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Stefano Pivato, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, il Mulino, Bologna 2013, pp. 184
(Luciano Casali)
«D'accordo, non mangiamo più i bambini ma le bambine sì!»
Così titolava a piena pagina, in maniera palesemente auto-ironica, «Cuore», supplemento de «l’Unità», il 20 novembre 1989. Ma si trattava di una ironia che, evidentemente, non è stata colta da Silvio Berlusconi, profondamente convinto che i comunisti continuino bellamente ad esercitare attività antropofaghe pure nel XXI secolo, tanto è vero che, nel marzo 2006, nel corso di un comizio tenuto a Napoli, affermava che, in Cina, esiste la particolarità culinaria di… bollire i bambini, cucinarli a lesso. Con tale affermazione provocava una reazione immediata di protesta da parte della Repubblica popolare cinese e rendeva necessario un intervento riparatore e di scuse della Farnesina, dal momento che Berlusconi era, in quel momento, presidente del Consiglio dei ministri (Nota 1). Il paradosso è — come scrive Stefano Pivato — che
per quanto l’accusa di mangiare i bambini sia circolata almeno dagli anni Venti del Novecento, l'unico uomo politico a utilizzarla nei comizi e sulla stampa in maniera esplicita è il fondatore di Forza Italia. Oltretutto l'uso del tempo presente, (…) la rende attuale agli occhi dell'opinione pubblica. Fino a far credere che artefici (o complici) ne siano gli stessi comunisti italiani ormai inesistenti (Pivato, p. 20).
D’altra parte i quotidiani vicini a Berlusconi hanno stampato ripetutamente affermazioni che “provavano” tali gusti alimentari dei comunisti, anche italiani; basta vedere «il Giornale» del 18 ottobre 2009 e «Libero» dell’11 ottobre 2011 e del 23 gennaio 2013.
Ma è accaduto che, in qualche particolare occasione, i comunisti abbiano veramente mangiato bambini, o comunque carne umana?
Torneremo poi su questa domanda, seguendo le annotazioni che Pivato stesso ci offre.
Per ora, vogliamo ricordare che, come è noto, quando si “costruisce” un nemico, politico o sociale, non è strettamente necessario che esso sia portatore di quei caratteri negativi che gli vengono attribuiti; ciò che importa è che gli vengano attribuiti caratteri negativi assolutamente credibili e tali da caratterizzarlo fortemente. Nella propaganda antisemita non era necessario che gli ebrei, contro cui si predicava e si agiva, fossero realmente capitalisti, inaffidabili, taccagni e comunisti. Ciò che conta è che fu possibile dare vita a una opinione pubblica che tali li riteneva e che quindi era d’accordo sulla necessità di eliminarli. È dunque indispensabile costruire un paradigma ideologico che renda possibile la stigmatizzazione e l’annichilimento del nemico, con assoluta indipendenza dal modo specifico in cui si plasma e dalle categorie che si usano per identificarlo. Ciò è valso per i comunisti per tutto il XX secolo non diversamente da quanto fu fatto per gli ebrei in funzione della “soluzione finale” (Nota 2). Come già aveva sottolineato Marc Bloch, una leggenda si amplifica e vive alla condizione di trovare, nella società in cui si diffonde, «un brodo di coltura favorevole» attraverso il quale «gli uomini esprimono inconsciamente i propri pregiudizi, odi e timori, cioè tutte le loro forti emozioni» (Nota 3).
Quando, all’indomani della Seconda guerra mondiale, diverse migliaia di bambini meridionali furono trasferiti dalle affamate regioni del Sud dell’Italia in alcune province emiliane e romagnole, le madri dei bambini erano veramente convinte che mandare i loro piccoli nelle province rosse del Nord era estremamente “pericoloso”. I sacerdoti ebbero buon gioco nel predicare, anche dagli altari, che quei bambini non sarebbero più tornati a casa loro, ma sarebbero stati spediti nella lontana Unione Sovietica o mangiati direttamente, se non addirittura «fatti a pezzi e messi in scatola» (Pivato, p. 137).
Nel corso della campagna elettorale del 1948, per i cattolici e per la Democrazia cristiana i comunisti e il Partito comunista italiani non erano un “semplice” avversario politico da sconfiggere elettoralmente, ma un vero e proprio nemico da distruggere. È sufficiente scorrere alcuni manifesti di quella campagna elettorale per rendercene conto. D’altra parte, comunismo e ebraismo costituiscono una unica categoria; come gli ebrei erano stati tradizionalmente accusati di sacrifici rituali, lo stesso avveniva per il comunismo:
Secondo una semplicistica equazione in base alla quale l'ibrida personificazione della bestia plutocratica bolscevica non è il tartaro, il mongolo, lo slavo, ma l'ebreo, l'opinione pubblica e la psicologia popolare sono condotte ad assimilare ebraismo e comunismo: l'antico pregiudizio sui sacrifici rituali transita dal mondo ebraico a quello comunista. In una diffusa semplificazione in base alla quale ebreo diviene sinonimo di comunista, l'accusa di sacrificare gli infanti cristiani finisce per alimentare la leggenda dei comunisti che mangiano i bambini (Pivato, p. 76).
I comunisti, dunque, non sono esseri umani, ma mostri, “orchi” o lupi mannari che divorano l’infanzia; pelosi e con le corna (quindi identificati con il diavolo stesso): spalancano eternamente le loro fauci «per soddisfare la perenne propensione al cannibalismo nei confronti dell’infanzia» (Pivato, p. 168). L’orco comunista — a volte trinariciuto, come insegnò e disegnò Giovannino Guareschi — è dunque rappresentato in immagini che richiamano con tutta evidenza l’effigie di Stalin e il cannibalismo comunista è spesso rappresentato attraverso una vera e propria deportazione dei bambini in Unione Sovietica, la patria del comunismo, ma anche il primo Paese in cui si cominciò a mangiare bambini.
Tornando, dunque, al trasferimento dei bambini dal Sud al Nord dell’Italia nel secondo dopoguerra, non a caso i ragazzini, giungendo in Romagna e ascoltando «lo strano dialetto delle donne che li accolsero, all’inizio credettero di essere arrivati in Russia». Di essere cioè stati deportati là dove «c’erano i comunisti che mangiavano i bambini» (Pivato, p. 141).
Non sarebbe stata la prima volta che i bambini venivano inviati a Mosca. Era accaduto fra il 1937 e il 1938, quando circa tremila ragazzini (ma la propaganda franchista e fascista dichiarò che erano almeno centomila…), in quattro spedizioni successive, erano stati imbarcati dalla Spagna, sottoposta alla guerra civile, alla volta dell’Unione Sovietica, dove avevano trovato ospitalità nelle Casas infantiles para niños españoles. La loro permanenza in Urss era durata a lungo, a causa della infinita durata della dittatura franchista e della mancanza di rapporti diplomatici fra i due Paesi. Né va dimenticato che, essendo per lo più figli di soldati repubblicani, poteva essere “pericoloso” farli tornare in Spagna, dove sarebbero stati quasi certamente sottoposti a rappresaglie. Nel 2005 erano ancora 239 coloro che non erano rientrati, dal momento che oramai si erano stabilmente inseriti nella vita civile del Paese ospite (Nota 4). Tuttavia la propaganda falangista non aveva esitato a divulgare la notizia che la maggior parte di quanti erano andati a Moscú erano morti di fame e di stenti. La vicenda dei niños de Rusia avrebbe costituito «il punto di riferimento sul quale imbastire narrazioni sui comunisti rapitori di bambini» (Pivato, p. 83).
