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Maria Chiaia, Donne d’Italia. Il Centro Italiano Femminile, la Chiesa, il Paese dal 1945 agli anni Novanta, Roma, edizioni Studium, 2014, pp. 401

(Elena Musiani)

 

Il denso volume di Maria Chiaia va ad arricchire la bibliografia sulla storia del Centro italiano femminile (Cif), caratterizzata in particolare dal libro del 1995 a cura di Cecilia Dau Novelli (Donne del nostro tempo: il Cif 1945-1995), e quello del 2001 di Fiorenza Taricone (Il Cif dalle origini agli anni 70), entrambi frutto di ricerche svolte a partire dai documenti conservati nell’archivio del Cif nazionale, riordinato nel 1993 e riconosciuto di notevole interesse storico dalla Soprintendenza archivistica per il Lazio nel 1996. A questi saggi, che tracciano una storia del centro a livello nazionale, vanno poi ad aggiungersi i numerosi studi svolti dalle differenti sezioni locali dell’associazione.
Il libro di Maria Chiaia sceglie una cornice storico-cronologica dove centrale diviene la conquista di una cittadinanza femminile: si apre infatti agli albori della Repubblica italiana, con il referendum del 2 giugno 1946 e la con la conquista del voto alle donne e si sviluppa lungo un arco cronologico che giunge agli anni Novanta del XX secolo, chiudendo con le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della conquista di quel diritto. Una storia che ha come focus la riorganizzazione dello spazio pubblico femminile, grazie anche alla presenza delle due principali associazioni che andarono organizzandosi fin dal 1944 sul fronte laico e su quello cattolico: l’Unione donne italiane e il Centro italiano femminile.
Le basi per la creazione del Centro italiano femminile furono poste nell’ottobre del 1944 in occasione di una riunione presso la casa degli Assistenti dell’Azione cattolica a Roma, con l’idea di riprendere l’eredità dell’associazionismo femminile cattolico. Un contributo essenziale venne anche dall’impegno delle donne cattoliche nella Resistenza, prima fra tutte Maria Federici, presidentessa del Cif e una delle cinque donne chiamate a far parte della commissione che avrebbe dovuto elaborare il progetto per la Costituzione Repubblicana. La stessa Federici ricordava come se anche la «data ufficiale del Cif» fosse da situare ai primi del 1945 la «genesi» dell’associazione «si svolse il 1944 in sedute pur esse clandestine, benché non segrete, […] che a buon diritto possono essere considerati un aspetto saliente della Resistenza» (p. 43). In questa fase originaria della ricostituzione di un associazionismo femminile dopo gli anni del fascismo, intensi furono i rapporti con l’Unione donne italiane: «nei primi programmi di lavoro preval[s]e un comune desiderio di liberarsi dalle pastoie di una condizione socio culturale più che depressa» (p.43). A differenza dell’Udi, il Cif non prevedeva l’adesione al partito, e la struttura era federativa: era prevista la formazione di comitati provinciali, comunali (cui a partire dal 1971 si aggiunsero quelli regionali).
La storia del Cif è qui tracciata dall’autrice in connessione con le tappe principali dell’evoluzione storico-politica e sociale dell’Italia repubblicana. Ogni capitolo, dei sette che costituiscono la prima parte del volume, presenta una breve sintesi degli avvenimenti, un inquadramento più specifico sul ruolo e la presenza della Chiesa nella vita pubblica italiana e una sezione più consistente sul rapporto tenuto dal Cif nei confronti di queste istituzioni. Le cesure storiche scelte coincidono con i principali decenni che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento, un secolo che l’autrice sceglie di terminare con gli anni Novanta, da un lato per inserirsi in quella scelta di celebrare al contempo i cinquant’anni dell’associazione e del voto alle donne, dall’altro per aderire all’interpretazione storiografica che definisce il Novecento come “secolo breve”.
Interessante in questa prima parte è la ricerca di un nesso tra la storia nazionale e l’attività del Cif, volta ad evidenziare come quell’associazione nascesse certamente con un’apertura alla donna come soggetto pubblico (una delle prime battaglie fu quella contro l’astensionismo femminile), senza perdere di vista la centralità del privato e della famiglia. L’attività del Cif fu fin da subito intesa «in un continuo sconfinamento tra civile e politico, etico e religioso e riguardava[…] soprattutto la tutela dei minori, della lavoratrice madre e il consolidamento della famiglia, fondamento dell’ordine etico-sociale e della comunità nazionale» (p. 49). Scopo del Cif fu quello di porsi come perno per la creazione di «una coscienza civile e solidale», che doveva partire dal privato per estendersi al pubblico e avrebbe dovuto portare alle realizzazione di «una capillare rete dei servizi, una sorta di welfare moderno» (p. 51). Da qui l’attenzione rivolta nel secondo dopoguerra ai reduci ed alle loro famiglie, alle donne del sud d’Italia ed all’infanzia, così come numerosi furono gli interventi volti a favorire l’educazione femminile e l’inserimento nel mondo del lavoro. Un accento particolare viene inoltre posto sul progressivo spostamento dello sguardo dell’associazione dal nazionale, all’Europa e poi alla mondializzazione. L’autrice sceglie infatti di ricordare tra i momenti fondativi del Cif la partecipazione alle conferenze mondiali sulla donna a partire da quella di Città del Messico del 1975, fino alla conferenza Onu di Pechino del 1995.
Continuità e cesure sono i due elementi che segnano nel complesso questa narrazione, laddove la rottura più significativa è quella con le scelte e i valori del femminismo degli anni Settanta e di conseguenza anche con l’altra associazione femminile, l’Udi, che di quegli ideali si fece in certo senso “la portavoce”.
La prima parte del volume si chiude con un’interessante appendice documentaria che sceglie come fonti principali la rivista ufficiale dell’associazione – inizialmente «Bollettino», poi «Cronache» e dal 1962 «Cronache e Opinioni» – e gli Atti dei congressi nazionali.
Gli editoriali di «Cronache e Opinioni» dal 1989 al 1997 costituiscono inoltre il fulcro della seconda parte del volume intitolata: Gli anni della grande transizione. Questa sezione si presenta come una narrazione autobiografica, dove l’autrice sceglie di pubblicare alcuni degli editoriali da lei scritti per la rivista negli anni della sua presidenza, segnati dal grande cambiamento dell’orizzonte europeo e mondiale e rappresentano al contempo un interessante spaccato sulle scelte e sulle posizioni dell’associazione in quel difficile e contrastato momento storico.
Ricco di spunti, il volume, che si chiude con una ricca bibliografia, offre nel complesso una interessante sintesi della storia dell’associazione.

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Stefania Bazzanella

Abuelas y Madres de Plaza de Mayo, H.I.J.O.S. y Nietos. Un percorso di conoscenza dell’Argentina attraverso alcune interviste

  

