliessero, tra i figli, la lingua nella quale crescerli, diversificando i loro destini. È per esempio il caso della famiglia di Giovanni Ukmar, colono, che quell’anno ritirò i figli per trasferirsi a Chiadino, alla periferia nord della città: Giuseppe, classe 1879, era iscritto alla sezione italiana, ma Antonia (1881) e Pietro (1882) a quella slovena. Tutti e tre frequentavano il primo anno. Tra gli iscritti alla sezione italiana – terzo corso – figura Carlo Pollak, figlio dell’industriale Giuseppe, nato il 3 giugno 1878, che lasciò la scuola per tornare all’istituto di via Chiozza, nel centro cittadino, dove aveva frequentato l’anno precedente. Non sappiamo i motivi del trasferimento, ma è da credere che il padre avesse provato l’esperimento di iscrivere il figlio alla nuova sezione italiana più vicina a casa, per poi pentirsi, visto il livello non confortante di una classe di figli di contadini abituati ad esprimersi in un’altra lingua. Poco prima di Natale ci fu anche il caso per cui il padre di Giovanni e Anna Zuban, iscritti dalla madre alla sezione italiana, pretendeva ora, a due mesi e mezzo dall’inizio delle lezioni, di farli tornare nella classe slovena nella quale erano stati l’anno precedente.
La generosità interessata degli attivisti della Pro Patria – che, nata a Rovereto e sciolta d’autorità nel 1890, sarebbe risorta nel 1891 a Trieste col nome di Lega Nazionale (Nota 36) – trovò un pronto contraltare in «una deputazione di 15 membri di un comitato costituitosi a Barcola», come lo definiva con vaghezza Gandusio in una lettera del 23 novembre 1888, deciso a compensare le lusinghe italiane con pari e anzi maggiori donazioni agli scolari poveri, beninteso sloveni.
Decisiva la data scelta per il rito, chiara la finalità politica del dono: se gli italiani avevano regalato vestiti per San Giusto, allora gli sloveni il 2 dicembre, all’indomani del giubileo di regno dell’imperatore Francesco Giuseppe, salito al trono nel lontanissimo 1848 (per la ricorrenza il 1° dicembre veniva data vacanza, dopo la messa), regalavano non solo scarpe e indumenti, ma anche e soprattutto «libri di preghiere». A distanza di un mese – 2 novembre e 2 dicembre – vi sono tutti i simboli di due appartenenze e di due autorappresentazioni di sé contrapposte: il municipalismo italiano espresso dalla festa locale del patrono – e la fedeltà monarchica degli sloveni; da una parte la frivolezza mondana di abiti e indumenti, dall’altra la concretezza delle scarpe e il radicamento religioso dei messali con le preghiere a Dio da recitarsi nella propria lingua materna.
Vi sono altri due elementi significativi, che emergono dalla relazione dell’incontro avuto con i promotori dell’iniziativa, che il 26 novembre Mosettig trasmise a Gandusio. Per la distribuzione dei doni non si scelse la scuola da poco inaugurata, condivisa giocoforza col nemico nazionale, ma il vecchio edificio, su un fondo di proprietà di tale signor Iasbitz, che per vent’anni aveva provveduto all’istruzione degli sloveni del luogo. L’altro dato che si ricava è la classe sociale dei promotori, alfieri di un proletariato che cercava di affrancarsi dalla sua povertà, saldamente legato alle case avite anche se tolto dalla zolla: «Andrea Martellanz possidente capo zavorrante abitante in Barcola al N. 134, Giovanni Martellanz possidente e capo muratore abitante in Barcola al N. 76 e Giacomo Ferluga possidente e tagliapietre abitante in Gretta al N. 267». Crediamo che, nel tempo, l’azione dei Martellanz, di Ferluga e degli altri abbia portato a qualche significativo passo avanti nell’opera di ricostituzione di una coscienza nazionale slovena. Lo vediamo, per esempio, dalle cronache dell’anno scolastico 1914-15, quando, nel frattempo, a reggere la scuola di Barcola – solo la sezione slovena, perché dal 1909 l’italiana si era emancipata, costituendosi scuola a sé, libera anche formalmente da qualsivoglia dipendenza dagli sloveni – era giunto da qualche anno Giovanni Kressevich. Sono segni minimi e forse poco significativi, ma assai più spesso rispetto a prima i nomi degli insegnanti e degli alunni sono riportati nella grafia slovena: Starc anziché Starz o Starzo, Martelanc invece di Martellanz e Sedevčič con i corretti segni diacritici in luogo di un più sbrigativo Sedevcic o della traslitterazione in Sedevcich e così via. Lo stesso Kressevich talora si presenta come Kresevič, altre come Kresevic. La popolazione scolastica, rispetto al 1889, era nel frattempo più che raddoppiata, contando, nell’anno della morte di Francesco Giuseppe,  all’inizio del 1916-17 – e parliamo soltanto della sezione slovena – ben 280 maschi e 285 femmine.

