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Claudio Vercelli, Il negazionismo. Storia di una menzogna, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. XI-216

(Francesco Germinario)

 

Vercelli

 

Il fenomeno politico-culturale del negazionismo è stato oggetto di diverse ricostruzioni all’estero, soprattutto in Francia e, in qualche misura, negli Stati Uniti. Il volume di Vercelli costituisce il primo contributo italiano a ricostruire il fenomeno nelle sue varie articolazioni nazionali e argomentative. 
Riprendiamo la definizione proposta dall’autore: il negazionismo è «meccanismo per la riscrittura della storia, buttando fuori da essa quei crimini contro l’umanità che rivelano la natura assassina dei regimi nazifascisti» (p. 22). Naturalmente, il rapporto negazionismo-antisemitismo risulta molto stretto; ed è un rapporto assicurato nella sua sostanza più intima dalla convinzione che la Shoah sia stata nulla più che un “mito” costruito ad arte dall’ebraismo mondiale per “colpevolizzare” i non ebrei. Ritorna, in questo modo, uno dei punti di forza dell’universo ideologico della tradizione antisemita, quello di un ebraismo impegnato a «falsificare la storia, naturalmente a proprio esclusivo beneficio» (p. 183). Possiamo anche aggiungere che per l’antisemitismo la Storia medesima, col suo corredo di stermini, sciagure, guerre, crisi economiche ecc. è un prodotto dell’ebraismo (per la precisione, della cospirazione ebraica): se la Storia non esistesse, i non ebrei vivrebbero in pace e in serenità. Drumont, a titolo di puro esempio, imputava gli ebrei di avere provocato il diluvio che aveva allagato Parigi nel gennaio del 1910.
Vercelli ricostruisce non solo le varie articolazioni del negazionismo, compreso quello “tecnico”, impegnato nel dimostrare l’impossibilità che le camere a gas funzionassero a ritmi molto veloci; ma si sofferma sulle articolazioni nazionali e continentali di questa cultura politica, spaziando dal negazionismo americano a quello ampiamente diffuso nei paesi islamici, da quello più legato agli ambienti del radicalismo di destra per finire alla sinistra negazionista, quest’ultima essenzialmente francese, con qualche proiezione italiana.
In genere si è sostenuto che le origini del negazionismo siano da rintracciare in Maurice Bardèche, critico letterario, cognato di Robert Brasillach nonché figura di rilievo dell’estrema destra europea del secondo dopoguerra. In una serie di pamphlets pubblicati nell’immediato dopoguerra, dalla Lettre a François Mauriac a Nuremberg ou la terre promise, Bardèche avrebbe avanzato le prime tesi riprese poi dal negazionismo negli anni Settanta. Dietro Bardèche, naturalmente, Paul Rassinier, socialista, pacifista, resistente internato a Buchenwald, ma poi approdato all’estrema destra (alcuni suoi testi, pubblicati sotto pseudonimo, furono tradotti in Italia da sigle editoriali espressione di Ordine Nuovo). Invece, l’A. rintraccia le origini del fenomeno negazionista in qualche voce della storiografia americana del primo dopoguerra, impegnata nell’assolvere gli Imperi Centrali dalle accuse rivolte a questi ultimi dalla propaganda alleata. È, ad esempio, Harry Elmer Barnes, storico americano molto critico della politica estera statunitense negli anni Venti, nonché abbastanza conosciuto in alcuni settori dell’estrema destra di Weimar, a dare alle stampe nel 1962 un saggio in cui si accusavano gli Alleati di diffamare la Germania nazista imputandole lo sterminio dell’ebraismo europeo; fu sempre Barnes, un paio di anni dopo, a riprendere le tesi di Rassinier in funzione filotedesca e antialleata (cfr. pp. 23-4).
Il quadro che ne emerge è, dunque, quello di un fenomeno negazionista non limitato alla sola Francia e non originato in Francia: semmai è stato Oltralpe che il negazionismo, specialmente alla fine degli anni Settanta, assunse un rilievo mediatico più incisivo ed evidente. Lo stesso Faurisson possiamo considerarlo, infatti, non tanto uno dei “maestri” del negazionismo, quanto colui che aveva intuito i vantaggi della strategia mediatica. Del resto, furono i nazisti i primi negazionisti di sé medesimi, non solo ricorrendo alla Spracheregelung  nella comunicazione burocratica, con l’adozione di un lessico politicamente sterilizzato, metaforico e, all’occorrenza, allusivo; ma provvedendo alla distruzione, per quanto loro era possibile, delle strutture di sterminio, sotto l’incalzante avanzata delle truppe sovietiche sul fronte dell’Est (cfr. p. 31). Potremmo osservare che, in quanto esponenti di un sistema totalitario, i nazisti avevano un radicato senso della storia: e dunque erano ben consapevoli di essersi impegnati in un progetto, quello dello sterminio dell’ebraismo europeo, di una portata epocale.