Agli occhi degli italiani l’Argentina appare come una seconda patria, quella che accolse milioni dei nostri progenitori a cavallo fra il XIX ed il XX secolo. Fiumi di persone si diressero verso questa terra remota con la speranza di incontrare un luogo che potesse garantire un buon futuro alle generazioni a venire. Così, nello storico quartiere italiano della Boca, nacque il tango, l’affascinante ballo di coppia che attira ogni anno orde di turisti.
L’Argentina, però, è stata purtroppo teatro di uno dei genocidi più cruenti della storia. Negli anni dal 1976 al 1983 il potere fu detenuto da una giunta militare che instaurò nel paese una feroce dittatura; il risultato fu la scomparsa di circa 30.000 persone, persone che ebbero la sfortuna di essere annoverate tra i nemici dello Stato (Nota 1). Fu un periodo devastante per questa terra di migranti e molti dei discendenti degli italiani che l’avevano abbracciata con speranza finirono coinvolti in questo ciclone della morte, che con la sua furia attirò a sé tutti coloro che avevano un’opinione divergente da quella imposta dal governo.
La reazione di gran parte della popolazione fu quella di rinchiudersi nel silenzio più assoluto. Era fondamentale calibrare il peso di ogni parola poiché una di troppo avrebbe portato alla morte. Questo muro che si era creato all’interno della società non riuscì però a fermare un gruppo di donne che cominciò ad urlare a gran voce ciò che i militari cercavano di tenere nascosto dietro un palco di menzogne. Successivamente, durante la democrazia, furono affiancate da un gruppo di giovani che, stanchi dell’impunità imperante, decisero di lottare pacificamente per cambiare il corso degli eventi.
Rompere il muro del silenzio però, come si sa, è un’azione che necessita tempo.
La battaglia cominciata negli anni Settanta prima dalle Madres de Plaza de Mayo (Madri di Piazza di Maggio) e poi in seguito dalle Abuelas de Plaza de Mayo (Nonne di Piazza di Maggio, associazione nata successivamente a quella delle Madres) è una lotta che non ha fine e grazie alla tenacia di queste donne è riuscita ad ingrossare le file delle associazioni che si occupano dei diritti umani. La testimonianza di persone che hanno vissuto sulla propria pelle il clima di terrore che imperversava nell’Argentina di quegli anni è anche un modo per comprendere il bisogno di una lotta odierna che non può dirsi conclusa. I nietos (nipoti) che le Abuelas cercano assiduamente vivono ancora una schiavitù inconsapevole, in quanto sono stati catapultati involontariamente in una realtà fittizia che non appartiene loro, occorre quindi lottare per ristabilire anche questa verità. 
Attraverso un lungo soggiorno in Argentina e l’ascolto diretto dei testimoni, il mio lavoro di tesi si è concentrato sul cercare di comprendere l’opera intrapresa da tali associazioni (Nota 2). Grazie ad alcune interviste sono infatti riuscita a ricostruire la storia di Madres, Abuelas e H.I.J.O.S. (associazione Figli e figlie per l’identità e l’ingiustizia contro la dimenticanza ed il silenzio) e a capire come queste associazioni mantengano viva la memoria di quegli anni. Il confronto delle testimonianze orali con fonti coeve mi ha permesso di unire i tasselli del mosaico della storia argentina coniugando quindi l’esperienza del mondo privato con quella del pubblico.
I racconti di queste persone mi sono apparsi come fiumi in piena che per continuare a scorrere hanno bisogno di straripare. Al di là della mia singola esperienza, ascoltare le parole di chi è stato messo a tacere per troppo tempo è un passo necessario per sanare le ferite del passato e riportare alla luce storie di vita che rischiano di rimanere sconosciute. Come è stato detto la memoria è «l’atto narrante di un individuo in un contesto sociale, nel tentativo di conferire significati condivisibili a certi eventi, o aspetti del mondo ed eventualmente di metterne in secondo piano altri» (Nota 3). Il racconto di questi eventi è proprio parte del tentativo di creare una memoria che sia il più possibile condivisa e che aiuti a far chiarezza sul passato.
Il problema principale del ricordo, però, è la sua imprecisione. Il processo del ricordare permette di rielaborare e trasmettere significati del passato al presente attuale. È inevitabile quindi dover tener conto della possibile presenza di lacune o contraddizioni. Chi si mette in gioco ed affronta questo procedimento spesso si lascia coinvolgere dalle emozioni e ciò può portare alla modifica del ricordo. L’aggiustamento costante è una conseguenza necessaria per poter vivere nel presente. Quest’incompletezza della memoria a volte può avere anche un risvolto positivo; rielaborare un ricordo significa anche scontrarsi con significati del passato che in precedenza non erano apparsi evidenti.
Le interviste sono dei momenti molto intimi in cui spesso, se prive di una struttura rigida, ci si abbandona ad un racconto impetuoso in cui emergono informazioni inaspettate che, tuttavia, completano maggiormente il quadro della situazione. Un esempio lampante è un avvenimento fondamentale della vita di Irma Roja, una abuela da me intervistata: la morte del nipote.
Si tratta di un episodio avvenuto qualche anno fa, ma connesso strettamente con i tempi bui della dittatura. Riguarda il figlio del secondogenito di Irma, Horacio Antonio Altamiranda, sequestrato assieme alla moglie il 13 maggio del 1977.
Il bambino assistette al sequestro dei genitori e in età adulta, incapace di cancellare quel tremendo ricordo, morì suicidandosi. Ascoltare questo nuovo lutto nella famiglia di Irma ha significato comprendere ancora di più il perché sia necessaria questa lotta odierna, il come eventi passati continuino a riemergere e a pesare sul cuore di molti e su un’eventuale pacificazione della società.
Un altro tema fondamentale, ribadito durante l’intervista, concerne l’impossibilità di piangere il proprio figlio in un luogo concreto. La mancanza di una tomba, come afferma Irma, la pone in una condizione temporale non determinata. La sua continua lotta vuole essere una battaglia per riportare a galla la verità, poter finalmente sapere dove posare un fiore in ricordo di suo figlio. Le lacune che caratterizzano le vicende dei desaparecidos vanno colmate per poter dare una forma definita, anche fisica, alla loro memoria.
Il vissuto dei protagonisti diventa di fondamentale importanza, e l’ascolto diretto delle loro testimonianze aumenta il peso del loro vissuto. Leggere ad esempio che il nieto Pablo Gaona Miranda ha dovuto cambiare le generalità dopo l’esito del test del Dna non è lo stesso che udire con le proprie orecchie cosa veramente significhi abbandonare da un giorno all’altro un’intera vita: non solo perdere il nome proprio, Leandro, datogli dagli “appropriatori” (le famiglie cui venivano affidati i figli dei desaparecidos), bensì scavare in un nuovo passato, interrompere relazioni familiari, andare alla scoperta della famiglia che aveva perseverato durante gli anni nella ricerca del ragazzo, crearsi una nuova identità che in verità è quella che gli era stata data inizialmente assieme al dono della vita.
Ascoltare in prima persona la storia di vita di Pablo mi ha fatto comprendere come l’esistenza di questi adulti sia stata pilotata sin dall’infanzia.
Nel caso di Pablo, ad esempio, nel momento in cui questi rimase disoccupato, gli venne proposta la carriera militare dal padrino che, da militare, cercò di intercedere affinché Pablo potesse entrare nel Collegio militare della nazione. Posizionare il figlioccio in un posto lavorativo così antitetico alle vicende dei genitori biologici risultava essere una perfetta copertura per proseguire con l’occultamento della verità e per legare ancora di più il “figlio” alla nuova famiglia. È questo uno dei motivi per cui le associazioni si impegnano costantemente nella divulgazione degli episodi del quinquennio dittatoriale, unico modo per far sorgere dei dubbi nei giovani che hanno notato alcune anomalie all’interno del loro nucleo familiare, sapendo di essere nati all’epoca dei desaparecidos.
Lo stesso Pablo ha ribadito più volte come sia stato fondamentale l’ascolto di un nieto ritrovato e come la televisione possa essere utilizzata positivamente in questo senso, ovvero per cercare di risvegliare gli animi assopiti di coloro a cui è stata rubata un’intera vita.
Anche la vicenda di Carlos Rice Cabrera, un membro dell’associazione H.I.J.O.S., è piuttosto peculiare, nonostante sia nato in epoca “democratica” (1985) e abbia avuto la fortuna di crescere affiancato da entrambi i genitori, questi ultimi per un certo lasso di tempo sono stati annoverati nelle lunghe liste di desaparecidos riuscendo però, grazie ad un’abile mossa diplomatica da parte dell’ambasciata irlandese, ad uscire incolumi dai luoghi di prigionia. La vita del padre, mutata radicalmente già in precedenza dopo aver abbandonato l’abito talare per essersi innamorato della sua compagna di prigionia, ebbe un’ulteriore svolta dopo la liberazione. Il suo impegno divenne quello di dedicarsi interamente alla lotta per i diritti umani.
Ascoltando i racconti di Carlos, si evince come quest’episodio abbia determinato la sua educazione familiare e come sin da piccolo sia stato a stretto contatto con svariate organizzazioni operanti in tale ambito. Dopo la prematura morte del padre, Carlos prosegue con maggior entusiasmo la causa abbracciata da quest’ultimo presenziando attivamente agli eventi, ma non solo, dell’associazione di cui fa parte.
In verità, la stragrande maggioranza dei giovani argentini milita nelle file di un partito o in organizzazioni per i diritti umani. L’attiva partecipazione del mondo giovanile alla sfera politica è un aspetto che mi ha colpito particolarmente, soprattutto se comparato al sistema italiano.
Sicuramente gli eventi vissuti nel secolo scorso hanno inciso sull’affluenza alle manifestazioni politiche del paese; il messaggio è chiaro: il passato non deve ripetersi, anzi deve essere una lezione che va scolpita nella mente. Ecco perché aver ascoltato Carlos, ma anche altri giovani militanti, ha significato recepire l’amore che questi nutrono per la loro madrepatria ed il loro grande desiderio, nonché bisogno, di dare forma a questa memoria attraverso le svariate attività che propongono.
Dopo aver ammirato le piastrelle commemorative create da una delle commissioni di H.I.J.O.S., in ricordo delle vittime della dittatura, il semplice passeggiare nelle chiassose vie di Buenos Airesha acquisito un nuovo significato. Imbattersi in una di queste opere d’arte voleva dire fermarsi, riflettere, ragionare sull’importanza del dare un nome, un volto a questi 30.000 desaparecidos.
L’incontro con Carlos mi è stato inoltre di grande aiuto dal punto di vista pratico. Grazie a lui sono venuta a conoscenza dell’esistenza di alcuni processi settimanali, denominati “giudizio e castigo” che oltre a rispondere al bisogno di giustizia, sono fondamentali per divulgare quanto accaduto e per costruire una memoria collettiva.
Non tutto però procede in maniera lineare, il lavoro delle diverse associazioni si è infatti diviso in seguito ad alcuni avvenimenti.
L’intervista che ho potuto fare a due delle Madres dell’associazione Madres de Plaza de Mayo (Mercedes de Medoño e Elsa De Manzotti) mi ha permesso di capire il distacco reale che esiste fra le due associazioni Madres de Plaza de Mayo e Madres de la Línea Fundadora.
Lo spartiacque che si è creato con l’avvento della democrazia di Alfonsín e la sua offerta di un indennizzo, come riparazione morale per acquietare la rabbia delle Madres, ha determinato una frattura che ha spaccato irrimediabilmente la piazza che le aveva unite, facendole schierare su due fronti opposti. Le due Madres che ho intervistato hanno ribadito più volte come la loro posizione ideologica divergesse da quella delle Madres de la Línea Fundadora, citando ad esempio il pañuelo (fazzoletto), simbolo emblematico di entrambi i gruppi.
Il loro fazzoletto non porta più il nome del figlio/figlia desaparecido bensì la scritta aparición con vida (apparizione con vita), scritta che sintetizza il desiderio delle Madres di abbracciare una maternità collettiva estesa a tutti i 30.000 desaparecidos.
La rigidità con cui si è sviluppata l’intervista ha fatto trapelare il loro timore di essere additate come portavoce del governo Kirchnerista, nonché fruitrici di sovvenzioni statali che le hanno coinvolte in uno scandalo di corruzione e cooptazione. La continua partecipazione dell’associazione all’attività del governo prima di Néstor e successivamente di Cristina Kirchner le ha messe in cattiva luce, soprattutto quando la presidente Hebe de Bonafini è stata accusata di riciclaggio di denaro nel progetto Sueños Compartidos.
Per questo motivo le due Madres ci hanno tenuto a sottolineare la apolicità dell’associazione, nonostante ammettano una certa gratitudine nei confronti dell’ex-presidente, il primo che mise memoria e diritti umani fra le priorità del suo programma.
Il lavoro per il ricordo dei loro figli è comunque strettamente connesso al governo Kirchnerista, promotore di progetti della memoria, e lo si nota chiaramente entrando nella Casa de las Madres. Vicino alle foto ed ai fazzoletti che pendono dal soffitto si scorgono le foto dei Kirchner assieme ad altre icone del populismo argentino.
Ciò dimostra come la società argentina abbia un estremo bisogno di riunire i pezzi della sua storia frammentata per fare chiarezza sulle varie ombre che oscurano il suo passato e come per fare questo si affidi a personalità politiche in grado di incidere sull’opinione pubblica. La creazione di una memoria collettiva è indispensabile, in quanto percepita come restituzione sociale; la negazione della morte delle vittime non dovrà mai essere accompagnata dalla negazione della loro memoria e per continuare in questa direzione è necessario che l’intera società lavori per un obiettivo comune. Per questo le associazioni, e le diverse persone che ne fanno parte, si impegnano quotidianamente in attività di vario genere. Conoscere queste persone e poter ascoltare le loro parole mi ha permesso di comprendere l’importanza di questo percorso.