Lo scoppio della guerra ci invita a spostare la nostra attenzione sulla città (Nota 37), dove maggiori erano le tensioni che essa causava; la nostra attenzione si sposta inoltre su ragazzi che, in virtù della loro età, potevano intendere la guerra non solo come una  calamità relativamente lontana, ma come una concreta possibilità di vita o di morte. Gli alunni della civica scuola reale detta «all’Acquedotto» (dal nome della via in cui aveva sede) potevano infatti, in alcuni casi, già vestire la divisa. Quella austro-ungarica, in linea di principio. Ma in quegli studenti la lingua del focolare non poteva considerarsi, a differenza di quanto si riteneva nell’Ottocento fra i contadini di Barcola, un mero strumento di comunicazione: era già un discrimine identitario che ne indicava la nazionalità (Nota 38). Tra gli ex allievi di questa scuola ve n’era stato uno al quale i più arditi potevano guardare come a un modello, e che come tale sarebbe stato indicato dalle nuove autorità, che nel 1923 gli intitolarono la scuola: parliamo di Guglielmo Oberdan, diplomatosi nel 1877, considerato il primo martire della causa irredentista, salito al patibolo nel dicembre 1882 per aver macchinato di attentare alla vita dell’imperatore.

Il 30 ottobre 1918 l’Istituto venne invaso dai nostri allievi accorsi a manifestare i sentimenti generosi, soffocati per tanto tempo nelle loro anime ferventi d’amore per la Gran Madre, a cancellare i segni dell’oppressione obbrobriosa. Tra acclamazione all’Italia ed imprecazioni allo straniero le bandiere giallo-nere furono bruciate, i ritratti imperiali furono spezzati e lanciati dalle finestre.
Il busto dell’impiccatore fu strappato dallo zoccolo e fatto rotolare a calci per la via dell’Acquedotto. E sullo zoccolo che aveva ostentato la faccia odiosa, fu posto un busto di Dante ammantato del tricolore (Nota 39).

Così raccontava sull’annuario del 1918-19 il prof. Ettore Gregoretti. Al defunto Francesco Giuseppe il 17 febbraio 1917 la scuola aveva dedicato un busto. La commissione dell’opera era stata in realtà stabilita prima della morte, nella conferenza degli insegnanti riunita il 3 ottobre 1916, prevedendone l’inaugurazione il 2 dicembre, nel sessantottesimo anniversario della sua ascesa al trono. Uno di quegli anniversari che il comitato sloveno di Barcola usava celebrare con la distribuzione di stivaletti e libri da messa.
L’iniziativa era venuta dal nuovo direttore, il prof. Giuseppe Brumat, subentrato dal 1° ottobre al dimissionario Erminio Suppan, direttore dal 1905, che – così commentava a posteriori Gregoretti - «chiedeva il pensionamento, non volendo, nella sua coscienza d’italiano, farsi più oltre strumento delle odiose imposizioni dei nuovi reggitori del Comune» (Nota 40). Nel maggio di quell’anno erano stati pensionati d’autorità gli insegnanti Rocco Pierobon (Nota 41) – già autore di una storia della scuola dalla quale, sfumata, traspare la passione nazionale italiana – e Anselmo Sardotsch, che poco dopo lo stabilirsi delle autorità italiane chiese di mutare il cognome in Sardo (Nota 42).
Sotto la direzione di Suppan, racconta ancora compiaciuto Gregoretti, si erano verificati tre volte episodi di vandalismo a danno di effigi del sovrano: nel 1907 il ritratto fu forato in una classe e in un’altra gettato nella bacinella d’acqua posta sopra la stufa; nel 1908 esso fu fatto a pezzi e gettato nella latrina. Lo stesso busto inaugurato nel 1917 fu lordato con uno schizzo d’inchiostro. Le cronache di Gregoretti esagerano nella mitopoiesi, intente a rappresentare una scuola che, seppure vessata da autorità occhiute e ostili, non piegava la testa e non arretrava nella difesa della sua italianità: modeste bravate da adolescenti, condotte di nascosto e probabilmente in solitudine o quasi, vengono presentate quasi come atti di insubordinazione all’ordine costituito. Se gli atti degni di nota contro l’odiata casa d’Asburgo, in tanti anni, si limitarono a quei tre, possiamo affermare che la presa di distanza da quel potere avvenne soprattutto durante gli anni della guerra, come le fonti sembrano confermare.
Il commissario imperiale – che all’entrata in guerra dell’Italia aveva assunto le funzioni del Consiglio comunale sciolto d’autorità – barone Krekich-Strassoldo von Treuland (con orrore Gregoretti lo definisce «slavo-italo-tedesco») emanò la seguente circolare che, sebbene perfettamente comprensibile in tempo di guerra, suonò a orecchie italiane come frutto di un governo nemico:

Il sottoscritto invita le direzioni e le dirigenze di tutti gli istituti comunali di provvedere affinché nelle loro scuole regni lo spirito patriottico, affinché i docenti rammentino agli scolari in ogni propizia occasione i loro doveri e l’obbligo di fedeltà verso lo Stato e verso l’Imperatore ed affinché sradichino ogni traccia di idee malsane che eventualmente mali docenti avessero finora inculcate,col cattivo esempio, sia in iscuola che fuori di essa, incoraggiate o col loro comportamento passivo tollerate. Si faccia presente ai docenti che chiunque di loro non ottemperasse scrupolosamente anche a questi suoi doveri d’educatore del cuore della gioventù affidatagli, ne dovrebbe subire le più gravi conseguenze (Nota 43).