Riconosciamo che ci pare intrigante il penultimo capitolo del volume, quello dedicato al rapporto fra negazionismo e revisionismo (pp. 168-183). È un problema che merita qualche riflessione supplementare.
Intanto, crediamo che l’ossessiva polemica negazionista contro la ricerca storica – una polemica volta a costringere quest’ultima a difendersi dalle torrenziali e ripetute accuse di falsificare la ricostruzione storica (p. 13) - sia miseramente fallita: uno Zündel o un Faurisson, per non  dire dei loro seguaci e allievi, non sono riusciti a demolire o a squalificare neanche una pagina degli studi di Hilberg, di Saul Friedländer o di Yehuda Bauer, tanto per richiamare solo alcuni dei tanti punti di riferimento della storiografia sulla Shoah. Non ci risulta che ci siano stati storici costretti a rivedere le loro ricostruzioni e analisi sull’onda dell’incalzare degli improperi di provenienza negazionista.
Non crediamo neanche che il rapporto negazionismo-revisionismo si esaurisca in una inconfessata divisione dei lavori, per cui il revisionista si rivolge a un pubblico di morigerati conservatori, mentre il negazionista è intento a intercettare le domande politiche delle frange degli scontenti e del radicalismo di destra. Crediamo che il rapporto sia più complicato. Per dire meglio, il rapporto negazionismo-revisionismo coinvolge il convitato di pietra della modernità.
Poniamo tale problema in questi termini: il negazionismo possiamo leggerlo quale tassello, il più orribile certamente, di quella sovrapposizione confusa dei diversi universi ideologici, la quale emerge dalla Grande Narrazione revisionista di ascendenza o d’impianto neoliberale. Beninteso, non stiamo confondendo Nolte con Faurisson, precipitando entrambi nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Intendiamo sostenere che una delle forze del negazionismo consiste nell’intercettare un atteggiamento politico-culturale che, in nome di un presente deideologizzato, tende a respingere le ideologie quali chiavi di lettura che sono altro dalla modernità, da queste ultime traviata perché vi si sono sovrapposte ad essa, provocando le ben note tragedie della Storia. La modernità, in altri termini, quale altro dalle ideologie, specialmente da quelle del conflitto, dal giacobinismo alla coppia comunismo-nazismo, in cui pure essa si è espressa. Le ideologie hanno avvelenato la modernità, la quale avrebbe potuto essere ben diversa da come si è rivelata e che solo oggi – considerata appunto l’usura delle ideologie – si esprime in tutta la sua vocazione eudemonistica, in una specie di gaudente vivez vous!, pervenendo finalmente alla conciliazione dell’uomo con la Storia. Per dire ancora meglio: le perverse ideologie dei vincitori dello scontro mondiale 1939-1945 si sono astutamente sovrapposte all’avversario vinto, il nazismo, ideologizzandolo appunto attraverso l’identificazione fra quest’ultimo e la Shoah. Le ideologie, per giustificare il loro operato, non possono che ideologizzare l’avversario; così le ideologie delle potenze vincitrici avevano proceduto a ideologizzare il nazismo, spingendo oltre il consentito il suo connaturato antisemitismo (si ricordi che i negazionisti non negano certo l’antisemitismo nazista) e addebitando a quest’ultimo il criminale progetto ideologico della Endlösung della “questione ebraica”.
Naturalmente, se questi sono i presupposti politico-culturali che declinano il negazionismo come una forma di revisionismo, sarebbe appena sufficiente osservare che le ideologie sono tipiche della modernità; e che non c’è nulla di più moderno delle ideologie, le quali, quasi per definizione, prevedono proprio il momento del conflitto. E infine: essere in pace con se stessi, quale obiettivo cui tendono negazionismo e revisionismo? Lo storico non è uno psicanalista; e per la ricerca storica vale esattamente il contrario.

 

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