  

NOTE:

Nota 1 Numerosi sono gli studi che si sono occupati della dittatura in Argentina; per una sintesi si veda M. Novaro, V. Palermo, La Dictadura Militar 1976/1983: del golpe de Estado a la restauraciòn democrática, Paidòs, Buenos Aires 2003. Torna al testo

Nota 2 La tesi magistrale dal titolo Argentina oggi. Abuelas y Madres de Plaza de Mayo, H.I.J.O.S, Nietos, è stata discussa nell’a.a 2012-2013 presso l’Università degli Studi di Bologna, Scuola di Lingue e letterature, traduzione e interpretazione, Corso di Laurea magistrale in Lingua e cultura italiana per stranieri; relatore prof.ssa F. Tarozzi, correlatori dott.ssa S. Salustri, prof. Roberto Vecchi.  Torna al testo

Nota 3 L. Passerini, Storia e soggettività, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1988, p. 107.  Torna al testo

 

Questo contributo si cita: S. Bazzanella, Abuelas y Madres de Plaza de Mayo, H.I.J.O.S. y Nietos. Un percorso di conoscenza dell’Argentina attraverso alcune interviste, in «Percorsi Storici», 3 (2015) [www.percorsistorici.it]

Questo contributo è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia

 

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Natalja Puzina

I campi di concentramento in Estonia durante la seconda guerra mondiale

 

Introduzione

L’Estonia uscì ufficialmente dall’orbita sovietica ben vent’anni fa e nel 2004 aderì all’Unione Europea e alla Nato. Ciononostante, si tende ancora ad associare la storia di questo piccolo paese baltico alla storia dell’Urss e all’ideologia comunista. Quest’associazione è facilmente comprensibile, poiché mezzo secolo di controllo da parte dell'Unione Sovietica (Nota 1) costituisce un'eredità significativa, che ha lasciato molte tracce nei Paesi baltici. Se poco si sa della storia dell'Estonia in generale, ancora meno conosciuta è la sorte di questo paese durante il periodo che più ha segnato il suo destino: la seconda guerra mondiale. Sia in Estonia sia all’estero, ad esempio, non si sa, oppure a volte si ignora, che durante il secondo conflitto mondiale gli estoni subirono, oltre a quella sovietica, anche l’occupazione nazista. Quest’ultima, durata dal 1941 al 1944, portò inevitabilmente il popolo estone a combattere accanto alla Wermacht (non di rado volontariamente). Partendo da tale premessa, lo scopo di questo contributo sarà di fare luce proprio sull’occupazione nazista in Estonia. In particolar modo, verrà messo a fuoco lo strumento di repressione attuato dai nazisti con la collaborazione della popolazione locale, ovvero, i campi di concentramento (Nota 2). Nonostante la mancanza di un’esaustiva documentazione a riguardo, è comunque possibile stilare un quadro generico e soffermarsi su alcuni dettagli che caratterizzarono il fenomeno. Ciò sarà fatto grazie alle, seppur scarse, fonti ufficiali sovietiche ed estoni, alle analisi dei ricercatori contemporanei, nonché alle testimonianze dirette dei prigionieri, riportate nei diari o nelle interviste.

 

L’occupazione nazista

Malgrado il patto di non-aggressione stretto con i sovietici, la Germania nazista decise di attaccare l’Urss, avanzando rapidamente verso il fronte orientale. Il 22 giugno 1941 iniziò l’operazione Barbarossa. Partendo dal sud dei Paesi baltici, già nell’ottobre dello stesso anno, le truppe tedesche completarono l’occupazione di tutta l’Estonia. L’arrivo dei nazisti comportò la totale riorganizzazione delle strutture civili e, in primis, di quelle militari. Su ordine dei nazisti fu costituito il Commissariato del Reich per il territorio orientale (Reichskommissariat Ostland), gestito dal commissario Hinrich Lohse. I cosiddetti territori orientali (Ostland), che comprendevano i Paesi baltici, più la Bielorussia, caddero sotto la giurisdizione del Ministero per i territori occupati orientali (Ostministerium), costituito il 17 luglio 1941 e gestito da Alfred Rosenberg (Nota 3). All’interno del Reichskommissariat Ostland, ogni stato aveva un proprio distretto generale (Generalbezirk), guidato dai Commissari generali nazisti (Generalkomissare). A Tallinn questo ruolo veniva ricoperto da Karl Litzmann. Allo stesso tempo, furono costituiti i cosiddetti Direttorati, ovvero le amministrazioni locali autonome (Landseigene Verwaltungen). Il Direttorato estone (Nota 4) era sottoposto al direttore Hjalmar Mäe. Tale organo di amministrazione locale fu costituito per facilitare la gestione del territorio, permettendo ai tedeschi di risparmiare le proprie risorse. Inoltre, l’autonomia concessa al Direttorato permetteva all’amministrazione locale di mantenere le proprie forze di polizia, le quali, assieme ai tedeschi, partecipavano alla cattura ed esecuzione di ebrei, zingari o estoni, questi ultimi considerati nemici e “occupanti” per i legami (veri o presunti) che avevano con i sovietici. In seguito, tali forze di polizia furono inserite all’interno della Polizia di sicurezza (Sipo (Nota 5)) estone, a sua volta suddivisa in vari dipartimenti. Un ruolo particolarmente importante era svolto dal dipartimento B IV (Polizia politica) che tra le sue competenze aveva quella di attuare la persecuzione politica delle organizzazioni religiose e degli stranieri immigrati sul territorio estone, tedeschi esclusi, di occuparsi della “questione ebraica” e, successivamente, anche dei campi di rieducazione al lavoro (Arbeitserziehungslager, AEL).
I tedeschi, per promuovere la collaborazione, scelsero una forma di governo non aggressiva, basata su di una presunta fiducia. È importante sottolineare, a tal proposito, che l’arrivo dei nazisti fu accolto positivamente in Estonia. Infatti, mossi dall’ostilità nei confronti dei sovietici e dal desiderio di vendicarsi per le deportazioni di massa del 1941 (Nota 6), gli estoni accolsero i tedeschi come dei liberatori, sperando che il loro arrivo sul territorio permettesse all’Estonia di riottenere l’indipendenza. Tale atteggiamento di collaborazione svolse un ruolo importante nel raggiungimento degli obiettivi sociali, ideologici ed economici dei nazisti.

 

I campi di concentramento estoni

Com’è ben noto, l’occupazione dei territori da parte dei nazisti comportava l’attuazione della politica nazista del terrore e della repressione. Di essa facevano parte svariate tipologie di campi di concentramento che ospitavano diverse categorie di detenuti. Parlando dei campi sorti in Estonia, occorre innanzitutto precisare che non si trattava di campi di sterminio, giacché non ci furono né camere a gas, né furono svolti esperimenti sui detenuti. Si trattava, invece, di campi di concentramento dove i deportati trovavano la morte fisica e mentale: per fame o attraverso fucilazioni di massa eseguite in luoghi appartati, nel primo caso; poiché costretti a vivere in luoghi separati dal mondo esterno, sottoposti a lavori forzati e umiliazioni, nel secondo. Due erano le categorie di campi estoni. La prima comprendeva i luoghi di detenzione che, nonostante fossero sotto il controllo dei tedeschi, vennero lasciati in gestione agli estoni e, in particolar modo, dal 1942 furono gestiti dalla Sipo e SD estone. L’autonomia concessa agli estoni nella gestione di questi campi costituisce un fatto spesso ignorato o sottostimato. All’inizio, si trattava perlopiù di ex prigioni o di campi improvvisati, poi, nel 1942 alcuni di essi furono riorganizzati e ufficialmente rinominati campi di rieducazione al lavoro, AEL (Arbeitserziehungslager). Gli AEL comprendevano una struttura in cui i detenuti abitavano e lavoravano e un luogo dove avvenivano le esecuzioni appartato, spesso rappresentato da un fosso anticarro. Per quanto riguarda i prigionieri essi furono, dapprima, detenuti politici e criminali comuni e, successivamente, anche zingari ed ebrei estoni  provenienti dall’estero.
La seconda categoria è quella che s’identifica nella rete dei campi di Vaivara, situata nel nord-est dell’Estonia, un sistema di campi subordinato all’Ufficio centrale economico e amministrativo delle SS (WVHA), gestito dai tedeschi. Il campo principale della rete (Stammlager) si trovava nell’omonima località di Vaivara, mentre il resto dei sottocampi (Aussenlager) (Nota 7), tanti dei quali esistettero solo per un breve periodo, era collocato nella zona circostante. Creato nel 1943, il campo di Vaivara, a differenza di quelli di rieducazione al lavoro, fu un vero e proprio campo di concentramento (Konzentrazionlager), che rientrava nell’elenco ufficiale dei campi di concentramento nazisti (Nota 8). Che utilità avrebbero potuto avere per i tedeschi dei campi del genere in un paese così piccolo?
Dal 1942, la Germania iniziò a subire delle sconfitte nelle regioni del Caucaso ricche di petrolio. Fu per questo motivo che, nel gennaio del 1943, le truppe tedesche iniziarono a ritirarsi da quei territori. L’accesso al Mar Caspio e alle fonti di petrolio era ormai precluso per la Germania nazista, la quale per coprire il proprio fabbisogno fu costretta a cercare di altri luoghi di approvvigionamento delle materie prime e individuò negli impianti di scisto bituminoso del nordest dell’Estonia una valida alternativa. Fu qui che venne impiegata la manodopera forzata, rappresentata in un primo momento dai prigionieri di guerra sovietici e, successivamente, anche degli ebrei stranieri (Nota 9).