Gli ispettori scolastici provinciali Nicolò Ravalico (responsabile per le scuole medie italiane) e Robert Kauer (per le tedesche e per l’insegnamento della lingua tedesca nelle italiane) convocarono, durante le vacanze dell’estate 1914, tutti gli insegnanti delle scuole medie di Trieste i quali, eletto tra loro un comitato, pubblicarono un appello agli studenti perché cooperassero «in tutte le prestazioni di carattere umanitario che la serietà del momento richiedeva». Era il primo atto della mobilitazione patriottica.
Alla scuola reale civica furono in 46, coordinati dal prof. Ernesto Cortivo, a porsi a servizio della Croce Rossa, organizzando «un servizio di staffette e di portatori» e dei corsi di primo soccorso. Altri 26 allievi, invece, sotto la guida di Brumat, avevano formato un «Segretariato del popolo»: ogni giorno quattro studenti, a turni di due ore, si alternavano in una sorta di sportello al pubblico, che forniva indicazioni sullo stato di guerra, sulla possibilità di ricevere sussidi e per la gestione della corrispondenza con i soldati al fronte. Anche se i due gruppi furono sciolti all’inizio dell’anno scolastico 1914-15, gli studenti continuarono la collaborazione con la Croce Rossa e alla fine dell’anno avevano confezionato oltre 113.000 sigarette per i militari, senza contare le raccolte di denaro e di altri materiali (furono recuperati 21 chili di metalli). Gli insegnanti inoltre devolvettero l’1% del loro stipendio al Fondo di soccorso per i disoccupati della città.
L’importanza dell’ora veniva ricordata agli insegnanti dal decreto luogotenenziale del 18 settembre n. VII-1418-14, il quale, riprendendo il dispaccio ministeriale 7 settembre n. 221, faceva presente «esser obbligo di ogni docente di rilevare agli scolari la concordia che si è manifestata […] presso tutte le nazioni dell’impero, fedeli tutte e affezionate alla persona del Monarca; e di far presente agli scolari che in vista dei sacrifizi che richiederà la guerra, essi saranno chiamati prima del tempo normale a entrare nella vita ed a conoscerne la serietà, per cui è necessario che essi adempiano col massimo zelo e con la massima coscienziosità i loro doveri». Tuttavia, primo dovere di uno studente rimaneva, anche in tempo di guerra, lo studio: «Dedicandosi interamente alla scuola essi compiranno la più bella opera patriottica».
Al di là di questa lodevole petizione di principio, tuttavia, erano state emanate anche delle disposizioni per gli studenti richiamati alle armi o per quelli che vi si presentassero volontariamente, lasciando così intendere che sulle priorità dello studio si poteva, per necessità di patria, soprassedere. I volontari venivano immediatamente ammessi agli esami di riparazione e quelli rinviati agli esami in autunno potevano ritentarli anticipatamente. Gli arruolati al servizio militare volontario di un anno – che dovevano di norma sottoporsi a un esame di cultura – erano dispensati dalla prova nella seconda lingua.
A proposito di lingue, fu rafforzata la presenza del tedesco, e l’insegnamento di quella italiana fu epurato per quanto possibile da riferimenti culturali e nazionali, tentando di ridurla – senza ovviamente possibilità di riuscita – a semplice mezzo di comunicazione: fu proibito, a partire dal 1916, lo studio di Carducci, D’Annunzio, Prati, Giusti e Zanella. Nel medesimo anno alla civica scuola reale di Trieste l’insegnamento della calligrafia e quello della ginnastica dovettero essere impartiti in tedesco e a tale secondo incarico vennero designati Sebald Riedel, maestro presso l’i.r. ginnasio superiore statale di Trieste, e Alois Zenker, della scuola reale superiore dello Stato. Entrambi pare non parlassero italiano. Questo provvedimento sembra conseguente a quello adottato dal Ministero del Culto e Istruzione che il 20 ottobre 1914 aveva affidato l’ispezione dell’insegnamento della ginnastica per gli anni 1914-15, 1915-16 e 1916-17 al direttore del ginnasio statale di Marburgo in Stiria (oggi Maribor in Slovenia), Giuseppe Tominsek, ponendo così una materia strategica dal punto di vista della preparazione militare sotto la sorveglianza di personale fidato. Il 15 gennaio 1915, inoltre, il luogotenente aveva invitato gli ispettori scolastici a esortare gli studenti a entrare nel Corpo dei giovani tiratori. Dopo qualche tempo, la direzione dell’istituto – pure affidata all’austriacante Brumat – decise più saggio esonerare Riedel e Zenker, sospendendo l’insegnamento della ginnastica.
Anche i temi d’italiano assegnati alla maturità nella sessione ordinaria dell’estate 1917, tra l’8 e il 12 giugno, cui si sottoposero 33 candidati, testimoniano la scissione fra la lingua d’uso e i contenuti che essa può veicolare. Gli alunni della sezione A dovettero infatti scegliere tra 1) Sapere è potenza: massima ignobile per l’uomo, sublime per l’umanità; 2) Buon cittadino al segno/ dove natura e i primi/ casi ordinar, lo ingegno/ guida così che lui la patria estimi. (Parini); 3) Le vie di comunicazione della Monarchia austro-ungarica. Nessuno ebbe l’ardire di confrontarsi coi settenari del Parini, mentre in cinque scelsero il primo tema e in undici il terzo, decisamente più didascalico. Nella sezione B l’accentuazione patriottica era più netta: 1) In pace ed in guerra co’ miei popoli per la Patria; 2) L’affermazione vittoriosa della tecnica moderna nell’immane guerra mondiale; 3) L’indomita forza d’una nazione sta nella sicura coscienza dei propri valori culturali. Le preferenze dei maturandi furono in questo caso più equilibrate: in cinque scelsero di commentare la massima di Francesco Giuseppe, altrettanti si confrontarono col secondo titolo, quattro col terzo, il quale si presentava come ambiguo, considerata la natura plurinazionale dello Stato, e perciò particolarmente insidioso a svolgersi al di fuori di un panegirico alla casa regnante.
Mentre la scuola veniva svuotata dei suoi contenuti culturali nazionali, alcuni studenti decisero di andarli a cercare di persona sfidando la morte. Partirono volontari vestendo l’uniforme italiana (Nota 44) dodici alunni, cui si devono aggiungere i venti che lo fecero in quanto cittadini italiani. Furono tredici, fra gli ex allievi, coloro che caddero per la parte italiana. Tra i dodici allievi volontari per l’Italia vi era anche tale Pietro Büsch, omonimo di quel Paolo Büsch candidato al magistero, tirocinante, che dal 16 ottobre 1916 smise d’assistere alle lezioni di disegno a mano. L’annuario ne tace il motivo – annota solo che fu sostituito dal 19 dicembre da tale Renato Brill – ma è verosimile che il suo allontanamento fosse legato alla scelta politica di Pietro, che immaginiamo suo parente stretto.
Nell’esercito austro-ungarico presero invece servizio – al momento della pubblicazione dell’annuario del 1916-17 – 57 allievi (23 della VI, 22 della VII, 6 della V, 2 della IV e uno della III), di cui tre quali volontari: Amedeo Corneretto e Guglielmo Zweck della V e Mario Delzotto della VI. Non molti sembrano dunque essere stati i volontari, che evidentemente, date le facilitazioni promesse agli esami, si riteneva sarebbero stati molti di più, ma è da notare come ben due su tre portassero nomi d’indubbia origine italiana, mostrando come origine etnica e identificazione nazionale siano due categorie non sempre sovrapponibili.
Relativamente all’anno 1916-17, l’annuario riporta il richiamo alle armi dei professori Manlio Toniatti e Silvio Battistig. Entrò invece nel corpo insegnante, quale supplente di Michelangelo Dell’Antonio assente per malattia, il giovane Luigi Draghicchio (Nota 45), personaggio che avrebbe fatto una discreta carriera nel dopoguerra, prima – nel periodo di amministrazione provvisoria – quale commissario distrettuale e podestà di Tarvisio, quindi, negli anni Trenta, prima quale assessore provinciale in Istria e poi quale podestà di Pola, città nella quale era nato nel 1890. Era insegnante di tedesco, ma fu proprio per questo, in buona parte, che ottenne l’incarico a Tarvisio (Nota 46), che fino alla guerra era stata parte del distretto carinziano di Villaco. 