Se dalla Spagna le partenze erano realmente avvenute, non così fu per l’Italia:
Pochi mesi dopo 1'8 settembre 1943 la propaganda nazifascista allestisce una campagna di informazione che per mesi tiene sospeso il fiato degli italiani costruendo una serie di false notizie sulle deportazioni di bambini in Unione Sovietica. Qualche giornale si limita a riportare la cronaca, magari commentandola, mentre altri fogli arricchiscono gli eventi di nuovi particolari attribuendoli a fantomatiche fonti neutrali o ad agenzie estere. (Pivato, p. 100)
Non è difficile immaginare il panico diffuso da quelle false notizie, al cui centro stava l’infanzia dell’Italia meridionale che veniva minacciata di deportazione. Coinvolgere l’infanzia innocente e inventare una deportazione, dal Sud, controllato dagli Alleati, verso un Paese in cui (affermava la propaganda) regnavano fame, povertà e terrore avrebbe potuto essere una mossa di indubbio impatto emotivo e sarebbe probabilmente stata utile ad incentivare, nel Nord, le adesioni nei confronti della Repubblica sociale italiana e la disaffezione verso il Regno del Sud e i “traditori”, Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio. Secondo la stampa di Salò, «scene di disperazione e di dolore di genitori che vedono i loro figli partire riempivano le cronache dei giornali»; in tutto il Sud «i genitori si opponevano al sequestro dei figli fino all’estremo sacrificio della vita». Del resto, erano gli stessi soldati statunitensi che sequestravano i bambini e li consegnavano «ai bolscevichi», loro alleati, per imbarcarli sui piroscafi diretti all’Urss (Pivato, p. 87). Se, su un piano generale, l’inventata deportazione era diretta ad aumentare — o creare — l’avversione nei confronti degli Alleati, su quello particolare alimentava «la leggenda sui comunisti che mangiano i bambini: gli esecutori degli ordini di Stalin sono i divoratori dell’infanzia» (p. 101).
Nella sua ampia e documentata ricerca sulle origini e il consolidamento della leggenda relativa al fatto che i comunisti mangino bambini, Stefano Pivato giunge così alla conclusione che è possibile, anche per l’uomo contemporaneo, «elaborare proiezioni mitopoietiche che si credevano relegate in un passato remoto e arcaico; con la differenza che in età contemporanea le leggende hanno, grazie allo sviluppo dei mezzi di informazione, una capacità di espansione molto più elevata che in passato» (p. 163).
Ha perciò una importanza relativa il fatto che, dalla metà del 1920, in coincidenza con una disastrosa carestia che provocò milioni di morti, nella Russia si giunse a mangiare non solo cani, gatti, sorci, ma anche cortecce di alberi, erba, ghiande, eccetera. E filtrarono anche notizie della uccisione di bambini, della «vendita al mercato di costolette umane» e che «i fanciulli morti venivano fatti a pezzi e messi nella pentola» (Pivato, pp. 41-42). La storia della antropofagia che attraversa le carestie nella Russia dopo la rivoluzione comunista — per quanto materia sfuggente a ogni rilevazione statistica — rivela così un ventaglio nel quale «i casi reali si sovrappongono a racconti fantastici che contribuiscono a creare la leggenda» di una alimentazione comunista basata sulla carne dei bambini (Pivato, p. 53).
Vero o falso che sia stato, il fatto diventa un elemento fondante della propaganda anticomunista e della necessità di “tagliare i tentacoli” della piovra comunista che tentava di espandersi in tutto il mondo, non come una nuova ideologia politica, ma come un nuovo modo di vivere di cui era componente fondamentale la alimentazione di carne umana.
Il fatto che Silvio Berlusconi, estremamente attento alla propaganda e agli elementi retorici che meglio possono servire a conquistare il consenso, a quasi un secolo dalla nascita della leggenda, continui a farne elemento centrale nei suoi comizi, indica quanto la leggenda che i comunisti mangino i bambini sia stata radicata e fatta propria nella mentalità della destra italiana; e non solo.
NOTE
Nota 1 «Bambini bolliti», la Cina protesta, in «il Corriere della Sera», 29 marzo 2006. Torna al testo
Nota 2 B. Kiernam, Blood and soil. A word history of genocide and extermination from Sparta to Darfur, New Haven, Yale University Press, 2007; A. Mayer, Why did the Heavens not Darken. The “Final Solution” in History, New York, Pantheon, 1988. Torna al testo
Nota 3 M. Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi 1914-1915 e riflessioni 1921, Roma, Donzelli, 1994. Torna al testo
Nota 4 Sulla vicenda, cfr. Los niños de la guerra de España en la Unión Soviética. De la evacuación al retorno 1937-1999, Madrid, Fundación Largo Caballero, 1999. Torna al testo
Agostino Giordano
Bologna. La strage del 2 agosto on line: alcune tracce
La strage alla stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980 per opera del terrorismo fascista in collusione con apparati deviati dello Stato, è senza dubbio un evento che ha sconvolto e traumatizzato non solo la società italiana, ma anche quella internazionale.
Storia e memoria sono fattori imprescindibili per un Paese che vuol considerarsi democratico, civile e moderno. Un episodio gravissimo come quello del 2 agosto, che ha immediatamente assunto una dimensione globale (andando ben oltre la sfera locale e nazionale), occorre dunque che sia raccontato, comunicato, trasmesso e tramandato considerandolo globalmente e trasversalmente, nella sua complessità e senza prescindere dalla sua drammaticità: una bomba che ha causato 85 morti e oltre 200 feriti in un luogo pubblico, nevralgico e simbolico come una stazione ferroviaria, tra l’altro uno dei principali snodi delle tratte italiane.
Le vittime non furono solo italiane, ma, come ci ricorda Paolo Bolognesi – il Presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage del 2 agosto – morirono anche giapponesi, svizzeri e olandesi. Non solo per la provenienza delle vittime, l’impatto della strage ebbe ricadute internazionali:«La notizia raggiunse ogni angolo del mondo. Arrivò nelle più remote località di vacanza e nelle isole più lontane lasciando segni indelebili» [2 agosto 1980. Dov'eri? / a cura di Massimiliano Boschi e Cinzia Venturoli. - Bologna: Pendragon, 2004 (In testa al front.: Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna 2 agosto 1980; Centro di documentazione storico-politica sullo stragismo), pag. 5].
Se si volesse condurre una ricerca dettagliata sulle fonti, non si potrebbe prescindere dall’archivio del Centro di documentazione storico-politica sullo stragismo (Cedost) che ha sede a Bologna e le cui coordinate sono ottimamente consultabili sulla guida on line degli archivi bolognesi all’indirizzo http://www.cittadegliarchivi.it/fondi. Inserendo la parola “Cedost” nel motore di ricerca è possibile visualizzare l’organizzazione e la suddivisione dell’archivio, in modo da individuare subito e comodamente, per quanto riguarda l’intera tematica dello stragismo italiano, ciò che serve o può essere utile, con la relativa collocazione: rassegna stampa, inchieste giudiziarie, inchieste parlamentari, etc…). Al netto, ovviamente, del segreto di stato, degli occultamenti dovuti ai vari depistaggi, per quanto riguarda la strage del 2 agosto, c’è materiale consistente, ben organizzato e ben gestito. Il segreto di stato sulla strage di Bologna, che è stato recentemente rimosso come per diversi altri attentati avvenuti in Italia, infatti ha rappresentato l'ostacolo principale non solo per la ricerca di “verità e giustizia”, ma anche per il reperimento di fonti e documenti necessari per una corretta ricostruzione storico-memoriale. Non è possibile infatti ottenere un completo sapere storiografico su un evento simile, basandosi soltanto sugli atti processuali che negli anni scorsi sono stati resi pubblici. È necessaria tutta la documentazione che è stata utilizzata per le indagini, nonché quella disponibile che è stata occultata o, più o meno volutamente, ignorata. Non era ovviamente possibile fare ciò con una legge che sanciva il segreto di stato. Una volta rimosso, la speranza è che si possa arrivare a breve ad avere un quadro più nitido e si possa allargare il raggio delle colpe, delle responsabilità, delle connivenze, degli intrecci e dei legami, in maniera più netta e precisa. Anche se, con troppi anni ormai passati, c'è il rischio concreto che molta documentazione utile possa essere stata definitivamente distrutta.