 

Gli ebrei in Estonia 

I prigionieri dei campi estoni costituivano, secondo l’ideologia nazionalsocialista, un “gregge subumano” (Nota 10) che minava l’ordine pubblico. Gli elementi asociali, quali zingari, scansafatiche o prostitute, e i prigionieri di guerra sovietici erano portati in campi specifici (Nota 11) per svolgere lavori forzati. A essi si aggiungevano i prigionieri politici, identificati sostanzialmente con la minoranza russa del paese – sospettata di sostenere il regime comunista o di avere legami con i prigionieri di guerra sovietici – e, infine, gli ebrei locali e stranieri.
Per quanto riguarda gli ebrei, vale la pena menzionare che la società estone non era antisemita e che le politiche razziali importate dalla Germania nazista non ebbero successo in Estonia, almeno non dal punto di vista delle loro basi razziste. Tale fallimento si dovette al fatto che in Estonia la popolazione ebraica non costituiva un grande gruppo etnico. Infatti, nel periodo tra le due guerre, la popolazione ebraica in Estonia si attestava a circa 4.500 persone, di cui la maggior parte riuscì a scappare dal paese prima dell’arrivo dei nazisti. Nonostante la mancanza di un odio a sfondo razziale, si manifestò, quello a sfondo politico e sociale. Gli estoni disprezzavano gli ebrei in quanto li associavano al precedente regime sovietico, durante il quale si riteneva essi avessero ottenuto maggiore peso politico, occupando, in alcuni casi, incarichi importanti, persino negli organi repressivi. Inoltre, storicamente, gli ebrei avevano una maggiore affinità con i russi residenti in Estonia, piuttosto che con gli estoni nativi. Per questa serie di motivi, ciò che realmente ebbe successo in Estonia fu il mito dell’ebreo-bolscevico diffuso dai nazisti. Molti degli ebrei venivano arrestati in base ai loro presunti “sentimenti ostili nei confronti del popolo estone e dello stato” o perché ritenuti sostenitori dei comunisti e, pertanto, traditori del popolo. Nei casi in cui non fosse possibile comprovare tale accusa, allora gli ebrei venivano tacciati come nemici del nuovo ordine. È sorprendente osservare come, nei casi esaminati dallo storico estone Weiss-Wendt, non ci fosse alcun riferimento all’ideologia razzista (Nota 12).
Lo scarso numero di ebrei estoni fece di questo popolo una facile preda dei nazisti. Quasi tutti gli ebrei rimasti sul territorio estone durante la guerra, infatti, furono catturati e sterminati già nella prima metà del 1941, per un totale di 980 vittime. Il raggiungimento di tale “traguardo” fece sì che l’Estonia fosse proclamata il primo paese in Europa “libero dagli ebrei” (Judenfrei) alla Conferenza di Wannsee del 1942. I dati relativi agli ebrei nei campi di concentramento negli anni successivi riguardano solo ebrei stranieri.

 

Il campo di Klooga

Il campo di Klooga rappresenta il simbolo di tutti i campi di concentramento in Estonia. Si trattava di una filiale dislocata della rete di Vaivara, situata nelle vicinanze di Tallinn e creata per sfruttare la manodopera degli ebrei stranieri nelle officine, in un impianto di calcestruzzo e in una segheria. Il regime di Klooga era simile a quello di altri campi della rete di Vaivara e non era particolarmente rigido. Tuttavia, non mancavano atti di violenza, perpetrati sia dai “datori di lavoro” e dai comandanti del campo, sia dai loro aguzzini. Alcuni dei deportati nei loro diari o durante gli interrogatori ad opera dei sovietici nel dopoguerra] testimoniarono che nel campo furono inflitte pesanti punizioni corporee anche per una minima infrazione. Sempre secondo tali dichiarazioni, venivano perpetrati atti di violenza nei confronti delle donne e uccisioni dei malati (Nota 13). Tuttavia, a differenza di quanto si potrebbe pensare, i deportati disponevano di tempo libero in cui avevano la possibilità di leggere i giornali tedeschi e discutere sull’andamento della guerra. Allora perché, vista la “normalità” delle condizioni dei detenuti, Klooga è diventato il simbolo di tutti i campi di concentramento estoni? La risposta sta nel fatto che Klooga fu testimone della maggiore brutalità commessa in Estonia in un solo giorno, il 19 settembre 1944, durante la liquidazione del campo.
In vista della veloce avanzata dell’Armata Rossa e dello spostamento della linea di fronte nei pressi di Tallinn, tutti i campi nel territorio estone vennero liquidati in fretta, uno dopo l’altro. Il giorno in cui fu deciso di liquidare il campo di Klooga, a una parte dei deportati fu ordinato di recarsi nei boschi a pochi chilometri dal campo, per tagliare della legna. Una volta pronta, fu intimato loro di preparare delle cataste su cui, infine, dovettero stendersi per essere fucilati e poi bruciati. Successivamente, altri deportati furono condotti nel bosco e sterminati. Anche buona parte di coloro che rimasero nel campo ad aspettare vennero uccisi, dopo esser stati raccolti nelle baracche o negli spazi aperti del campo. Una volta portate a termine le esecuzioni, il 19 settembre il campo fu abbandonato dai tedeschi e, la mattina del giorno seguente, anche dalle guardie estoni. L’armata Rossa il 24 settembre giunse al campo di Klooga, dove scoprì lo sterminio di 1.800-2.000 persone e trovò circa 80 superstiti (Nota 14).
Sebbene il numero di vittime coinvolte in questo massacro sia paragonabile a quello di alcuni campi della rete di Vaivara, Klooga fu uno dei primi campi liberati dai sovietici e le pire, con i cadaveri ancora in fiamme, ebbero un forte impatto sui soldati e sui giornalisti sovietici. Klooga ricevette un maggiore rilievo mediatico anche da parte dei giornalisti occidentali, giunti sul luogo dopo la conquista di Tallinn da parte dell’Armata Rossa. Furono proprio quei giornalisti, infatti, a essere testimoni delle prime immagini dell’Olocausto: i grandi campi di sterminio sul territorio polacco e tutti gli orrori a essi legati dovevano ancora essere scoperti.

 

Conclusione

Quanto riportato in questo contributo è solo una goccia nel mare, rispetto a quanto accaduto nello stesso periodo nel resto dell’Europa, ma non per questo ha meno diritto di essere ricordato. La liquidazione del campo di Klooga pose fine alla triste storia dell’occupazione nazista in Estonia, ovvero, quel periodo spesso considerato come una mera parentesi tra le due occupazioni sovietiche. Ufficialmente, in Estonia si riconosce la tragedia dei deportati nei campi estoni, condannandola assieme a coloro che la resero possibile. Ciononostante, la società e alcuni storici estoni, non attribuiscono il giusto peso a tale tragedia, di cui una fetta del popolo estone fu in parte responsabile, avendo assunto un atteggiamento di collaborazione nei confronti dei tedeschi, senza praticamente opporre resistenza. Agli occhi degli estoni, infatti, la tragedia dei deportati nei campi dell’Estonia appare inferiore rispetto a quella da loro subita durante la lunga occupazione sovietica.
Ogni anno, laddove sorgeva il campo di Klooga, si commemorano le vittime ebree dell’Estonia (Nota 15) e il 27 gennaio è riconosciuto a livello istituzionale come il giorno della memoria. Tuttavia, non va dimenticato che il dramma ebraico, pur essendo quasi l’unico a essere sotto i riflettori a livello nazionale e internazionale, costituisce solo un tassello nel mosaico delle vittime dei campi estoni. Infatti, oltre agli ebrei, morirono circa 800 zingari, 9.000 prigionieri politici e 15.000 prigionieri di guerra: cifre significative per il piccolo paese baltico, che non possono certamente essere dimenticate.

 

NOTE:

Nota 1 L’Estonia subì due occupazioni sovietiche, la prima dal 1940 al1941 in seguito al patto Molotov-Ribbentrop, e la seconda, dal 1944 al 1991. Torna al testo

Nota 2 Questo articolo è un estratto dalla tesi di laurea I campi di concentramento in Estonia durante la seconda guerra mondiale. Un pezzo di storia sconosciuto da me presentata presso la Scuola di Lingue e letterature, traduzione e interpretazione campus di Forlì, Università degli Studi di Bologna, nell'anno accademico 2013-2014, relatore prof. M. Maggiorani, correlatore prof.ssa S. Slavkova. Torna al testo

Nota 3 Rosenberg era un tedesco baltico nato e cresciuto a Tallinn. Rosenberg fu noto per le sue idee antisemite che lo avevano portato già nel 1919 a concepire una teoria su un complotto mondiale giudaico-bolscevico-massonico. Torna al testo

Nota 4 Nonostante il Direttorato non godesse di una piena libertà d’azione, le sue competenze venivano esercitate in modo indipendente rispetto alle autorità tedesche e in conformità con le leggi della Repubblica estone, a meno che non ci fossero delle riserve o normative speciali imposte dal comando tedesco. Torna al testo

Nota 5 La Polizia di sicurezza e SD (Sipo e SD) in Estonia creata nel 1942 fu costituita da due uffici paralleli: la Sipo tedesca (detta anche gruppo A) e la Sipo estone (detta anche gruppo B), subordinati al Capo della Polizia di sicurezza e SD in Estonia e che erano formalmente sotto la giurisdizione del Capo dell'Amministrazione locale, Hjalmar Mäe. Torna al testo

Nota 6 Va ricordato che almeno l’1% della popolazione fu soggetto alle prime deportazioni sovietiche (circa 10.000 persone). Torna al testo

Nota 7 Si trattava di circa 22 sottocapi. Torna al testo

Nota 8 M. Maripuu, R. Västrik , Prison camps in Estonia 1941-1944,  inEstonia 1940–1945. Reports of the Estonian International Commission for the Investigation of Crimes Against Humanity, Tallinn 2006, p. 680. Torna al testo

Nota 9 M. Maripuu, Soviet prisoners of war in Estonia in 1941-1944, in Estonia 1940–1945, cit., pp. 764-765. Torna al testo

Nota 10 V. E. Giuntella, Il Nazismo e i lager, Studium, Roma 2008, p. 53. Torna al testo