Nell’estate del 1916 la civica scuola reale organizzò, in ottemperanza al rescritto luogotenenziale n. VII-498/9 del 20 giugno, dei corsi estivi, di cui dà notizia l’annuario 1916-17. Abbastanza evidenti gli intenti patriottici, ne è un esempio il contributo al «Marinaio di ferro» offerto il 28 luglio, grazie al quale furono raccolte fra la scolaresca 238 corone. Si trattava di una manifestazione a scopi patriottici rivolta ai più giovani assai diffusa in Austria, sulla quale scherza anche Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità, consistente in una raccolta di metallo, da conficcare in un manichino di legno raffigurante un soldato. La civica scuola reale di Trieste piantò nel marinaio due chiodi d’oro, ventisei d’argento e trecento di ferro. Che i corsi estivi fossero stati un successo è lecito dubitare: partiti il 17 luglio e chiusi il 26 agosto, raccolsero l’iscrizione di 441 allievi, pari al 63% degli iscritti alla scuola alla fine delle lezioni ordinarie, ma frequentati poi in media dal 64% di questi (45% relativamente alle gite del giovedì). Da segnalare la messa per Francesco Giuseppe il 1° agosto, a chiederne la salute e «per il conseguimento d’una pace onorata», e la messa del 18 agosto in occasione dell’ottantaseiesimo genetliaco. In quella stessa giornata, al rientro a scuola, lo studente della V C Paolo Morandini tenne un discorso chiuso col canto dell’inno.
Altre attività particolari, indicative della progressiva militarizzazione, svoltesi nel corso dell’anno scolastico, furono i lavori agricoli avviati a partire dal 12 marzo sotto il castello di San Giusto e i cambi d’orario per risparmiare sul riscaldamento: fu data vacanza dal 15 al 24 febbraio 1917 (per cui l’inaugurazione del busto dell’imperatore defunto avvenne a scuola chiusa, quasi a evitare che le celebrazioni si rivelassero al di sotto delle aspettative…) e, dal 27 febbraio al 5 marzo, le lezioni iniziarono alle 9, divise in unità da quaranta minuti, appunto per «economia nella calefazione».
Il fatto che tuttavia, inevitabilmente, più influenzò lo svolgimento delle lezioni fu nel 1916 la morte di Francesco Giuseppe. Quando giunse la notizia, il 22 novembre, le lezioni furono immediatamente interrotte alle 9 (era morto la sera prima a Schönbrunn) e alle finestre della scuola furono issate bandiere nere. Alle 9.30 i professori si riunirono per elaborare un messaggio di cordoglio, subito inviato, con il verbale listato a lutto, alla Luogotenenza «con la preghiera di farsi interprete ai piedi del Trono del desiderio del Corpo insegnante».
Le lezioni furono riprese lunedì 26 novembre dopo tre giorni di lutto, e il 30 novembre furono nuovamente sospese per la celebrazione di una messa di suffragio al termine della quale il direttore tenne un discorso commemorativo riportato nell’annuario. La scuola rimase chiusa anche l’indomani 1° dicembre, quando si tenne un nuovo ufficio divino, con discorso e canto dell’inno in onore del nuovo sovrano Carlo I, il cui ritratto spiccava «fra le bandiere nazionali, quelle degli Stati alleati ed il verde dei lauri». Carlo I visitò Trieste ben due volte nel corso di quell’anno scolastico, il 17 dicembre 1916 e il 2 giugno 1917: nella prima occasione gli alunni (non tutti, ma «spontaneamente con alcuni docenti») lo andarono a salutare sulle rive; alla seconda visita gli omaggi furono organizzati in maniera più solenne, poiché tutti gli allievi della scuola furono schierati in Piazza Grande (oggi dedicata all’Unità d’Italia) davanti al palazzo della Luogotenenza; l’indomani 3 giugno lo stesso omaggio fu dispensato all’imperatrice Zita, che per altro era d’origine italiana, duchessa di Borbone-Parma.
Francesco Giuseppe era qualcosa di più dell’espressione del potere: la sua figura si identificava ormai con l’Austria, che reggeva dall’anno 1848 delle rivoluzioni fallite, una dopo l’altra rientrate sotto lo scudo degli Asburgo, e che nel 1867 aveva rifondato dando avvio alla «duplice monarchia» austro-ungarica con il cosiddetto Ausgleich (Nota 47), il «compromesso» che riconosceva all’Ungheria autonomia in tutto fuorché in materia militare, di politica estera e finanziaria: sul trono da quasi settant’anni, si faticava a ricordare un’epoca antecedente al suo regno.
Il 30 novembre 1916, commemorandone la morte, il direttore prof. Brumat, tra i molti meriti, aveva ricordato quelli scolastici. Il direttore ricordava che l’imperatore ancora bambino – allevato da bambinaie tedesche, ungheresi e boeme – parlava già tre lingue, «quando i Suoi coetanei adoperavano fatica per farsi intendere nella lingua materna». Compiuti i diciassette anni iniziò per lui un vero tirocinio all’arte del regnare, e in pochi anni egli divenne capace «di parlare correntemente, accanto alle lingue di coltura, l’ungherese, lo czeco ed il polacco, e al Suo avvento al trono comprendeva benissimo tutte le lingue [undici] parlate nella Monarchia austro-ungarica». L’imperatore, attraverso la sua cultura linguistica, era specchio del paese che governava, modello al quale guardare in alternativa alle mene nazionalistiche che venivano dal Regno. A un mese dalla scomparsa, il sovrano fu ricordato dal prof. Gino Farolfi con una lezione, ripetuta quattordici volte così da tenerla a tutte le 23 classi dell’istituto (Nota 48), accompagnata dalla proiezione di 58 diapositive.
Fu il 17 febbraio 1917, in occasione dello scoprimento del busto dell’imperatore defunto, che il direttore pronunciò il discorso dai contenuti di più stretta pedagogia patriottica:

Tutte le nazioni della grande Monarchia crebbero sotto la Sua paterna tutela e raggiunsero una floridezza rara negli ultimi decenni. Poterono pure svilupparsi le arti belle e le scienze, e la scuola, che ne è il veicolo naturale, fu da Lui indefessamente studiata e perfezionata, sicché essa seguì di pari passo il progresso generale e andò adattandosi ai nuovi tempi. […] In grazia Sua tutte le nazioni poterono istruirsi nella loro lingua materna non solo nelle scuole popolari, ma pure nelle scuole medie. Queste furono quindi accessibili a tutto il popolo e offrirono la possibilità a poveri e ricchi d’istruirsi e crearsi un posto onorato nell’umana Società.
Sorsero in tal modo innumerevoli gli istituti medi, che prepararono alla gioventù austriaca un futuro quanto mai promettente. Si ebbero valenti giureconsulti, medici, professori, architetti, ingegneri, tecnici ed altri. […] Esso volle pure che i giovani tramandassero alle generazioni future la fiaccola d’amor patrio, le tradizioni gloriose che li univano all’Augusta Casa Regnante. […] Avvenne così che gl’istituti medi serbarono intatto il loro carattere essenziale, che non dovranno mai perdere, cioè d’essere istituti prettamente austriaci.