Chi invece volesse informarsi sulla strage del 2 agosto senza ricorrere direttamente alle fonti documentarie, può rivolgersi alla via telematica, un terreno decisivo ai fini della lettura e l’interpretazione di un evento di dimensioni spropositate e globalmente traumatico. Per questo è importante poter trovare in rete, senza particolari ostacoli, informazioni corrette e dati precisi sull'argomento. Per capire sommariamente come in Italia sia possibile accedere on line alle fonti e alle informazioni sulla strage del 2 agosto, prendiamo come riferimenti, in questa sede, tre siti – fra quelli che si occupano della vicenda – che ho ritenuto essere i più significativi. Due siti specifici dedicati peculiarmente alla strage (http://www.stragi.it/ e http://dueagosto.tumblr.com/) e un altro che ospita l’argomento nell’ambito di una sezione intitolata “percorsi tematici”(http://www.italia-resistenza.it/percorsi-tematici/italia-repubblicana/la-strage-di-bologna/).
http://www.stragi.it/ è il sito dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Sicuramente è il portale più completo e affidabile per trovare notizie corrette e precise in merito all’evento. Sulla Home sono immediatamente visibili e raggiungibili le 4 principali sezioni in cui è suddiviso il sito, che offrono la possibilità all’utente di avere un quadro chiaro e sintetico sull’accaduto e su coloro che forniscono le informazioni.
Sul sito si trova infatti la descrizione e la storia dell'associazione, una sintesi esaustiva della strage, tutti i nomi delle vittime – attraverso i quali, tramite un link per ciascun nome – è possibile visualizzare una breve biografia corredata di una foto.
Per chi fosse intenzionato ad approfondire l'argomento è disponibile una sezione molto dettagliata e curata in cui viene ricostruita la vicenda dal punto di vista politico-giudiziario. Questa parte è ricca di link che consentono di accedere a svariata documentazione utile per chiarire molti aspetti complessi, articolati e contraddittori, di un tragico episodio che, come sappiamo ormai da troppi anni, è denso di punti oscuri, lacune e, soprattutto, ancora oggi – nonostante importanti passi in avanti – necessita di verità e giustizia a tutto tondo.
Allo stesso tempo, nella sottosezione “Documenti”, è possibile prendere visione di una parte consistente di materiale indispensabile per avere un quadro dell'evento, il più ampio, preciso e completo possibile: dalle sentenze che hanno caratterizzato l'iter processuale, a quelle sui depistaggi, dagli atti e gli interventi politico-istituzionali alla documentazione sulla destra eversiva e la loggia massonica P2.
Interessanti, abbastanza ricchi di documenti, nonché molto funzionali ad una virtuosa dinamica storico-comunicativa, gli archivi audio, video e fotografico consultabili direttamente sul sito.
Questo sito potrebbe e dovrebbe essere maggiormente conosciuto e fruito, anche a livello internazionale. Ci sono infatti alcune criticità che ne ostacolano l'utilizzo e un immediato riscontro in rete. Infatti, ad esempio, l'indirizzo url non è immediatamente riconducibile e collegato all'evento. Il titolo “www.stragi.it”, potrebbe essere fuorviante, mentre un indirizzo caratterizzato da una o più parole maggiormente circoscritte alla tematica specifica, risulterebbe più funzionale. Soprattutto quando si ha la possibilità di evocare con efficacia una dimensione simbolica forte, servendosi di termini che sono già ampiamente acquisiti a livello di massa (anche se pur spesso erroneamente): “Bologna 2 agosto”, “Strage stazione di Bologna”, “Strage 2 agosto”, “2 agosto”, etc...
Inoltre, una veste grafica più dinamica e accattivante, la possibilità di avere una traduzione in più lingue dei documenti ospitati (almeno di quelli più importanti e significativi), nonché un incremento innovativo della componente multimediale, garantirebbero indubbiamente un salto di qualità a questo importante e autorevole portale, soprattutto per quanto concerne l'efficacia comunicativa.
http://dueagosto.tumblr.com/ è un sito nato da un'iniziativa del Comune di Bologna, la cui finalità è stata quella di raccogliere, a partire dall'agosto del 2012 (in occasione del trentaduesimo anniversario), una serie di testimonianze in merito alla strage del 2 agosto, formulate attraverso i social network facebook e twitter, dopo che in rete era stato lanciato, l'anno precedente, l'hashtag #ioricordo. Nella sezione “archivio post” è possibile dunque visualizzare brevi racconti, video, foto – raccolti fino all'agosto dello scorso anno – che non solo testimoniano lo stato d'animo e le considerazioni di tanti nel giorno della strage, ma fanno conoscere all'utente anche diverse interpretazioni e punti di vista di molti che ne hanno soltanto sentito parlare o, addirittura, sono nati dopo il tragico evento.
In questo caso, la presenza delle parole “due agosto” nell'indirizzo favorisce la possibilità di riscontrare con facilità il sito nei motori di ricerca telematici, anche se non è un url classico (preceduto da www.) e, sempre nell'indirizzo, è presente il nome della piattaforma web che ospita il sito (tumblr.com). Anche per quanto riguarda questo portale si possono osservare le medesime criticità in riferimento alla veste grafica, la componente multimediale e la traduzione linguistica: se questi elementi fossero potenziati, il sito sicuramente ne trarrebbe vantaggio, specie su un piano comunicativo, così come sarebbero più attratti gli utenti interessati. Non è un sito che ha la pretesa di proporre una ricostruzione scientifica della vicenda, ma che si pone l'obiettivo di contribuire alla realizzazione di “una memoria condivisa” sulla strage, attraverso le interpretazioni emotive che continuano a sussistere a oltre trent'anni di distanza.
http://www.italia-resistenza.it/percorsi-tematici/italia-repubblicana/la-strage-di-bologna/ è invece un percorso tematico sulla strage ospitato dal portale della rete degli Istituti per la Storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia.
In questo percorso tematico è forte l'ancoraggio al “filo rosso” della memoria antifascista ed è tangibile quasi con mano la drammatica continuità con le tragedie avvenute in periodo resistenziale e durante l'occupazione nazista.
Per raccontate la strage alla stazione di Bologna si parte dal 9 maggio, che purtroppo pochi sanno essere – in base a una legge del 2007 – il “giorno della memoria”, dedicato “alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”.
Nell'ambito del percorso è possibile visualizzare gli elementi e i documenti essenziali per avere un quadro preciso e rigoroso sull'argomento. Nella sottosezione “per saperne di più”, sono fra l'altro segnalati alcuni importanti testi storico-letterari, utili per una comprensione più completa dell'evento, del contesto e della vicenda politico-giudiziaria. Sono anche proposti percorsi didattici di “costruzione della memoria pubblica” riferita alla strage. La scientificità e l'affidabilità di questo percorso tematico è garantita dal fatto che sia stato curato da Cinzia Venturoli e dal Cedost.
Anche in questo caso valgono le stesse criticità evidenziate per i due precedenti siti.
Per quanto riguarda invece esclusivamente i social network, se su twitter si fatica a trovare un profilo che specificatamente propone la tematica “2 agosto” (mentre diffusi sono gli #hashtag sull'argomento), su facebook senza dubbio è interessante e ricco di rimandi e informazioni il gruppo aperto "Reti di Memorie" - 2 agosto 1980-2014.
