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Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 660

(Eric Gobetti)

Aga Rossi Giusti 

 

Tre anni fa usciva per il Mulino un volume che aveva la pretesa di affrontare in maniera esaustiva, anche grazie ad un notevolissimo spessore quantitativo, un tema poco frequentato dalla storiografia: la presenza militare italiana nei Balcani durante la seconda guerra mondiale. Si tratta a mio avviso dell'ennesima occasione mancata, viste le carenze, documentarie e interpretative, di questo volume. Innanzitutto la ricerca si concentra essenzialmente sul periodo successivo all'8 settembre 1943 e va intesa come un allargamento del quadro già tracciato dalla professoressa Elena Aga Rossi nel suo precedente Una nazione allo sbando (ultima edizione del 2003). Al periodo dell'occupazione, che a conti fatti rappresenta la fase più lunga in termini temporali (30 mesi contro 20) il volume dedica solo 80 delle 450 pagine di testo effettivo. Tale scelta pare ribadire la classica impostazione che vede gli italiani come vittime della guerra e solo parzialmente impegnati nelle politiche repressive e di controguerriglia. Anche il titolo stesso, efficace ed accattivante, esprime un senso di estraneità da questo fronte bellico. Ma quella nei Balcani non può essere considerata “una guerra a parte”; rappresenta piuttosto il principale fronte del conflitto, dove l'impero fascista arrivò ad impiegare metà delle truppe di terra disponibili e buona parte delle risorse economiche, propagandistiche e diplomatiche.
La ricostruzione degli eventi, al di là delle numerose imprecisioni, è generalmente corretta. Nonostante l'ampia bibliografia e le numerose fonti d'archivio indicate, il volume è però essenzialmente basato sui documenti militari italiani. Troppo affidamento viene fatto su fonti scivolose – come le relazioni compilate dagli ufficiali rimpatriati – o del tutto inaccettabili, come certa pubblicistica ideologicamente orientata in senso anticomunista. Alcune espressioni evidentemente razziste (come quando si parla, a p. 39, di «musulmani bosniaci felici di potere sterminare dei cristiani») sembrano dovute proprio ad un uso superficiale e poco attento di questo genere di fonti. D'altra parte, l'ampia documentazione esistente relativa ai movimenti partigiani e le storiografie dei paesi balcanici sono del tutto ignorate. La maggior parte della recente storiografia italiana viene invece bollata come “di parte”, pregiudizialmente volta a screditare il Regio esercito. Ne risulta in definitiva un impianto interpretativo che non si discosta da quello autoassolutorio dei molti volumi editi da autori vicini alle forze armate. In questo caso però l'impostazione pregiudizialmente anticomunista è talmente marcata da indurre le autrici a capovolgere talvolta il senso stesso degli avvenimenti, confondendo vittime e carnefici, mescolando le responsabilità.
Per quanto concerne il periodo dell'occupazione, è evidente l'intento riduzionista rispetto alle gravi responsabilità dell'esercito italiano nelle politiche repressive condotte nei Balcani fino all'8 settembre 1943. I crimini di guerra italiani non vengono negati ma sono presentati nella fosca luce di una guerra civile tra diversi movimenti di liberazione che sembra voluta esclusivamente dai partigiani comunisti. «Fin dall'inizio la lotta partigiana assunse un carattere violento, coinvolgendo la popolazione», scrivono le autrici a p. 48, criminalizzando così la resistenza agli invasori, quando è evidente che furono le politiche adottate dagli occupanti a identificate i civili come potenziali bersagli delle repressione. Allo stesso modo gli avversari di Tito nella guerra civile jugoslava vengono presentati come fieri patrioti, ignorando apertamente la loro scelta di collaborare con le forze nazifasciste. Le repressioni italiane vengono poi inquadrate in un contesto di presunte torture subite dai nostri soldati ad opera dei partigiani. A parte limitatissimi casi (io ne ho potuto accertare uno solo per il territorio jugoslavo) si tratta di episodi non documentati, perlopiù frutto della strategia difensiva ideata dalla commissione interministeriale costituita nel dopoguerra per scagionare gli italiani accusati di crimini di guerra. È evidente che non si può utilizzare questo tipo di fonte come una prova certa e inoppugnabile.