Questo discorso – ricordiamo – fu tenuto nella scuola chiusa per le vacanze invernali, per risparmiare sul riscaldamento. Un anno e mezzo dopo, con il busto di gesso, tutti questi principi rotolarono via, e il carattere «prettamente austriaco» della scuola improvvisamente divenne «italianissimo».

NOTE:

Nota 1 Archivio centrale dello Stato (ACS), Fondo Luigi Credaro, b. 34, fasc. 21. A quella data Credaro era commissario generale civile per la Venezia Tridentina. Cfr. E. Gori, Scuola di confine. L’istruzione dall’Impero austro-ungarico al Regno d’Italia, nel primo dopoguerra, nell’opera del commissario Luigi Credaro, GoWare, Firenze 2012; M. A. D’Arcangeli, Luigi Credaro e la Rivista Pedagogica (1908-1939), Pioda, Roma 2000. Torna al testo

Nota 2 R. J. B. Bosworth, Italy and the Approach of the First World War. The Making of the 20th Century, St. Martin’s Press, New York 1983; M. Isnenghi, D. Ceschin (a cura di), La Grande Guerra. Dall’intervento alla «vittoria mutilata», UTET, Torino 2008. Torna al testo

Nota 3 C. Gatterer, «Italiani maledetti. Maledetti austriaci». L’inimicizia ereditaria, Praxis 3, Bolzano 1992. Torna al testo

Nota 4 C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987. Torna al testo

Nota 5 A. Agnelli, La genesi dell’idea di Mitteleuropa, MGS Press, Trieste 2005 (I ed. 1975) ne ricostruisce la storia soprattutto in termini economici e culturali. «La parola Mitteleuropa è un chewing-gum, dal significato malleabile e plasmabile a piacere; indica un concetto e un territorio dai confini incerti, mutevoli nello spazio e ancor più nel tempo e più cangianti ancora a seconda della prospettiva o dell’ideologia di chi pronuncia quella parola» (C. Magris, La Mitteleuropa di Arduino Agnelli, p. 7, prefazione). Torna al testo

Nota 6 R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005. Torna al testo

Nota 7 P. Guichonnet, C. Raffestin, Géographie des frontières, Presses universitaires de France, Paris 1974, p. 20. Torna al testo

Nota 8 S. Salvatici (a cura di), Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2005, p. 13. Torna al testo

Nota 9 F. Caputo, R. Masiero, Trieste e l’Impero. La formazione di una città europea, Marsilio, Venezia 1988. Torna al testo

Nota 10 Cfr. G. Luzzatto, Il porto di Trieste, Roma 1945, p. 21. Torna al testo

Nota 11 G. Panjek, Le conseguenze economiche e sociali della guerra nell’area giuliana, in A. Moioli (a cura di), Commissione parlamentare d’inchiesta sulle terre liberate e redente (luglio 1920 – giugno 1922), vol. I: Saggi e strumenti di analisi, Camera dei Deputati – Archivio storico, Roma 1991, pp. 355-444. Vedi anche F. Babudieri, Industria, commerci e navigazione a Trieste e nella regione Giulia dall’inizio del Settecento ai primi anni del Novecento, Giuffrè, Milano 1982; L. Cerasi, R. Petri, S. Petrungaro, Porti di frontiera. Industria e commercio a Trieste, Fiume e Pola tra le guerre mondiali, Viella, Roma 2008. Torna al testo

Nota 12 Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006, il Mulino, Bologna 2007. Torna al testo

Nota 13 E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Laterza, Bari 1966, p. 29. Torna al testo

Nota 14 A. Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare italiano nella Venezia Giulia 1918-19, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2000; A. Ara, Ricerche sugli austro-italiani e l’ultima Austria, Elia, Roma 1984; Id., Fra Austria e Italia. Dalle Cinque giornate alla questione alto-atesina, Del Bianco, Udine 1987; U. Corsini, Die Italiener, in A. Wandruszka, P. Urbanitsch (Hrsg.), Die Habsburgermonarchie 1848-1918, vol. III, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1980, pp. 839-879; F. Valsecchi, A. Wandruszka (a cura di), Austria e province italiane 1815-1918. Potere centrale e amministrazioni locali, il Mulino, Bologna 1981; A. Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini. Venezia Giulia 1918-1922, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001; E. Capuzzo, Dal nesso asburgico alla sovranità italiana. Legislazione e amministrazione a Trento e Trieste (1918-1928), Giuffrè, Milano 1992. Si vedano anche le memorie del commissario generale civile per la Venezia Giulia Antonio Mosconi, I primi anni di governo italiano nella Venezia Giulia. Trieste 1919-1922, Cappelli, Bologna 1924. Fondamentale riflessione sull’Italia del primo dopoguerra a partire dall’acquisizione delle due Venezie ex asburgiche D. I. Rusinow, L’Italia e l’eredità austriaca 1919-1946, La Musa Talia, Venezia 2010 (ed. or. 1969). Torna al testo

Nota 15 M. Cattaruzza, Sloveni e italiani a Trieste. La formazione dell’identità nazionale, ESI, Napoli 1989; Ead. (a cura di), Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale, 1850-1950, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003; R. Wörsdörfer, Krisenherd Adria 1915-1955. Konstruktion und Artikulation des Nationalen im italienischjugoslawischen Grenzraum, Schöningh, Padeborn-München-Wien-Zürich 2004. Torna al testo