A margine di queste sommaria analisi è inevitabile pensare che senza le meritorie iniziative dell'associazione fra i familiari delle vittime e del Cedost, in merito al 2 agosto troveremmo davvero ben poco materiale utile alla comprensione e alla interpretazione della strage. Costruire memoria pubblica e sapere storico-scientifico riguardo a un evento che ha profondamente segnato le coscienze non solo dei bolognesi, ma della società civile italiana e internazionale, non può essere a carico soltanto della buona volontà di chi ha subito il dramma più da vicino e di singoli ricercatori e istituti. Inoltre, istituzioni, enti di ricerca e tutti coloro che in Italia si occupano di comunicazione storica – ed hanno a disposizione strutture e mezzi – non possono trascurare la dimensione telematica. Oggi tale dimensione risulta essere essenziale per un tipo di comunicazione storica che si proponga di andare oltre i circuiti accademici e punti a diffondere storia e memoria in un ambito decisamente più allargato. Obiettivi assolutamente indispensabili e necessari, che servono a consegnare alle generazioni future conoscenza e consapevolezza, le più piene possibili, di episodi bui, traumatici e tragici, come quello che avvenne a Bologna il 2 agosto 1980.
Questo contributo si cita A. Giordano, Bologna. La strage del 2 agosto on line: alcune tracce, in «Percorsi Storici», 2 (2014).
Questo contributo è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia
Tito Menzani
Un progetto su comunicazione e cultura cooperativa al convegno internazionale di Pola
Dal 25 al 28 giugno 2014, a Pola, in Croazia, si terrà il Convegno annuale dell’International cooperative alliance (Ica), nel quale saranno presentati vari progetti di ricerca che si riferiscono al movimento cooperativo. La maggioranza di questi riguarda temi economici o aziendali, ma ve ne sono anche numerosi altri che affrontano aspetti giuridici, sociologici o identitari. Tra questi, vogliamo dedicare un po’ di spazio al progetto Un hub per la comunicazione cooperativa e generativa. L’esperienza di memoriecooperative.it, che più di altri utilizza virtuosamente le discipline storiche.
Nel 2010 è nato il sito www.memoriecooperative.it, dedicato alla cultura cooperativa e promosso da Unicoop Tirreno, una delle nove grandi cooperative di consumo italiane che animano il marchio Coop. L’operazione è stata portata avanti dalla neonata Fondazione Memorie Cooperative, sorta innanzi tutto per gestire e valorizzare l’Archivio storico di Unicoop Tirreno. Nel corso del 2013, anche a seguito del buon accoglimento avuto dal sito, si è pensato di potenziarlo e di trasformarlo attraverso un complesso progetto sviluppato da un team di studiosi e professionisti di varia provenienza, coordinato dal prof. Luca Toschi (direttore del Communication Strategies Lab dell’Università di Firenze).
Da contenitore di informazioni e divulgatore degli interessanti materiali dell’Archivio storico di Unicoop Tirreno, si è voluto renderlo un hub fortemente vocato ad un innovativo genere di comunicazione. In particolare, si sono intersecate due diverse esigenze. La prima è quella di fungere da raccordo fra segmenti del movimento cooperativo italiano che sono presenti sul web, anche con siti ben strutturati, ma che faticano ad allacciare rapporti reciproci. La seconda è di sfruttare quest’occasione per fare del movimento cooperativo un soggetto in grado di sviluppare le proprie potenzialità in fatto di comunicazione, proprio perché policentrico e partecipato da milioni di cittadini, lavoratori e consumatori.
Mentre le imprese convenzionali adottano un modello comunicativo gerarchico-trasmissivo, cercando di orientare il comportamento dei propri stakeholder, a iniziare dai potenziali clienti, le imprese cooperative potrebbero adottare la comunicazione generativa, già sperimentata con successo in alcuni ambiti, in cui il rapporto tra i soggetti è osmotico e reciproco, e alla fine del confronto non c’è qualcuno che ha trasmesso qualcosa a qualcun altro che ha appreso, ma si è verificata una crescita di conoscenza rispetto alle condizioni di partenza.
Lo scopo di memoriecooperative.it è proprio di fungere da hub per interscambi plurimi entro canali comunicativi fatti di rapporti sinergici e virtuosi, proprio perché cooperativo e generativo possono essere due facce della medesima medaglia. Nel corso del convegno di Pola, un rappresentante della redazione di memoriecooperative.it illustrerà la metodologia di lavoro adottata, le difficoltà incontrate e i risultati finora ottenuti.
Roberta Mira
Geografia e storia della Resistenza delle donne a Bologna
Un progetto di ricerca e divulgazione storica dell'Anpi provinciale di Bologna e del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell'Università di Bologna
Nell'ambito delle iniziative per il 70° anniversario della Resistenza e della Liberazione, il comitato provinciale di Bologna dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia - Anpi e il Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell'Ateneo bolognese stanno portando avanti un importante progetto dedicato ai luoghi e alle forme della Resistenza femminile a Bologna, dal titolo Le donne della Resistenza bolognese.
Il progetto si avvale del sostegno del Comune di Bologna – in particolare del Settore Agenda digitale – e di quello della Presidenza del Consiglio dei ministri, nonché di contributi di singole sezioni Anpi, enti e soggetti privati, e vede il coinvolgimento di associazioni operanti sul territorio. Il coordinamento scientifico è affidato alla professoressa Dianella Gagliani, docente di storia contemporanea all'Università di Bologna, affiancata da Mauria Bergonzini, responsabile del Coordinamento donne dell'Anpi di Bologna; la ricerca è condotta da Roberta Mira e Simona Salustri dell'Università di Bologna.
Si tratta di un progetto di ricerca e divulgazione, che intende "segnare" i luoghi in cui le donne attive nel movimento partigiano hanno compiuto azioni militari e civili, manifestato, protestato, offerto assistenza, rischiato e pagato con la vita alla pari degli uomini: dunque "resistito". L'obiettivo è quello di valorizzare, far conoscere e conservare la memoria della piena e diffusa partecipazione delle donne all'antifascismo e alla Resistenza in Italia, e nello specifico a Bologna, della loro forza e del loro attivismo, del loro essere protagoniste – troppo spesso dimenticate – della Resistenza. Il mezzo è la realizzazione di una serie di percorsi che tocchino i luoghi della presenza femminile e vadano a costituire un museo diffuso, in cui saranno evidenziate non solo le individualità, ma anche, e soprattutto, le forme collettive di lotta messe in campo. Si punta a rappresentare l'ampio spettro di colori, anime e sensibilità che le donne di diversa estrazione politica e sociale (dalle azioniste, alle ebree, alle cattoliche, alle comuniste; dalle operaie, alle braccianti, alle insegnanti, alle infermiere) portarono all'interno della Resistenza, battendosi in armi nelle file dei partigiani e dando vita a tutte le forme della Resistenza civile che tanta parte fu della Resistenza e dell'opposizione alla guerra, al fascismo e al nazismo. Con il termine Resistenza civile si intendono atti di opposizione non armata, sviluppati in connessione con la lotta partigiana armata, o in autonomia, e tesi ad impedire o ostacolare l'occupazione tedesca e i suoi obiettivi e le attività della Repubblica sociale; tra questi atti, di cui le donne furono spesso organizzatrici, animatrici e protagoniste, figurano manifestazioni, scioperi, disobbedienza, assistenza a prigionieri, a perseguitati politici e razziali e a militari sbandati, varie forme di sabotaggio, isolamento del nemico, propaganda (Nota 1).