La stessa logica pervade il libro nella seconda parte, dedicata alle convulse fasi del dopo Armistizio. Nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre 1943 i nostri soldati abbandonati nei Balcani si trovano ad affrontare una realtà difficile in condizioni estreme. È difficile darne conto in maniera organica e infatti questa parte del volume appare come un lungo e noioso elenco di singoli avvenimenti, ai quali non si riesce a dare una spiegazione. Nel complesso tutto appare eticamente schiacciato: collaborare coi nazisti o con i patrioti, resistere o lasciarsi deportare... non sembra esserci differenza. È vero che la maggior parte delle scelte di campo vanno inquadrate nel loro contesto specifico e che la stragrande maggioranza dei soldati era mossa dal desiderio di tornare a casa più che da qualunque ideologia. Ed è vero anche che la percentuale di chi si trovò a collaborare con i tedeschi è meno irrilevante di quanto si sia sostenuto finora (si parla di circa il 20%). Tuttavia le autrici sembrano operare una esplicita scelta di campo accusando di ingenuità o voluta malafede chi scelse di resistere ai tedeschi o, peggio, di allearsi coi partigiani. D'altronde le fucilazioni e i crimini commessi dai tedeschi vengono presentati come la naturale risposta ad un tentativo di resistenza mentre le diffidenze reciproche e le difficoltà dell'esperienza partigiana (comprese fame, freddo, malattie...) paiono il risultato di una consapevole strategia comunista volta allo sterminio degli italiani: un'ipotesi senza fondamento documentario se non nelle illazioni di alcuni reduci, peraltro pochissimi rispetto alla massa. Non è un caso se i crimini tedeschi vengono elencati in forma neutra, senza alcuna enfasi, mentre le sofferenze patite per responsabilità dei partigiani sono invece descritte nei dettagli, indulgendo in particolari raccapriccianti, con lo scopo di suscitare empatia con le vittime e odio verso i persecutori.
Le pagine più drammatiche sono poi quelle della terza parte del volume, dedicate alla prigionia, e particolarmente quelle relative ai campi jugoslavi. Anche in questo caso si percepisce un tentativo di equiparazione tra nazisti e comunisti. Vittime e carnefici vengono così posti su piani diversi a seconda dell'appartenenza nazionale: i crimini italiani contro le popolazioni balcaniche sarebbero una comprensibile risposta alle violenze subite da parte dei resistenti; le innumerevoli stragi commesse dai nazisti, anche a danno degli italiani catturati, sarebbero una “naturale” reazione al tradimento; i singoli casi di esecuzioni o di vendette da parte dei movimenti di resistenza balcanici sono invece presentati sotto una fosca luce di barbarie quasi primitiva.
Una critica al modello comunista staliniano, adottato in larga misura dai movimenti partigiani a guida comunista durante la seconda guerra mondiale è del tutto condivisibile, e potrebbe anzi rappresentare il tema di un nuovo volume, le cui fonti principali devono essere costituite dai documenti degli stessi protagonisti e non dalla propaganda avversa. Non si può però sminuire il valore morale della scelta di tanti patrioti così come non si può equiparare l'operato dei nazisti a quello dei partigiani greci o jugoslavi. Questo è un tentativo inaccettabile – soprattutto da parte di una casa editrice titolata e a grande diffusione - di distorsione della realtà storica.
Dopo la lettura di questo volume sembra dunque necessario ribadire alcuni concetti chiave, banalità che dovrebbero essere assodate, almeno per la comunità degli storici. L'Italia fascista ha condotto nei Balcani la più assurda politica imperiale, imponendo il suo dominio con la forza su nazioni indipendenti. Centinaia di migliaia di soldati italiani sono stati indotti per due anni e mezzo a commettere crimini spregevoli nei confronti delle popolazioni civili, non per colpa dei partigiani ma a causa di una inaccettabile strategia punitiva adottata dagli alti comandi militari in perfetta sintonia con la politica fascista. Dopo l'Armistizio quegli uomini si sono trovati in balia della situazione a causa della criminale stupidità dei vertici dell'esercito e della Monarchia. Erano soldati di un paese sconfitto abbandonati in terre dove avevano commesso crimini di guerra; non era affatto scontato che popolazione e partigiani li accogliessero fraternamente, come in realtà è accaduto nella maggioranza dei casi. L'Italia fascista è scesa in guerra a fianco del nazismo, ha lottato fianco a fianco con le SS, ha combattuto anche per difendere un sistema di potere di cui Auschwitz era una parte significativa. Per fortuna molti hanno trovato la forza, l'opportunità e il coraggio per cambiare schieramento, dopo l'Armistizio. Hanno lottato per liberare l'Europa dal nazismo, che propugnava lo sterminio etnico e razziale come fede politica. Non scordiamolo.

 

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