Nota 16 Trieste era «incapace, da sola, di costruire le vie di un imperialismo economico di stampo nuovo» constata A. M. Vinci, Il fascismo al confine orientale, in R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni della’Unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, Einaudi, Torino 2002, p. 412. Torna al testo

Nota 17 Per una visione d’insieme: Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino 2009. Torna al testo

Nota 18 Cfr. L. Della Venezia Sala, La scuola triestina dall’Austria all’Italia (1918-1922) in G. Cervani (a cura di), Il movimento nazionale a Trieste nella prima guerra mondiale, Del Bianco, Udine 1968; A. Andri, La scuola giuliana e friulana tra Austria ed Italia in G. Valdevit (a cura di), Friuli e Venezia Giulia. Storia del ‘900, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1997, pp. 205-217; A. Andri, G. Mellinato, Scuola e confine. Le istituzioni educative della Venezia Giulia 1915-1945, Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 1994; FNISM, Contributi per una storia delle istituzioni scolastiche a Trieste, Italo Svevo, Trieste 1968. Torna al testo

Nota 19 G. Hofer, Sviluppi e orientamenti della scuola secondaria nel Litorale austriaco tra XIX e XX secolo, in «Quaderni Giuliani di Storia», XVIII, 1 (1997), pp. 9-53. Torna al testo

Nota 20 E. P. Thompson, History from Below, in «The Times Literary Supplement», 7 (aprile 1966), pp. 279-80; F. Krantz (ed.), History from Below: Studies in Popular Protest and Popular Ideology, Blackwell, Oxford 1988. Torna al testo

Nota 21 Sulla scelta della scuola da parte delle famiglie, cfr. V. Caporrella, Strategie educative dei ceti medi italiani a Trieste tra la fine del XIX sec. e il 1914, tesi di dottorato, Bologna-Berlin 2009. Torna al testo

Nota 22 R. Wohl, 1914. Storia di una generazione, Jaca Book, Milano 1983. Torna al testo

Nota 23 F. Zubini, Barcola, Italo Svevo, Trieste 1995. Torna al testo

Nota 24 Le informazioni sono state raccolte all’Archivio di Stato di Trieste (AST), Fondo scuola di  Barcola. Cfr. F. Cecotti, G. Mellinato (a cura di), Archivi e fonti per la storia delle istituzioni educative giuliane, «Qualestoria», 1 (2001); La lavagna nera. Le fonti per la storia dell’istruzione nel Friuli-Venezia Giulia. Atti del convegno. Trieste-Udine 24/25 novembre 1995, Tipografia Stella, Trieste 1996. Torna al testo

Nota 25 Cfr. per il Trentino Q. Antonelli, Blocco notes di un maestro di campagna, L’Editore, Trento 1989. Torna al testo

Nota 26 H. Engelbrecht, Geschichte des österreichischen Bildungswesens. Erziehung und Unterricht auf dem Boden Österreichs. Band IV: Von 1848 bis zum Ende der Monarchie, Österreichischer Bundesverlag, Wien 1986; Ch. Donnermair, Die staatliche Übernahme des Primarschulwesens im 19. Jahrhundert. Massnahmen und Intentionen. Vergleich Frankreich-Österreich, tesi di laurea, Universität Wien 2010. Torna al testo

Nota 27 Alcune note su questi concetti in B. Mazohl, Il Sacro Romano Impero e l’Austria. La trasformazione del concetto d’Impero a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in B. Mazohl, P. Pombeni (a cura di), Minoranze negli imperi. Popoli fra identità nazionale e ideologia imperiale, il Mulino, Bologna 2012, pp. 59-92; F. Fellner, L’imperatore Francesco Giuseppe, in M. Bellabarba, B. Mazohl, R. Stauber, M. Verga (a cura di), Gli imperi dopo l’Impero nell’Europa del XIX secolo, il Mulino, Bologna 2008, pp. 347-359. Torna al testo

Nota 28 Cfr. S. Polenghi (a cura di), La scuola degli Asburgo. Pedagogia e formazione degli insegnanti tra il Danubio e il Po (1773-1918), SEI, Torino 2012; H. Engelbrecht, Geschichte des österreichischen Bildungswesens. Erziehung und Unterricht auf dem Boden Österreichs. Band III: Von der frühen Aufklärung bis zum Vormärz, Österreichischer Bundesverlag, Wien 1984; G. Grimm, Die Schulreform Maria Theresias 1747-1775. Das österreichische Gymnasium zwischen Standesschule und allgemenbildender Lehranstalt im Spannungspädagogik, Lang, Frankfurt am Main 1987; F. P. Hager, D. Jedan (Hrsg.), Staat und Erziehung in Aufklärungsphilosophie und Aufklärungszeit, Winkler, Bochum 1993. Torna al testo

Nota 29 Si noti: non dal Consiglio comunale. Cfr. L. Ferrari, Le chiese e l'emporio, in R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni della’Unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, cit., pp. 237-288. Torna al testo

Nota 30 Cfr. D. De Rosa, Libro di scorno, libro d’onore. La scuola elementare triestina durante l’amministrazione austriaca (1761-1918), Del Bianco, Udine 1991. Torna al testo