Due termini appaiono centrali per il progetto: luoghi e memoria. Fra questi due termini vi è un nesso simbolico, riassunto nell’espressione luoghi di memoria, sviluppata dallo studioso francese Pierre Nora e per l’Italia da Mario Isnenghi (Nota 2). Un luogo di memoria è nella definizione di Nora «una unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavorio del tempo ha reso un elemento simbolico del patrimonio memoriale di una qualche comunità» (Nota 3).
Si comprende immediatamente l’espressione se si pensa ad un luogo fisico nel quale è accaduto un determinato accadimento storico; luogo della memoria, tuttavia, può anche essere non un luogo fisico, ma un luogo simbolico o ideale, può cioè anche non essere affatto un luogo, ma, per esempio, un avvenimento, un oggetto, un personaggio, una canzone; basti pensare a oggetti come la Vespa o la 600 o, per citare il tema alla base del progetto che qui presentiamo, alla data del 25 aprile (Nota 4).
Ogni luogo può avere più significati in quanto può rimandare ad una sola o a più storie di cui è stato teatro nel corso del tempo; può essere importante o meno per singoli individui o per gruppi e collettività; può essere ricordato e celebrato o dimenticato totalmente.
È chiaro che un luogo di memoria si presta a veicolare differenti messaggi e a diverse letture, in dipendenza di quello che si vuole ricordare, di come lo si vuole ricordare, della collocazione, dell’uso pubblico, delle forme di vivere e far vivere il luogo. I luoghi di memoria ci dicono quindi alcune cose, o molte cose, non solo sul fatto o le persone che ricordano, ma anche sulle intenzioni di chi li ha progettati e realizzati, delle amministrazioni pubbliche o dei soggetti privati che li hanno promossi, nonché sul grado di identificazione e appartenenza che la collettività attribuisce loro.
Bologna, che sin dall’Unità d’Italia si è mostrata sensibile e attenta verso il passato cittadino e nazionale – intitolando strade ed erigendo monumenti –, ha i suoi luoghi di memoria di diverso tipo, a partire da quelli nei quali il luogo coincide con l’avvenimento a cui il luogo stesso rimanda, come Piazza 8 agosto che ricorda l’insurrezione della città contro gli austriaci nel 1848 e la ricorda nel modo più tradizionale con l’intitolazione della Piazza antistante la Montagnola al centro degli scontri del 1848 e con il monumento al Popolano; o come la stazione centrale, teatro della tragica strage del 2 agosto 1980, dove la sala d’attesa in cui fu collocata la bomba è rimasta a ricoprire la sua funzione, ma uno squarcio nella parete, una lapide e l’orologio fermo sull’ora dell’esplosione ricordano l’attentato di matrice fascista. E vi sono anche luoghi fisici che non hanno un legame diretto con l’avvenimento di cui sono diventati contenitore o simbolo: è il caso del Museo per la memoria di Ustica posto in via Saliceto dove è stato ricostruito l’areo DC 9 dell’Itavia abbattuto e distrutto sulla sua rotta Bologna-Palermo il 27 giugno 1980.
Accanto a questi luoghi di memoria ve ne sono altri, più o meno simbolici, che ricordano personaggi e avvenimenti del passato: pensiamo a monumenti, cippi, lapidi e all’intitolazione di strade e altri luoghi. A Bologna si trovano monumenti e strade dedicati a personaggi del Risorgimento nazionale e locale, altri che ricordano la I guerra mondiale; in anni più vicini a noi troviamo strade intitolate a vittime della mafia o del terrorismo.
Per quanto riguarda la Resistenza Bologna e la sua provincia, come del resto l’intera regione Emilia Romagna, hanno mostrato una certa sensibilità individuando strade, piazze, giardini, ecc. da intitolare a figure della Resistenza locale e nazionale, dell’antifascismo, della persecuzione politica e razziale.
A Bologna città l’intitolazione di vie ai caduti partigiani ebbe un inizio spontaneo con la posa da parte della cittadinanza di cartelli recanti i nomi di figure della Resistenza, spesso sui luoghi della loro uccisione da parte dei fascisti o dei nazisti, come nel caso di Giovanni Casoni, assassinato in via Begatto nei pressi della sua abitazione il 14 novembre 1944. La volontà di preservare per il centro storico i nomi antichi delle strade di Bologna fece poi sì che il nome di Casoni fosse dato nel 1955 a una via che congiunge via Ferrarese a via Stalingrado.
La maggior parte dei toponimi legati alla Resistenza fu intitolata tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Sessanta, nuove intitolazioni si ebbero anche a metà anni Settanta e poi più sporadicamente fino ad oggi. Gran parte di essi si trovano nei quartieri Reno, Saragozza, San Vitale e Navile, ma sono presenti in buon numero anche a Borgo Panigale, Savena, San Donato, Porto, Santo Stefano.
In città oltre 60 sono i toponimi che ricordano città martiri o medaglia al valore per gli avvenimenti che le hanno riguardate durante la Seconda guerra mondiale e la Resistenza; vittime civili e partigiane, come ad esempio via Caduti di Casteldebole o via Vittime dei Lager nazisti; avvenimenti precisi, come via 21 aprile 1945; i partigiani in generale, come nel caso di via Brigate partigiane o di via Volontari della libertà; singole brigate (via Brigata Bolero); oppure vi sono toponimi celebrativi della nascita della Repubblica (via della Repubblica) e della Costituzione (piazza della Costituzione).
Almeno 170 sono le strade, i giardini, le piazze, i viali intestati a partigiani, antifascisti, membri della Costituente, militari uccisi dai tedeschi, perseguitati razziali e politici deportati, sia bolognesi che di altra provenienza.
Va rilevato però che in totale a Bologna città, su circa 2.000 toponimi, quelli dedicati alla Resistenza e all’antifascismo sono circa il 12%, non una percentuale altissima, dunque, e la stragrande maggioranza di essi riguarda uomini. Se contiamo i nomi femminili scopriamo che i luoghi e le vie intitolati a donne sono appena 52 nell’intera città di Bologna, escluse le sante (12 + una chiesa), e di queste 52 solo una decina sono antifasciste, partigiane o perseguitate dal fascismo (Nota 5).
Accanto alla toponomastica altri segni testimoniano la sensibilità di Bologna verso la Resistenza. La città è disseminata di lapidi e cippi dedicati a stragi, eccidi o uccisioni singole, collocati spesso sul luogo delle uccisioni o nei pressi, come nel caso di Stenio Polischi, il cui corpo fu esposto al pubblico dai fascisti che lo impiccarono in via Venezian: mentre la lapide che ne ricorda la morte è collocata appunto in via Venezian, il viale che porta il nome di Stenio Polischi si trova all’interno dei giardini Margherita.
Sin dal dicembre 1947, la commissione toponomastica del Comune di Bologna, presieduta dall’allora sindaco Dozza, segnalò l’opportunità di effettuare un censimento per individuare le figure della Resistenza che i cittadini chiedevano fossero ricordate, con lo scopo di porre delle lapidi sulle pareti delle abitazioni o dei luoghi di morte per commemorarli (Nota 6).
Lapidi e cippi commemorativi posti nel corso del tempo a Bologna ci danno una sorta di mappa, o geografia, di alcuni degli avvenimenti legati alla Resistenza: segnatamente i luoghi di esecuzione, esposizione pubblica o ritrovamento dei corpi di antifascisti e partigiani uccisi da nazisti e uomini della Rsi. Più raramente essi segnalano le abitazioni in cui vissero partigiane e partigiani: è il caso del piccolo monumento che sorge in via Pontevecchio davanti al cosiddetto Casermone, un palazzo dove vivevano diverse famiglie di antifascisti, e che ricorda i nomi di chi di loro fu ucciso. Anche in questo campo però la presenza maschile sovrasta quella femminile, non fosse altro che per la più numerosa partecipazione in armi alla Resistenza degli uomini e quindi per la più alta percentuale di caduti maschi che vengono ricordati nelle lapidi e nei cippi, con poche eccezioni come quella di Irma Bandiera.