Nota 11 In Estonia ci furono due categorie dei campi per i prigionieri di guerra: gli Stalag e i Dulag, subordinati al Comandante delle retrovie del Gruppo di armate nord e alle imprese che sfruttavano la loro manodopera: le tedesche Baltöl e l’Organizzazione Todt. Torna al testo

Nota 12 A. Weiss- Wendt è uno storico e ricercatore estone che ha dedicato i suoi lavori all’Olocausto in Estonia nonché allo sterminio degli zingari estoni. Vedi A.Weiss-Wendt,“Еврейские папки” inУбийство без ненависти, Syracuse University Press, Syracuse-New York 2009, p. 2. Torna al testo

Nota 13 Testimonianza di Seintraun, studente dell’Università di Vilnius, che fu deportato a Klooga. Vedi V. S. Grossman, I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici, 1941-1945, a cura di Arno Lustiger, Milano, Mondadori, 1999, p. 632 e Сборник архивных документовЭстония. Кровавыйследнацизма. 1941-1944, Европа, Mosca 2006, pp. 64, 85. Torna al testo

Nota 14 Vedi A. Weiss-Wendt, Murder without hatred: Estonians and the Holocaust, Syracuse, Syracuse University Press, 2009, p. 318. Torna al testo

Nota 15 Oggigiorno si conoscono i nomi di 980 vittime tra gli ebrei locali, mentre il numero degli ebrei stranieri sterminati in Estonia oscilla tra 10.000 e 20.000. Torna al testo

 

Questo contributo si cita: N. Puzina, I campi di concentramento in Estonia durante la seconda guerra mondiale, in «Percorsi Storici», 3 (2015) [www.percorsistorici.it]

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Saverio Ferrari, I denti del drago. Storia dell’Internazionale nera tra mito e realtà, BFS Edizioni, Pisa 2013, pp. 176

(Federico Chiaricati)

 

Il nuovo lavoro di Saverio Ferrari si concentra sul progetto elaborato, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, dai partiti e movimenti neofascisti e neonazisti allo scopo di costituire una rete transnazionale che potesse servire da centro decisionale per le varie realtà nazionali. Il merito di questo libro è duplice; da un lato decostruisce il mito dell’Internazionale nera, mito che, come sostiene l’autore, «si è alimentato in particolare nel primo dopoguerra con la paura del ritorno sulla scena dei protagonisti del passato fascista e nazista» (p. 143). Dall’altro Ferrari esegue anche un’interessante opera di “sprovincializzazione” del nazifascismo come fenomeno europeo nell’analisi di quelle formazioni (OAS - Organisation de l’armée secrète, Ordre et Tradition e Jeune Europe) che si affrancarono dai raggruppamenti legati al reducismo riuscendo a interagire direttamente con i fenomeni politici contemporanei, come la decolonizzazione (Ferrari dedica infatti molta attenzione alla guerra d’Algeria, vista come un vero e proprio spartiacque).
Riguardo al primo punto, come nota l’autore nelle sue conclusioni, l’Internazionale nera è esistita solo come centro di coordinamento, ma come struttura sovranazionale coesa e organizzata è rimasta perlopiù nelle intenzioni. Addirittura si è potuto constatare come siano esistite contemporaneamente più Internazionali nere, diversamente articolate e con visioni anche contrastanti fra di loro (si possono ricordare i motivi di attrito riguardanti la questione mediorientale o l’atteggiamento da tenere nei confronti degli Stati Uniti, ma non mancarono anche conflitti legati alla leadership personale).
A fronte di queste osservazioni diventano però centrali le analisi svolte, grazie anche ad un ampio uso di fonti giornalistiche e materiali d’archivio, sulle formazioni cui si è accennato in precedenza (OAS, Aginter Press/Ordre et Tradition e Jeune Europe). Ferrari, sostenendo che le origini dell’OAS risalgono circa al 1958, individua una triplice radice dell’organizzazione: l’inizio della guerra algerina (1954), la frustrazione per la sconfitta di Dien Bien Phu (1954) e la progressiva politica di disimpegno dall’Algeria da parte di De Gaulle dopo che questi aveva ottenuto l’appoggio alla presidenza da parte di un Comitato rivoluzionario di salute pubblica costituitosi ad Algeri nel 1958. Si può quindi capire come le radici costitutive dell’OAS fossero profondamente legate ad una realtà non più eurocentrica, nonostante i richiami all’uso della croce celtica (uno dei simboli dei volontari francesi delle Waffen-SS). Dopo la decapitazione dell’organizzazione (che in un paio di anni aveva ucciso più di duemila persone) molti dirigenti si rifugiarono, attraverso la Spagna, in Portogallo. Qui solo nel 1974, con la “Rivoluzione dei garofani” si scoprì un enorme archivio presso gli uffici dell’Aginter Press che conservava documenti relativi a un centro di reclutamento e addestramento dell’organizzazione fascista Organisation d’action contre le communisme International braccio militare di  Ordre et Tradition. Di estremo interesse, oltre alla presenza di un documento intitolato Notre action politique relativo alla strategia di Ordine Nuovo in Italia («infiltrazione, informazione e pressione dei nostri elementi sui nuclei vitali dello Stato»), sono i contatti e le attività svolte in Africa per assicurare la “presenza bianca” nel continente. Contatti non solo con Nazioni occidentali, ma anche con Sudafrica, Gabon e Rhodesia, coi quali si era progettato un golpe nella Repubblica congolese del presidente Massemba-Debat.
Ferrari utilizza un approccio simile per analizzare le radici dello sviluppo del neonazismo britannico, visto come risposta ad un flusso crescente di manodopera proveniente da India e Pakistan (nel 1957 venne fondata la White Defence League e nel 1958 il National Labour Party). Il Regno Unito acquisirà una posizione preminente solo con gli anni Ottanta (insieme al Front National francese, ma per diversi motivi), con la costituzione del raggruppamento Blood and Honour. Questa organizzazione fonda le proprie radici nella deriva neonazista di una parte del movimento skinhead inglese. Leader carismatico fu infatti Ian Stuart, fondatore del gruppo Skrewdriver e ispiratore dell’associazione RAC (Rock Against Communism). Il movimento, che come detto aveva alla sua base una identità già transazionale (quella skinhead) e che in breve tempo allacciò contatti (anche attraverso le tifoserie calcistiche) con molti paesi europei ed extraeuropei (in Italia con il Fronte Veneto Skinhead), rimase però profondamente legato al carisma di Ian Stuart. Quando questi morì improvvisamente nel 1993 il movimento si avviò verso una stagione di divisioni.
Sulla scia di Blood and Honour anche negli Stati Uniti si sviluppò sul finire degli anni Ottanta una scena neonazista particolarmente violenta, la Hammerskin Nation. Insieme a Combat 18 (vera e propria organizzazione armata e già protagonista di omicidi e atti squadristici) e ad Alba Dorata in Grecia queste organizzazioni possono essere definite le più significative e durature degli ultimi anni.
In conclusione, il lavoro di Ferrari, oltre a narrare gli sviluppi storico-politici e culturali del neofascismo e del neonazismo, riesce a raccontarne le vicende in una prospettiva allargata. I paesi europei, infatti, pur conservando il ruolo di centri di aggregazione, perdono la propria specificità storica e culturale. In questo senso, la strategia della tensione in Italia si inserisce in un più ampio panorama culturale internazionale e si intreccia non solo alle frizioni della guerra fredda, ma anche alle vicende legate alla decolonizzazione e al variegato movimento terzomondista. Il merito del libro è quindi quello di fornire una conoscenza ampia degli sviluppi del neofascismo internazionale e, contemporaneamente, di porre al lettore l’esigenza di analizzare storicamente e culturalmente il movimento antifascista degli ultimi trent’anni.



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Michela Morgante

This was Italy. Territori e monumenti in guerra nelle fotografie degli ufficiali alleati di tutela (1943-45)

 

Dal 1942 almeno la cultura americana, rispondendo agli appelli internazionali, cominciò a interrogarsi sulla necessità di adottare misure di protezione per i “cultural monuments” nelle aree di guerra, rendendo compatibile – per quanto possibile – la strategia militare in Europa con la fitta presenza di monumenti, opere d’arte, biblioteche e archivi (Nota 1). Le distruzioni in campo artistico fanno parte del capitolo più vasto dei crimini di guerra e come tali, durante il conflitto, divennero materia sia di intervento attivo, sia di azioni simboliche di propaganda, incrociate fra i due opposti schieramenti. La partita in gioco appare, a dire il vero, duplice. Da un lato la battaglia, percepita come prioritaria, per l’integrità e la restituzione delle opere d’arte trafugate dalle collezioni private e pubbliche nel corso delle ostilità (Nota 2). Dall’altro, la protezione di beni inamovibili come i monumenti, ineluttabilmente esposti agli effetti dirompenti del conflitto, attuata attraverso limitazioni ai bombardamenti sui centri storici, regole di acquartieramento negli edifici di valore culturale, forme di salvaguardia mirata su singoli beni (Nota 3).
Per concretizzare tutto questo dopo lo sbarco alleato in Sicilia venne istituito un corpo di specialisti angloamericani incaricati di coordinare una politica di intervento sul patrimonio colpito nelle zone liberate – misure delicate di primo soccorso, come la rimozione delle macerie, opere di puntellamento, rifacimento delle coperture. L’azione di questi Monuments Fine Arts & Archives officers, o monuments men come ha voluto consacrarli un po’ enfaticamente una recente fioritura editoriale (Nota 4), venne avviata a partire da un contesto sensibile d’arte e di paesaggio come quello nostrano. Presentata, allora quanto oggi, come un’impresa di portata epocale, tale azione di salvaguardia fu attentamente documentata, sia dai suoi protagonisti sia da osservatori esterni, per il tramite del mezzo fotografico. Le prime immagini MFA&A di cui finora disponiamo sono quelle scattate dal maggiore Paul Gardner alle macerie di Santa Chiara, pochi giorni dopo la liberazione di Napoli, nell’ottobre 1943. Preludio alle molte prodotte in seguito, fino all’autunno 1945: un cospicuo repertorio visivo sull’Italia segnata dal conflitto del quale cercheremo di ricostruire per sommi capi la vicenda nelle note a seguire.