Nota 31 Un’ampia disamina in Uno sguardo ai codici dell’istruzione elementare, in «Diritti e doveri», luglio 1919, p. 74 ss. Torna al testo

Nota 32 È di questo pare lo stesso G. Ferretti, dal 1919 al 1922 responsabile scolastico dell’Ufficio centrale per le Nuove Province: cfr. G. Ferretti, La scuola nelle terre redente, Vallecchi, Firenze 1923, p. 23. Per le innovazioni successive vedi: D. Bonamore, Disciplina giuridica delle istituzioni scolastiche a Trieste e Gorizia. Dalla monarchia A-U al GMA e dal Memorandum di Londra al Trattato di Osimo, Giuffrè, Milano 1979; Commissariato generale civile per la Venezia Giulia, Raccolta delle ordinanze e circolari emanate dalle autorità militari e civili italiane per il riordinamento scolastico della Venezia Giulia, giugno 1915-marzo 1920, Stabilimento tipografico Herrmansdorfer, Trieste 1920; per la riforma Gentile: M. Graziussi, La sistemazione delle scuole dell’ex impero austroungarico, in Ministero dell’Educazione Nazionale, Dalla riforma Gentile alla Carta della Scuola, Vallecchi, Firenze s.a., pp. 195-204. Cfr. A. Grussu, Società, educazione e minoranze nazionali al confine orientale tra regime liberale e fascismo, tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Messina, 2005. Torna al testo

Nota 33 Interessante a questo proposito la pubblicazione a cura di G. Mellinato dei diari dell’ispettore distrettuale di Capodistria G. Vatova, La scuola in Istria all’inizio del Novecento. Documenti, Italo Svevo, Trieste 1997. Torna al testo

Nota 34 AST, Scuola di Barcola, b. 1, 10 ottobre 1880. Torna al testo

Nota 35 I. Giani, Quando papà andava al cantiere. Le civiche scuole infantili di Trieste. Storia ed evoluzione dal primo sviluppo industriale ai giorni nostri, Lint, Trieste 2002. Cfr. D. De Rosa, Gocce di inchiostro. Gli asili, scuole, ricreatori doposcuola della Lega Nazionale Sezione adriatica, Del Bianco, Udine 2000. Torna al testo

Nota 36 S. Benvenuti, «È mission di questa Lega d’istruir la nostra prole». La politica scolastica della Pro Patria e della Lega Nazionale, in Q. Antonelli (a cura di), A scuola! A scuola! Popolazione e istruzione dell’obbligo in una regione dell’area alpina. Secc. XVIII-XX, Museo storico in Trento, Trento 2001, pp. 93-108. Torna al testo

Nota 37 L. Fabi, Trieste 1914-1918. Una città in guerra, MGS Press, Trieste 1996: alle pagine 109-121 tratta ampiamente del caso della scuola popolare del rione operaio di San Giacomo, ripreso in M. Isnenghi, Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 291-294. Torna al testo

Nota 38 Cfr. U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma 1998 e il celebre B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 1996; sul tema dei nazionalismi si rimanda ai classici E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori riuniti, Roma 1985; E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino 1991; E. J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino 1987; G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1923), il Mulino, Bologna 1975. Torna al testo

Nota 39 E. Gregoretti, La civica scuola reale all’Acquedotto (1862-1918), annuario 1918-19, pp. 18-19. Torna al testo

Nota 40 Ivi, pp. 16-17. Torna al testo

Nota 41 R. Pierobon, Sull’istruzione tecnica a Trieste, Caprin, Trieste 1912. Torna al testo

Nota 42 Cfr. «L’Osservatore triestino», 9 settembre 1919. Torna al testo

Nota 43 Riportata in E. Gregoretti, La civica scuola reale, cit., p. 14. Torna al testo

Nota 44 P. Dogliani, G. Pécout, A. Quercioli, La scelta della Patria. Giovani volontari della Grande Guerra, Museo storico italiano della Guerra, Rovereto (TN) 2006; F. Todero, Morire per la patria. I volontari del «Litorale Austriaco» nella Grande Guerra, Gaspari, Udine 2005; A. Riosa, Adriatico irredento, Guida, Napoli 2009. Torna al testo

Nota 45 Cfr. la voce a cura di S. Cella in Dizionario biografico degli italiani, vol. 41, Istituto dell’enciclopedia italiana, Roma, 1992. Torna al testo

Nota 46 Vedi ACS, Presidenza del consiglio dei ministri (PCM) – Ufficio centrale per le Nuove Provincie, b. 156. Torna al testo

Nota 47 Forschungsinstitut für den Donauraum, Wien (Hrsg.), Gesamtred. P Berger, Der österreichisch-ungarische Ausgleich von 1867. Vorgeschichte und Wirkungen, Herold, Wien-München 1967. Torna al testo

Nota 48 Nei giorni 5, 7, 10, 12, 14, 17 e 19 dicembre. Torna al testo

 

 

Questo saggio si cita: A. Dessardo, Dentro e fuori d'Italia. Processi di nazionalizzazione e prima guerra mondiale in due scuole di Trieste, in «Percorsi Storici», 2 (2014)

 

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