Infine abbiamo i grandi monumenti (Nota 7) e mi limito a citarne tre significativi per la Resistenza femminile, a partire dal sacrario dei caduti partigiani in Piazza Nettuno. Esso è stato collocato sul luogo dove sorse spontaneamente grazie alla volontà dei cittadini – in modo particolare delle donne – che nei giorni immediatamente successivi alla liberazione della città appoggiarono al muro di Palazzo d’Accursio fiori e immagini dei loro parenti caduti nella Resistenza. Il luogo non fu scelto casualmente: in quell’angolo di Piazza Nettuno, infatti, i fascisti spesso eseguivano fucilazioni pubbliche o esponevano il corpo dei nemici uccisi per dimostrare la propria forza e terrorizzare gli avversari e la popolazione; quell’angolo era stato ribattezzato dai fascisti, con una macabra ironia, “luogo di ristoro per i partigiani”. Pertanto il sacrario poteva sorgere solo in quel punto, anche qui facendo coincidere luogo della storia e luogo della memoria pur ribaltandone il significato. Nel sacrario nella sua forma attuale compaiono i nomi e, dove possibile, i volti di 165 donne che persero la vita durante la Resistenza su un totale di 2.059 partigiani caduti; nelle lapidi poste nella parte inferiore del sacrario sono indicate alcune cifre relative alle formazioni partigiane di Bologna, ai feriti, agli arrestati, ai deportati, ai fucilati, alle medaglie d’oro e d’argento concesse: qui le donne riconosciute tra le file partigiane sono quantificate in 2.212.
Cito poi il monumento alle 128 partigiane posto nel giardino di Villa Spada, realizzato nel 1975 dallo studio Città Nuova (degli architetti Letizia Gelli Mazzuccato, Giampaolo Mazzuccato e Umberto Maccaferri) con la collaborazione delle scuole di Bologna, delle associazioni e delle fabbriche della zona. Il monumento, una composizione di più elementi disseminati nel giardino di Villa Spada, è esplicitamente dedicato alle donne e quindi merita la nostra più grande attenzione. Commemora 128 partigiane della provincia di Bologna cadute durante la Resistenza attraverso 128 mattoni ognuno dei quali riporta il nome di una partigiana.
Ricorda le donne della Resistenza anche la statua della partigiana di Luciano Minguzzi, realizzata, con quella del partigiano, nell’immediato post-Liberazione, ricavando il bronzo dalla statua equestre di Mussolini che era stata posta sulla torre dello stadio in epoca fascista. Inizialmente le statue erano collocate nel giardino della Montagnola, davanti a quella che allora era la sede dell’Anpi di Bologna, l’ex padiglione della Direttissima (attualmente scuola Lea-Giaccaglia Betti) e nel 1973 furono spostate a Porta Lame, luogo della battaglia del 7 novembre 1944.
Villa Spada e la partigiana di Minguzzi rappresentano degnamente le donne della Resistenza, ma si tratta di una piccola minoranza nel panorama generale dei monumenti, dedicati in prevalenza ai combattenti maschi.
Dobbiamo sottolineare che toponomastica, lapidi, cippi, e monumenti tendenzialmente ricordano i caduti e le cadute nel 1943-1945, non i partigiani e le partigiane in vita, né personaggi legati alla Resistenza sopravvissuti a quella stagione. Le statue di Minguzzi sono un’eccezione, giacché raffigurano il partigiano e la partigiana vivi e per giunta la donna porta una cartuccera sulla spalla: è cioè vista come una combattente, cosa che rende conto non solo della presenza delle donne nella Resistenza, ma di una loro presenza attiva al pari di quella maschile.
Con il progetto Le donne della Resistenza bolognese ci proponiamo di recuperare alla memoria, dando loro rilievo, non solo le figure delle donne cadute nella lotta partigiana, ma anche le storie di vita e di Resistenza delle donne – dalle più note alle più minute – che hanno avuto per scenario il territorio bolognese: oggetto del lavoro sono dunque le azioni quotidiane, le scelte, le motivazioni, le attività di singole e di gruppi di donne nel farsi della Resistenza; il lavoro e il museo diffuso prendono in considerazione non solo le partigiane riconosciute ufficialmente come tali, ma anche quelle donne che furono partigiane senza ottenere la qualifica a fine guerra. Vogliamo perseguire tale obiettivo attraverso il legame luogo-memoria e più precisamente luogo-evento-donne protagoniste-memoria, dando vita a nuovi luoghi di memoria per il territorio di Bologna.
Concentreremo la nostra attenzione sui luoghi fisici, sui punti del territorio in cui le donne hanno vissuto, hanno lavorato, hanno organizzato e attuato le loro forme di Resistenza. I luoghi fisici – abitazioni, basi partigiane, ospedali, piazze, fabbriche, e così via – saranno individuati su una mappa, andando a formare una “cartina geografica” della Resistenza femminile, e saranno i punti di partenza per raccontare gli eventi e la storia delle donne protagoniste.
Il nesso persone-evento-luogo, nell’era dell’immagine, costituisce un modo coinvolgente ed efficace per far emergere l’ampiezza, la complessità e l’originalità della partecipazione delle donne di diversa età e di diversa estrazione politica, sociale, culturale, alla stagione resistenziale.
Si tratta di un modo concreto per riportare alla luce un patrimonio di vite e di storie della nostra città che rischia di perdere vigore a causa della progressiva e naturale scomparsa dei testimoni e per tutelare la memoria, ampliare la conoscenza della storia e mettere in evidenza alcune delle forme e dei metodi tipici della Resistenza delle donne.
L’obiettivo ultimo, come si è detto più sopra, è la realizzazione di un museo diffuso, costituito da alcuni percorsi significativi per la Resistenza femminile. Il museo diffuso consente di raccontare la città e il territorio su base tematica, valorizzandone particolari aspetti caratteristici e distintivi. Una modalità partecipata per ritrovare le tracce della storia nel tessuto cittadino, offrendo al pubblico l’opportunità di cogliere lo stretto rapporto fra storia e territorio, fra memoria e storia, fra passato e presente. Intendiamo quindi valorizzare una parte della storia bolognese, ma con una diffusione molto più ampia rispetto al contesto locale, grazie all’uso di internet. Il museo vuole anche essere uno strumento al servizio del turismo storico-culturale nell’area di Bologna, oltre che degli studenti e dei docenti che potranno usufruirne per percorsi e approfondimenti didattici.
Sono stati individuati otto percorsi, relativi a partigiane e staffette; scioperi e manifestazioni; Gruppi di difesa della donna; reti di assistenza cattoliche; reti di assistenza ebraiche; stampa clandestina; assistenza ai militari sbandati; servizio sanitario.
Tali percorsi saranno visitabili in maniera virtuale attraverso un sito internet, realizzato appositamente per il progetto dallo studio Quarto Canale di Giuliana Cattini, che al momento in cui chiudiamo questo contributo è in versione “demo”. Il sito sarà visibile al pubblico a breve, sia pure sotto forma di work in progress, e verrà via via arricchito di contenuti con il proseguimento e il completamento del lavoro di ricerca. L’idea è quella di dare immediata visibilità al progetto e di rendere fruibile dagli utenti una parte dei contenuti, così da interagire con tutti coloro i quali sono interessati e con i semplici curiosi della rete.