 

1.     La fotografia come strumento di propaganda

Materia delicata, quella dei monumenti, e degli effetti “collaterali” della guerra totale a danno di beni d’arte cari alle popolazioni, il cui valore sul piano storico-critico spesso si confondeva con aspetti di identificazione comunitaria. Nella seconda fase del conflitto la questione dei danni al patrimonio culturale cominciò a intrecciarsi al nodo etico dell’aggressione sui civili, entrando nella querelle sollevatada una minoranza di pacifisti, ecclesiastici, osservatori di paesi neutrali, intorno alla difesa degli inermi. In coda alla denuncia delle violenze perpetrate sui centri abitati, dopo ospedali e scuole colpiti, anche lo scempio di musei e opere d’arte venne impugnato come argomento forte contro i bombardamenti a tappeto, sottolineando l’insensatezza di una violenza bellica cieca e sommaria (Nota 5). Rimessa in discussione la logica sovrana dell’aggressione generalizzata, anche negli ambienti militari emerse ineludibile la necessità di vagliare gli scenari d’attacco rispetto ad un calcolo costi/benefici che commisurasse il vantaggio strategico dell’azione alla distruzione procurata. Tra i militari americani gli ufficiali di tutela erano ovviamente i più consapevoli del fatto che il danno materiale fosse quasi interamente imputabile agli effetti della guerra aerea. E, nei limiti consentiti dal discorso pubblico, espressero abbastanza francamente la loro posizione circa le responsabilità degli Alleati nella devastazione dei territori nel teatro mediterraneo delle operazioni (Nota 6). Il messaggio del generale Eisenhower alle forze armate in Italia, del 29 dicembre 1943, recepì tutto questo a livello politico. Da lì in poi una serie di disposizioni affrontò il problema del comportamento delle truppe, sanzionando le requisizioni selvagge avvenute durante lo stanziamento del governo alleato a Napoli o episodi precedenti, durante l’occupazione in Tripolitania, quando i mezzi cingolati avevano violato le vestigia romane per consentire ai soldati di portare a casa una banale foto ricordo (Nota 7).
La macchina della comunicazione dei rispettivi governi cominciò poi a riservare alle opere d’arte danneggiate in guerra particolare rilievo. Un esplicito vincolo di segretezza copriva i luoghi bombardati e così anche per i documenti visivi che ritraevano i monumenti lesionati. Si limitò drasticamente la possibilità di produrre e far circolare rappresentazioni del danno utili al nemico, a partire da città come Milano, ad alto potenziale strategico, dove la Prefettura diramò il divieto di fotografare ai non autorizzati sin dal febbraio 1943. Ma anche una dotta disamina di carattere scientifico, come quella dedicata allo stato degli affreschi del Camposanto di Pisa da una elitaria rivista di settore nel febbraio 1945, fu tenuta a riportare in calce l’autorizzazione del War Office britannico (Nota 8). Le stesse rilevazioni prodotte nel corso delle attività MFA&A rivestivano, insieme al complesso del materiale fotografico realizzato nel corso delle operazioni, carattere confidential o restricted, tra le informazioni militari la cui diffusione era giudicata un rischio per la sicurezza nazionale (Nota 9).
D’altra parte, il richiamo mediatico delle città d’arte devastate rendeva questi materiali estremamente appetibili alle finalità di propaganda. In Italia l’esperienza concreta e quotidiana delle macerie, la visione dei relitti di monumenti con scritte provocatorie sul grado di inciviltà del nemico apposte da ignoti, venne nutrita dalla retorica a mezzo stampa sulla ferocia amorale degli alleati.
La tesi di uno scarso apprezzamento della cultura europea da parte degli americani, la minaccia delle razzie e devastazioni che avrebbero seguito la vittoria delle forze atlantiche (Nota 10) sono argomenti che vennero affrontati molto seriamente dagli Alleati, con strategia simmetrica. Un crescendo di sfida nella comunicazione tra i due schieramenti, soprattutto dopo l’evento shock del bombardamento di Roma, nel luglio 1943, parallelo all’andamento bellico.
Dall’estate 1943 New York Times e Herald Tribune, in edizione americana, pubblicarono periodicamente in forma di foto-notizia immagini realizzate dagli specialisti fotografici dell’esercito, gli US Army Signal Corps, radiotrasmesse oltreoceano da agenzie citate come fonti neutrali, la Associated Press o l’ACME. In calcolata associazione con il testo venne mostrata piazza Fontana in macerie sotto il titolo trionfante di «Milano città dei morti»; o due soldati delle truppe d’occupazione presso la Torre pendente satireggiati come «German Tourists in Pisa»; e, a specchio, altri militari americani mentre perlustravano a proprio rischio gli stessi luoghi, «not on a sightseeing tour» (letteralmente: non in gita turistica).
Allo scherno sul potenziale distruttivo tedesco, all’ostentazione della potenza aerea e dell’efficienza logistico-operativa USA, nel registro della comunicazione si aggiunse dunque progressivamente il tema della difesa attivamente condotta dei monumenti europei. La campagna di pubblicizzazione MFA&A fu varata con gli accordi tra la Sottocommissione e l’Office of War Information (OWI) nell’ottobre 1943: diversi servizi giornalistici allestiti in forma prevalentemente visiva vennero fatti circolare in Europae negli Stati Uniti, attraverso canali indirizzati di volta in volta ad esperti o a profani, a civili o a militari (Nota 11). All’inizio del 1944, in una fase di riorganizzazione della rete di salvaguardia del patrimonio artistico italiano, gli Alleati imposero un evidente giro di vite anche alla controffensiva propagandistica. Sotto la stretta supervisione del Public Relations Branch gli ufficiali dei monumenti curarono personalmente i contatti con la stampa anglosassone. Dalla centrale operativa di Napoli, il direttore Ernest De Wald rilasciò interviste sul lavoro svolto a diverse testate, dal London Daily Telegraph al Chicago Tribune, alla stessa stampa italiana. Lo stato di sofferenza dei monumenti campani sembrava fornire suggestiva materia di cronaca alle agenzie: sia la North American Newspaper Alliance sia la già citata ACME Picture Corporation chiesero in questi mesi di poter documentare dal vero i siti danneggiati e i cantieri delle riparazioni (Nota 12).
Tra maggio e agosto 1944 George Silk realizzò per conto del magazine «Life» una notevole serie fotografica tra Napoli, Capua e Benevento, parzialmente a colori (Nota 13). Uno scatto in particolare, una panoramica a tutto campo dell’interno di Santa Chiara scoperchiata e completamente denudata della decorazione, ci mostra come l’abilità del giovane fotoreporter neozelandese abbia potuto trasformare l’ordinaria amministrazione del commissariamento alleato in immagine da copertina. Giocando sull’astrazione e sulla poetica del fuori scala, lo spazio del relitto della chiesa è dilatato fino a rendere insignificante la presenza delle figure umane – l’autorità civile e quella militare per i beni artistici – al centro della scena come meri indicatori di scala. È in atto un banale sopralluogo, preludio alla sequenza burocratico-operativa che porterà dal progetto all’erogazione dei finanziamenti necessari ai lavori, ma si trasfigura in un momento di solenne contemplazione sulle sorti di un paese devastato (Nota 14).
Oltre ad essere un potente veicolo di comunicazione, divulgabile attraverso canali di massa come le riviste illustrate, la fotografia offriva l’opportunità di una registrazione degli eventi comunemente considerata incontrovertibile. Per i comandi una fonte di questa tipologia rappresentava dunque lo strumento principe per documentare pubblicamente lo sforzo attuato dai militari per evitare distruzioni immotivate e gratuite. La possibilità di difendersi – prove alla mano – dall’accusa di barbarie culturale era fondamentale per promuovere l’immagine dell’esercito davanti all’opinione pubblica interna e mondiale. E il «duty to protect the good name of the Allied armies» era missione che accomunava trasversalmente gli ufficiali per i monumenti a tutte le forze dell’esercito in campo.
Significativo in questo senso lo spettro di soggetti che il capitano Deane Keller dichiarò di voler adottare, come responsabile MFA&A per la Toscana: l’obiettivo doveva essere puntato non solo sul danno di guerra e sul progresso nelle protezioni e riparazioni, ma su qualsiasi fatto «of historic or exceptional interest in wartime», in tutti quei casi ciò risultasse «utile per l’AMG» (Nota 15). D’altra parte lo strumento fotografico venne utilizzato dagli angloamericani per accertare, ed eventualmente documentare, le responsabilità in episodi come la controversa azione incendiaria contro le navi romane conservate nel museo archeologico di Nemi; vicenda che, una volta scagionata l’artiglieria USA, si prestava facilmente a costruire un giudizio di colpevolezza contro le forze dell’Asse (Nota 16).
La «factual evidence» del record fotografico, il potere oggettivante della prova testimoniale, imponeva però che la produzione di tali immagini avvenisse in un momento molto prossimo ai fatti registrati, come nel caso delle riprese dai bombardieri, pubblicate già durante il conflitto per suffragare la tesi della precisione di tiro sui bersagli individuati (Nota 17). Su aspetti come questo gli esperti Alleati furono costantemente richiamati, sin dalle linee guida del 1943 sulla protezione del patrimonio in guerra elaborate dall’Harvard Group, uno dei principali organi civili di supporto al War Department in materia di beni culturali. Tutte le istruzioni insistevano sull’importanza di produrre documenti (visivi e testuali) in tempo reale, in modo da registrare fedelmente lo stato di fatto in cui opere d’arte e monumenti venivano trovati all’avanzare del fronte. La “contestualità”, chiave dell’impianto accusatorio contro la «falsa informazione del nemico», comportava per i tecnici militari impegnati nella protezione una conseguenza per certi versi paradossale: le fotografie andavano privilegiate, nell’azione sul campo, rispetto agli stessi interventi, anche quelli ritenuti urgenti per prevenire evoluzioni peggiorative del danno al monumento (Nota 18).