L’individuazione dei luoghi e la creazione dei percorsi sono basate su un’ampia ricerca storico-archivistica, volta a reperire e sistematizzare il materiale esistente sulla Resistenza delle donne a Bologna e a raccogliere ulteriore documentazione: si tratta di testimonianze edite e inedite, interviste audio e video, materiale fotografico, documenti d’archivio, lettere, materiale a stampa, storiografia, memorialistica da cui emergono luoghi, persone, eventi, attività.
Collegandosi al sito www.donnedellaresistenzabolognese.it il visitatore del museo diffuso accede al cuore del progetto, una mappa, sulla quale, selezionando il percorso prescelto, compaiono uno a uno i segni indicatori dei luoghi delle donne partigiane.
Cliccando su un segno indicatore si apre la scheda relativa al luogo, corredata di immagini, e dal testo descrittivo si può entrare nelle schede relative alle donne protagoniste del luogo. Per ogni donna si riportano una breve biografia e una descrizione dell’attività resistenziale.
Poiché i singoli luoghi e i percorsi sono spesso collegati tra loro è possibile navigare all’interno del sito, spostandosi da un punto all’altro e “incontrando” più donne; inoltre è possibile collegarsi a siti esterni – pensiamo a quello della Certosa di Bologna – per informarsi su personaggi e avvenimenti citati nelle schede del sito che non sono ricompresi nel sito stesso perché non sono donne o non hanno donne per protagoniste.
Accanto alla scheda di ogni donna sono presenti collegamenti a file audio, video, testo, se esistenti e reperiti, ed eventuali collegamenti a siti esterni; inoltre ogni scheda di luogo e di donna è accompagnata da un elenco di fonti, utili per l’elaborazione della scheda stessa e per eventuali approfondimenti da parte del visitatore.
Ogni utente, registrandosi al sito, avrà la possibilità di creare percorsi specifici secondo i propri interessi, collegando tra loro punti appartenenti a diversi percorsi.
Vediamo più nel dettaglio come funzionerà il sito e che cosa conterrà attraverso alcuni esempi.
Selezionando il percorso Assistenza sanitaria e scegliendo il simbolo sulla mappa corrispondente all’Ospedale Sant’Orsola si accede alla scheda dedicata al policlinico universitario Sant’Orsola nel 1943-1945. Il testo riassume le attività svolte all’interno dell’ospedale a favore della Resistenza dal personale medico e infermieristico e dagli inservienti.
In rosso compaiono i nomi delle donne protagoniste del luogo, per le quali sono presenti le relative schede biografiche. Se, per esempio, si legge la biografia di Stella Tozzi, allora infermiera al Sant’Orsola e poi partigiana stabilmente inserita nella 7ª brigata Gap, si trovano riferimenti ad altri luoghi e/o avvenimenti che la hanno vista come protagonista. È il caso dell’infermeria partigiana di via Andrea Costa – dove Stella Tozzi assistette, tra gli altri, i partigiani feriti nella battaglie di Porta Lame e della Bolognina del novembre 1944 –, anch’essa inserita all’interno del sito e parte del percorso dedicato all’assistenza sanitaria: per accedere alla scheda relativa è sufficiente cliccare su via Andrea Costa 77 nella biografia della Tozzi.
È anche possibile passare da un percorso all’altro, nel caso una delle donne sia legata a percorsi diversi o un luogo sia stato sede di diverse attività.
Partendo ancora dal percorso Assistenza sanitaria in vicolo Bianco 2 si incontra la figura di Liliana Alvisi, medico pediatra, antifascista sin da giovanissima – complice l’ambiente familiare –, iscritta al Partito comunista, attiva nelle rete resistenziale formatasi all’interno dell’ambiente medico-ospedaliero di Bologna e contemporaneamente nei Gruppi di difesa della donna (Gdd).
Ai Gdd, organizzazione prettamente femminile collegata ai Comitati di liberazione nazionale, che puntava a raccogliere donne di diversa estrazione sociale, culturale e politica – non solo le combattenti nelle formazioni partigiane, ma anche tutte le donne impegnate nell’opposizione e nella Resistenza civile – e che rappresentò per molte donne la via d’accesso alla Resistenza divenendo una struttura portante dello stesso movimento antifascista e partigiano, è dedicato un apposito percorso che tocca i luoghi bolognesi dei Gruppi di difesa, ripercorrendone la storia. Dalla biografia di Liliana Alvisi, dunque – ma è solo un esempio –, il visitatore del museo diffuso potrà spostarsi dal percorso Assistenza sanitaria a quello Gruppi di difesa della donna. Qui troverà indicati, fra gli altri luoghi, l’abitazione di Antonietta Stracciari, in località Sostegnino lungo il canale Navile, dove Antonietta, come membro dei Gdd, aveva impiantato un centro di deposito e smistamento di vestiti, stampa clandestina, materiali vari, armi e munizioni per i partigiani; via Ugo Bassi, via Marconi e via Azzo Gardino, tappe della grande manifestazione del 3 marzo 1945 organizzata dai Gruppi di difesa della donna contro il pagamento in sale per le spie e i delatori da parte di fascisti e nazisti; il monumento a Garibaldi di via Indipendenza, dove la dirigente dei Gdd Penelope Veronesi tenne un discorso per chiedere la pace il 16 aprile 1945; e potrà fare la conoscenza di donne come Diana Franceschi, Bruna Bettini, Vittorina Tarozzi, Novella Corazza e tante altre.
Allo scopo di rendere visitabili anche fisicamente i luoghi delle donne della Resistenza bolognese abbiamo pensato alla realizzazione di un’app per tablet e smartphone – che si chiamerà A spasso con DeBoRa, dove DeBoRa è acronimo di Donne per la Resistenza a Bologna ed è idealmente il nome di una partigiana che accompagna il visitatore sui luoghi.
L’app consentirà di portare con sé la mappa e i contenuti in versione ridotta e tascabile e di leggere le descrizioni da app o collegandosi al sito sul web, per la versione integrale, mentre ci si trova fisicamente suoi luoghi.
L’Anpi e il gruppo di lavoro auspicano di potere in futuro realizzare dei veri e propri percorsi fisici suoi luoghi delle donne resistenti bolognesi, apponendo una segnaletica – da concordare con le istituzioni competenti – che riporti alcune informazioni sintetiche e che, mediante un codice Quick-Read (QR Code) permetta l’accesso al sito internet via smartphone e tablet.
In questo modo non solo le persone interessate a conoscere questa storia, che partiranno dal sito e arriveranno ai luoghi e alle donne protagoniste, entreranno in contatto con la Resistenza femminile bolognese, ma anche i turisti, i visitatori e i cittadini trovandosi in un punto in cui è presente la segnaletica fisica potranno incuriosirsi e, prendendo le mosse da un cartello e partendo direttamente dal luogo fisico, andare sul sito e scoprire l’intero museo diffuso che il progetto mette a disposizione.
Da parte delle coordinatrici e delle ricercatrici, oltre che dell’Anpi, vi è infine piena disponibilità ad attivare sinergie e collaborazioni con istituzioni, scuole, biblioteche, altre associazioni ed enti di varia natura (culturale, sociale, ricreativa...) interessati a sviluppare percorsi collegati al progetto.
NOTE
Nota 1 J. Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza civile in Europa 1939-1943, Sonda, Torino 1993 (ed. or. 1989); A. Bravo, Resistenza civile, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, Einaudi, Torino 2000, pp. 268-282; A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari (nuova edizione 2000; I ed. 1995); D. Gagliani, Resistenza alla guerra, diritti universali, diritti delle donne, in D. Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza Politica. Storie di donne, Aliberti, Reggio Emilia 2006, pp. 21-44. Torna al testo
Nota 2 P. Nora (dir.), Les lieux de mémoire, 3 voll., Gallimard, Paris 1997; M. Isnenghi, (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2010 (nuova ed.; I ed. 1996; Id (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2010 (nuova ed.; I ed. 1997); Id (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997. Torna al testo
Nota 3 P. Nora, Comment écrire l’histoire de France?, in Id. (dir.), Les lieux de mémoire, Quarto Gallimard, Paris 1997 (ed. in 3 voll.), vol. 2, p. 2226. Torna al testo
Nota 4 Cfr. M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, 3 voll. cit. Torna al testo
Nota 5 M. Fanti, Le vie di Bologna. Saggio di toponomastica e di storia della toponomastica urbana, 2 voll., Istituto per la storia di Bologna, Bologna 2000 (ed. riveduta e aggiornata; I ed. 1974); Ars (Archivio regionale delle strade), Provincia di Bologna, Comune di Bologna, scaricabile dal sito della Regione Emilia Romagna http://servizissiir.regione.emilia-romagna.it/ARS/. Torna al testo
Nota 6 M. Fanti, Le vie di Bologna, cit., vol. I, pp. 35-36. Torna al testo
Nota 7 P. Dogliani, Luoghi della memoria e monumenti, in B. Dalla Casa, A. Preti (a cura di), Bologna in guerra 1940-1945, FrancoAngeli, Milano 1995, pp. 461-475; P. Dogliani, Monumenti alla Resistenza. Bologna e il suo territorio, e P. Dogliani, E. Guerra, E. Lorenzini, Il monumento come documento. Un percorso di ricerca per una mostra storico-didattica, entrambi in O. Piraccini, G. Serpe, A. Sibilia (a cura di), La premiata Resistenza. Concorsi d’arte nel dopoguerra in Emilia-Romagna, Grafis, Bologna 1995, rispettivamente pp. 21-36 e 99-114. Torna al testo
Questo contributo si cita R. Mira, Geografia e storia della Resistenza delle donne a Bologna. Un progetto di ricerca e divulgazione storica dell'Anpi provinciale di Bologna e del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell'Università di Bologna, in «Percorsi Storici», 2 (2014)
Questo contributo è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia
Sonia Residori, Una legione in armi. La Tagliamento tra onore, fedeltà e sangue, Cierre Edizioni, Verona 2013, pp. 356
(Riccardo Caporale)
Non era un “western”.
Il lavoro di Sonia Residori colma un vuoto storiografico nel ritardo complessivo della storiografia inerente alla Rsi. E’ importante il soggetto scelto, la Legione Tagliamento, per due motivi fondamentali: la sua storia attraversa tutto lo specchio cronologico di Salò e il reparto è attivo in numerose operazioni, contro la Resistenza e mai contro gli eserciti Alleati.
Residori avrebbe potuto facilmente ricostruire le vicende del reparto seguendo un mero criterio cronologico, avvalendosi, come comunque ha fatto, delle carte processuali conservate presso la Corte d’Assise Straordinaria di Brescia, che raccoglieva i vari procedimenti istruttori iniziati presso altre Corti d’Assise dove il reparto aveva operato. Invece, pur utilizzando con saggia parsimonia queste importanti fonti giudiziarie, l’A. ha tracciato la parabola di questo reparto in modo ideale, ricostruendone allo stesso tempo la storia e ricercando e restituendo al lettore le motivazioni, i sentimenti e le visioni che accompagnavano chi si schierò con la Rsi. Il lavoro va quindi oltre la storia del reparto e diventa uno strumento per la comprensione del fenomeno della rinascita fascista all’indomani dell’8 settembre 1943.
Il reparto si forma in un periodo breve perché è idealmente l’erede della Legione M che, armata dai tedeschi prima del 25 luglio, rimane, anche dopo tale data, una formazione genuinamente fascista, pur con le stellette al posto del fasci littori. Il nucleo della Legione M, assieme ad altri gruppi di volontari fascisti, nel giro di poco tempo forma la Legione Tagliamento, capeggiata da Merico Zuccari, un ufficiale fascista che aveva combattuto nella Milizia in Africa e in Albania, un “professionista della guerra” come egli stesso amava definirsi.
La storia del reparto si caratterizza per la continua collaborazione con i tedeschi. Fin dall’inizio, la Tagliamento è inquadrata in un reparto di paracadutisti della Wehrmacht di stanza a Roma. Peraltro, anche in seguito i tedeschi decidono come, dove – e spesso quando – il reparto debba operare. Degli “alleati-occupanti”, la Tagliamento imita le modalità di repressione, che ricordano più il trattamento riservato dai tedeschi ai territori occupati ad Est che non all’Italia.
Il vero nemico del reparto, nei seicento giorni di Salò, rimane sempre e solo la Resistenza. Per questo motivo si sviluppano, all’interno della Tagliamento, alcune delle dinamiche peculiari del mondo di Salò: il senso di alterità ed esclusione rispetto al mondo circostante, visto sempre come nemico, un forte quanto puerile senso di “identità” che lega tra loro i legionari, che non coltivano quasi mai dubbi sulle azioni che stanno compiendo (nei ricordi dell’attore Giorgio Albertazzi, le vicende che l’hanno visto protagonista come ufficiale nella Legione, avevano un “lato western”), un ricorso alla violenza sistematica frutto del vuoto politico e dell’impossibilità di crearsi un proprio spazio di manovra che sta dietro la scelta di adesione alla Rsi.
Tratto caratterizzante il reparto è la disciplina “ferrea e assoluta” che, secondo il comandante Zuccari, avrebbe dovuto essere un pilastro etico e politico della futura Italia governata dalla Rsi. Tuttavia, non mancano le diserzioni, i furti ai danni delle popolazioni che subiscono il passaggio o l’occupazione della Tagliamento ed una fronda tra ufficiali di diversa origine (Zuccari fascista “sul campo” contro ufficiali provenienti dalle scuole fasciste, più formali e meno inclini a cedere alla violenza smodata che il comandante incentiva).
Spasmodico è il culto supremo dei caduti e quello per la “bella morte”, raccontato dal legionario Mazzantini; sconcertante è l’impiego di ragazzini in armi: vengono citati casi di dodicenni che partecipano alle fucilazioni.
La Legione opera in diverse zone del territorio italiano dove è presente la Rsi e si oppone con vigore ed estrema violenza a partigiani e popolazioni. Le operazioni più importanti sono la cattura dei partigiani a Vercelli nel dicembre 1943, il rastrellamento, assieme a tedeschi e altri reparti di Salò, del Montegrappa nel settembre 1944, l’impiccagione a Bassano dei partigiani prima torturati.
La Tagliamento è uno degli ultimi reparti di Salò ad arrendersi, dopo un ultimo vano assalto ai partigiani delle Fiamme Verdi sul Mortirolo.
Il comandante Zuccari, nonostante sia ricercato anche dagli Alleati per l’uccisione dei prigionieri di guerra, riesce a scappare, così come molti legionari, ufficiali e no, che riescono proditoriamente a mischiarsi alla massa di prigionieri di guerra italiani provenienti dai campi di prigionia tedeschi. Eguale fortuna non tocca invece a 43 militi catturati a Rovetta: pur avendo avuto garanzie di salvezza dal Comitato di liberazione nazionale locale, sono fucilati da un gruppo partigiano proveniente da un’altra zona, negli ultimi giorni di aprile.
Il lavoro di Residori, quindi, è uno spaccato rappresentativo della Repubblica di Salò. Un merito dell’autrice è non aver riempito le pagine di dibattimenti processuali con i racconti di violenze: in questo caso bastano poche ma indicative descrizioni.
Unico neo, a nostro avviso, la mancanza di apparato iconografico, anche se non sempre è facile trovare immagini e utilizzarle.
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