 

2. La fotografia come strumento tecnico d’intervento

Al di là delle finalità simboliche, la funzione operativa del mezzo ottico era ormai da tempo acquisita in sede tecnica come propedeutica a molte delle scelte nel campo del restauro. Complemento insostituibile del rilievo architettonico di dettaglio, la survey fotografica era considerata azione indispensabile per valutare correttamente le decisioni d’intervento sul manufatto. Anche sotto questo profilo, dunque, si riproponeva la priorità delle operazioni documentarie: la completezza e disponibilità dei file visivi – raccomandavano le istruzioni – andava accertata preliminarmente agli stessi lavori di riparazione (Nota 19). Nella fase di primo soccorso, quella di stretta competenza degli ufficiali alleati, la rilevazione fotografica suffragava soprattutto le delicate scelte sulla rimozione dei resti delle opere d’arte, dovendosi catalogare in modo scientifico le parti originali reimpiegabili per una ricomposizione filologica di edifici e oggetti smembrati. Le disposizioni militari invitavano a fotografare comunque ogni passaggio significativo, anche nel corso delle opere preliminari di protezione anti-aerea e in quelle successive di riparazione, con particolare riguardo a quei dettagli che potessero certificare le cause del danno (Nota 20).
A volte, nel corso dei combattimenti, la ripresa a distanza mediata dalla fotocamera rappresentò per lunghi giorni l’unica modalità di osservazione praticabile sull’edificio colpito (Nota 21). «Questo materiale è vitale per il nostro lavoro», scriveva il luogotenente maggiore e archeologo J.B. Ward-Perkins richiamando l’urgenza di disporre sul campo di attrezzature adeguate (Nota 22). «Nel lavoro MFA&A la fotografia è indispensabile – spiegò il collega Keller in un rapporto dell’ottobre 1944 – [e] quando si accompagna a descrizioni esplicative registrate in loco completa perfettamente l’operazione» (Nota 23). Tutti gli scatti venivano stampati e utilizzati in prima istanza dagli ufficiali sul campo, come materiali di studio; si procedeva poi in un secondo momento ad una selezione, necessaria per corredare – «properly amplify» – i field reports, redatti con cadenza mensile dagli Headquarters alleati e girati agli alti gradi, risalendo la catena di comando.
Queste immagini costituivano una sorta di narrazione autonoma, di norma sciolta, senza rimandi incrociati al testo delle relazioni, dato il loro carattere di «precise visualization of the written record» (Nota 24). Lunghi elenchi riepilogativi viaggiavano verso gli Stati Uniti – con didascalie per esteso sulle vicende occorse al manufatto inquadrato – susseguendosi numerosi dalla fine del 1944 fino all’inoltrata primavera 1945. Spesso allo scatto non era allegato il nome del suo esecutore materiale, generando così quella incertezza attributiva che ancora oggi impone un paziente lavoro di incrocio tra fondi e fonti diversi per identificarne esattamente la paternità.
La documentazione visiva del danno integrava in modo sostanziale il quadro di informazioni necessarie per autorizzare le opere di riparazione progettate dalle soprintendenze, fungendo da fondamentale supporto alle decisioni sugli indennizzi per l’AMGOT (Nota 25). Che la registrazione fotografica fosse entrata a far parte integrante della policy d’intervento degli MFA&A è d’altra parte attestato non solo dai carteggi ma dagli stessi documenti visivi. Sulla scena del sopralluogo in diversi casi la fotografia registra in presa diretta la figura di un militare nell’atto di riprendere, o con la macchina calata al fianco, momentaneamente a riposo. Fatto che da un lato, se incrociato con il dato della costante e lamentata insufficienza di uomini ed equipaggiamenti, potrebbe indicare nell’occasionale compresenza di più obiettivi nello stesso luogo un difetto di coordinamento; oppure, diversamente, la speciale rilevanza propagandistica del sito inquadrato da operatori diversi. Peraltro, in alcuni di questi scatti l’ufficiale non appare colto casualmente, ma sembra presentato ad arte con l’apparecchio in mano: protagonista sulla scena non è dunque il monumento danneggiato ma il tecnico stesso della ripresa.
Nella tipologia finalizzata a scopi di propaganda può inscriversi a ben vedere anche la fotografia – realizzata con ogni probabilità dal capitano Pennoyer tra l’estate e l’autunno 1944 – che mostra il collega maggiore Paul Gardner chino sulle spoglie della tomba di Roberto d’Angiò in S. Chiara a Napoli, intento a inquadrare un dettaglio del rilievo lapideo. La scena è completata dalle maestranze locali, impegnate nel rimuovere i detriti tutt’intorno, in una evidente rappresentazione dell’attivismo delle forze militari (Nota 26).

 

3. Incertezze operative

Nonostante l’importanza costantemente richiamata, l’attività fotografica degli addetti ai monumenti venne attuata, come detto, in modo inizialmente poco pianificato, scontando i limiti di una dotazione tecnica raccogliticcia, in buona sostanza insufficiente. Questo limite appare il riflesso di una pratica di protezione artistica costruita nel suo complesso empiricamente sul campo, nel contesto di una guerra di dimensioni e intensità impensate; e denota altresì un certo isolamento degli esperti d’arte tra le fila dell’esercito.
In tutto questo il censimento dei danni al patrimonio culturale appare un’esigenza – al di là degli enunciati – sostanzialmente sottovalutata nella sua concreta dimensione organizzativa, a cominciare dall’individuazione del soggetto specifico incaricato delle riprese. La politica degli alti comandi prevedeva di attribuire ai Signal Corps anche le ricognizioni sul patrimonio monumentale; scelta conforme alla prassi militare e giustificata dal timore di possibili interferenze fra quest’ambito operativo specifico e la normale documentazione delle manovre di combattimento (Nota 27). Agli esperti dei monumenti si riservava la possibilità di realizzare, in aggiunta, un numero limitato di riprese autorizzate sul campo (Nota 28). Non risultano finora immagini realizzate dagli MFA&A nel primo periodo di insediamento dopo lo sbarco in Sicilia, e di fatto dei monumenti bombardati di Palermo abbiamo vedute prodotte dai Signal Corps per conto dell’OWI, per la stampa, o dalla locale Soprintendenza, per uso interno. Va detto poi che anche per il nord Italia, ma per ragioni storiche diverse legate all’occupazione tedesca, il censimento fotografico degli Alleati sui monumenti risulterà deficitario, se non per alcune particolari aree di interesse (la Lombardia (Nota 29), qualche capoluogo triveneto e dell’Istria), documentate comunque dopo la liberazione.
Ma nelle fasi salienti del conflitto, l’ampliarsi progressivo del territorio di competenza sotto il governo alleato aveva rimesso in discussione l’attribuzione iniziale ai Signal Corps, rivelatasi «impractical» ai fini di tutela; aprendo a una sostanziale indecisione sul tipo di figura cui demandare la realizzazione delle immagini. Il colonnello americano Henry C. Newton, architetto, si impose sin da subito come la figura più competente e sensibile sul tema. Fu lui a riportare costantemente alla Roberts Commission le inefficienze create sul campo da quella che non esitò a definire come un’«emergenza fotografica». Penalizzati soprattutto i contesti territoriali in cui i danni risultavano estesi, come la zona tra Napoli e Roma dopo la rottura della linea Gustav, con gli ufficiali dispersi tra il fronte e l’impegno nelle retrovie a Salerno (Nota 30). E quand’anche disponibili, i corpi fotografici militari erano comunque orientati ad una comunicazione di tono essenzialmente celebrativo – «del tipo soldati con trofei di guerra in mano» (Nota 31) – inservibile per la diagnostica sugli edifici bombardati.
La ricognizione sui monumenti, ribadiva Newton, non poteva che spettare «ad un MFA&A altamente addestrato», sorretto da back-ground specialistico e capacità di lettura tecnica sul monumento (Nota 32); bastava completarne il profilo con un’infarinatura pratica sull’uso degli strumenti di ripresa: «Abbiamo effettuato qualche ora di addestramento con risultati soddisfacenti per 6-8 ufficiali» annotò a rapporto nel giugno 1944, convinto che con la dotazione necessaria si potesse produrre in proprio la documentazione visiva rinunciando ad apporti esterni. Un’opzione intermedia in discussione, inoltre, era quella di un fotografo militare assegnato agli MFA&A a tempo pieno, con autonomo approvvigionamento nel materiale di sviluppo e stampa. Soluzione in realtà scarsamente caldeggiata da militari come Newton e Ward-Perkins, già adusi alla pratica fotografica a fini di studio. Invece di una figura unica stabilmente incaricata, le abilità spontanee possedute dagli esperti di tutela costituivano un’opportunità evidente, per competenza e per il vantaggio aggiuntivo di aumentare il raggio d’azione.
L’assillo richiamato incessantemente nei carteggi con i comandi d’oltreoceano era comunque quello di rinforzare l’operatività sul campo con attrezzature adeguate. Il capitano Deane Keller, storico dell’arte e «well qualified amateur photographer» (Nota 33), sollecitò a lungo la fornitura di un apparecchio. Ottenne invece a fine 1944 un autista che era stato fotografo professionista da civile, Charley Bernholz, nonché la disponibilità – non secondaria – di una vettura per i sopralluoghi. Insieme i due provvidero a registrare lo stato dei beni artistici nella zona controllata dalla V Armata tra Viareggio, Livorno, Pisa, Lucca e Pistoia. Parallelamente, dall’estate 1944 il capitano Pennoyer emerse come l’ufficiale di riferimento per le attività fotografiche MFA&A, senza un vero incarico formale, ma con mansioni in qualche modo stabilizzate dall’autunno dello stesso anno (Nota 34).
Per il resto, possiamo dire che sulla quindicina di esperti di tutela attivi nel teatro di guerra mediterraneo ancora nel giugno 1944 solo tre erano dotati di un apparecchio di ripresa, e si trattava comunque di attrezzatura personale. Senza contare che due di loro, Pennoyer e Ward-Perkins, svolgevano mansioni di coordinamento presso gli uffici centrali (prima a Napoli, poi a Roma), mentre il terzo, Frederick Hartt, risultava totalmente assorbito dal complesso compito della salvaguardia su Firenze e dintorni (Nota 35).
Alla carenza di equipaggiamento si era tentato di rispondere con le requisizioni: a fine estate 1944 vennero insperatamente confiscate a un privato due Leica, e altre due macchine sottratte al laboratorio fotografico di un repubblichino pisano qualche mese dopo, attrezzatura da studio inadatta alla mobilità sul campo (Nota 36). Dagli Stati Uniti si suggerì di cercare anche tra i prigionieri tedeschi, confiscando l’eventuale apparecchiatura in dotazione.
A fine anno gli ufficiali muniti di fotocamera sembra che ammontassero a cinque, circa un terzo delle forze impegnate; le stampe venivano realizzate a Roma presso il Gabinetto fotografico nazionale, sempre che si recuperassero carta e reagenti chimici sul posto, o soggiacendo ai tempi delle forniture americane (Nota 37). L’insufficienza di materiali risalta peraltro in modo stridente a confronto con una macchina organizzativa rigidamente gerarchica, che scaricava sulla operatività nel quotidiano un notevole cumulo di adempimenti burocratici, a partire dalla riproduzione in triplice copia del corredo fotografico destinato ai già citati rapporti mensili per SHAEF, War Office britannico e War Department statunitense.
Fino alle ultimissime fasi del conflitto si snodarono estenuanti trattative per ricevere nuovi apparecchi fotografici dagli Stati Uniti, cui si sommarono i prevedibili intralci nei collegamenti con i territori al fronte, segnati da episodi come il “giallo” della fornitura di sei macchine Eastman Kodak, finalmente concesse, ma mai giunte a destinazione in Italia. La ricerca di nuove attrezzature – si trattava sempre di compatte fotocamere portatili, con pellicola 35 mm, sul modello del famoso prototipo tedesco Leica – investì anche i privati delle istituzioni civili americane: la rete di contatti della College Art Association venne setacciata per sondare l’eventuale disponibilità degli iscritti a prestare apparecchi agli ufficiali, senza evidentemente alcuna garanzia di restituzione (Nota 38). Nel febbraio 1945 i Signal Corps fornirono dieci macchine per il fronte europeo, di cui quattro per l’Italia: giunte nell’aprile 1945, a pochi mesi ormai dalla conclusione del mandato della Sottocommissione alleata (Nota 39).

 

4. Un grande archivio di pace sul patrimonio artistico europeo

La soluzione adottata fu dunque composita, e coinvolse in prima persona diversi tra i monuments men: architetti, archeologi, artisti che ebbero nelle operazioni di guerra in Europa un’imprevista occasione per misurarsi con una sfera di produzione fotografica tra il tecnico e l’amatoriale. Figure più volte citate in queste note, come Frederick Hartt, John Bryan Ward-Perkins e Albert Sheldon Pennoyer, ci hanno lasciato importanti collezioni fotografiche, composte da immagini proprie e altrui, attinte tra fotografi di soprintendenza, esperti militari di ripresa, fotoreporter commerciali. Ma abbiamo notizia di molti altri ufficiali di tutela inglesi e americani che oltre a questi, accanto a Henry C. Newton e Paul Gardner, ebbero l’occasione di impugnare l’apparecchio fotografico durante la campagna d’Italia (Nota 40). Determinare singolarmente l’attribuzione di queste immagini è oggi piuttosto arduo, data la debole componente stilistica e “autoriale” di materiali come questi, prodotti per esigenze funzionali. Ma va anche precisato che il lavoro di ricerca su questo corpus archivistico oggi fortemente disperso è solo iniziato.
Una buona parte del repertorio visivo accumulato dagli ufficiali in Europa era stata inviata, come detto, per la supervisione mensile dei lavori sui monumenti orchestrata a distanza dalla Roberts Commission. Concluse le ostilità emerse una rinnovata volontà di mettere a sistema questa vasta mole documentaria, per renderla funzionale – decaduti i vincoli del segreto militare – all’uso culturale in tempo di pace. L’importanza del materiale raccolto per la ricerca scientifica e per attività di tipo museale caricava una volta di più di nuove importanti motivazioni la «special emphasis (...) placed upon photographic record» (Nota 41). I fascicoli inerenti i furti d’arte rimanevano “attivi” come archivio corrente per le agenzie di Stato impegnate nella restituzione delle opere trafugate dall’Asse. Per quanto riguardava invece la documentazione sui monumenti, questa veniva in qualche modo “musealizzata”, destinandone la componente visiva a nuove funzioni.
Atto conclusivo dell’intero programma MFA&A fu l’allestimento di una collezione che ne costituisse la memoria storica ufficiale. L’iniziativa, denominata Photo Archive Project, fu condotta dall’American Council of Learned Society (ACLS) tra il settembre 1945 e il giugno 1946, grazie a nuovi finanziamenti della Rockefeller Foundation (Nota 42). Il corpus fotografico iniziale, nato con le finalità sin qui descritte, si allargò in questa fase sensibilmente, mutando in un certo senso la propria fisionomia per effetto di un ulteriore lavoro di raccolta tra diverse istituzioni, coordinato dall’ente culturale newyorkese. L’integrazione coinvolse tutte le fonti americane e britanniche già citate che avevano documentato la guerra e abbastanza incidentalmente anche i suoi effetti sul patrimonio culturale europeo. Nella ricatalogazione si rielaborarono le didascalie annotate dai militari, mantenendo il criterio della sequenza alfabetica per località, stato per stato, che rifletteva la struttura della survey utile alle operazioni di salvaguardia (Nota 43). Tale corpus, destinato al deposito presso i National Archives di Washington, si compone sin dalle origini quasi esclusivamente di stampe fotografiche: già nel 1946 «almost no original negatives are available» (Nota 44). Fattore che, stante il piccolo formato degli originali dovuto all’uso e alle ristrettezze sul campo (in media 5x8-8x12 pollici), stupisce non abbia costituito un serio impedimento rispetto all’utilizzo espositivo che in seguito ne venne fatto.
In cifre, l’allargamento della collezione investì un nucleo di partenza di 1.200 immagini, che possiamo ipotizzare coincidente con la selezione inviata oltreoceano dagli addetti alla tutela, comunque di molto inferiore a quanto concretamente prodotto nei mesi del conflitto; il lavoro condotto dall’ACLS portò a schedare nel febbraio 1946 4-5.000 fotografie; a compimento dell’intero programma, nell’estate 1946, il Photo Archive Project raggiunse i 15.000 pezzi (Nota 45). Si noti che ancora nel gennaio 1946 si era pensato di commissionare ai fotografi militari USA ulteriori riprese sui monumenti bombardati, nei casi in cui la documentazione disponibile risultasse insoddisfacente (Nota 46). Conseguenza simbolica di questo progressivo accrescimento fu un’indiretta svalorizzazione dell’attività documentaria svolta dagli MFA&A, il cui apporto risultava quantitativamente più limitato rispetto alle fonti fotografiche ufficiali, per le ragioni già illustrate. Un implicito oscuramento della visibilità degli esperti d’arte militari, prontamente rilevato dagli interessati (Nota 47).
Degnamente rappresentato, invece, all’interno della collezione, il nostro patrimonio artistico. A fine mandato, gli Headquarter MFA&A avevano raccolto 3.000 immagini dedicate all’Italia, materiali ordinati da Pennoyer con l’ausilio del capitano britannico F.H.J. Maxse, e alla fine del conflitto consegnati in microfilm al governo italiano (Nota 48). Una nutrita selezione della rassegna sul Bel Paese (dalla Campania al Triveneto, con un’ampia panoramica sull’Italia centrale), sarebbe entrata a far parte stabilmente dell’ACLS Photo Archive, costituendone probabilmente un terzo del totale (Nota 49). Non stupisce che l’Italia con i suoi monumenti e i suoi tesori d’arte venga richiamata costantemente nei carteggi come un contesto geografico-culturale da privilegiare. Con le sole eccezioni della Sicilia e del Norditalia occidentale il Paese aveva goduto di «complete coverage», imputabile sia alla rilevanza del suo patrimonio sia alla natura inaugurale della missione degli ufficiali di tutela, dallo sbarco in Sicilia (Nota 50).
Come spesso accade per le immagini di catalogazione dei beni culturali, molte di queste fotografie rivestono un carattere prevalentemente descrittivo, seriale, oggettivante. Configurano una schedatura improntata alla “correttezza”, in cui ogni edificio viene rilevato per lo più interamente, da due o tre punti di vista, di rado stringendo sul dettaglio. Ma talvolta inaspettatamente compaiono vedute allargate alla scala del paesaggio e scorci di sapore quasi etnografico – è il caso della collezione Ward-Perkins – che tradiscono la curiosità per luoghi e popolazioni, libere divagazioni dello sguardo dell’ufficiale in missione. Non è solo il danno, la perdita e la sopravvivenza di monumenti e opere d’arte ma più spesso il territorio italiano in guerra, nella sua interezza, ad essere rievocato in queste immagini. Una simile rassegna rivela dunque anche elementi di qualità visiva legati ad un approccio in soggettiva, frutto di una pratica non professionale, dell’affezione dello studioso verso l’oggetto di indagine, dell’analisi dal vero svolta in circostanze estreme e irripetibili. Tracce di immediatezza cronachistica e di rischio personale ne fanno materiali “vivi”. L’esperienza dei bombardamenti era stata vissuta inevitabilmente dagli ufficiali a livello umano, e non di rado condivisa (come testimoniano la memorialistica, o la corrispondenza privata) nei contatti con le popolazioni locali. A turno alcuni tra gli esperti militari, erano stati temporaneamente aggregati al fronte e avevano dunque potuto documentare le operazioni sul patrimonio artistico da embedded reporter.
Anche per il loro valore di testimonianza diretta e personale queste immagini entrarono nei musei d’arte statunitensi quando si trattò di sfruttare il loro potere evocativo per sollecitare donazioni,  finanziando così tramite i privati il restauro dei capolavori colpiti dalla guerra prima del varo del piano E.R.P (Nota 51). Alla loro prima importante uscita pubblica – la mostra War Toll’s of Italian Art, al Metropolitan Museum di New Yorkpoi a lungo itinerante tra il 1946 e il 1947 negli Stati Uniti – i materiali fotografici prodotti dai militari nelle circostanze che abbiamo descritto vennero riformulati, combinandoli in sequenze visive secondo tipici espedienti retorici (l’ingrandimento, l’accostamento di immagini prima/dopo), un percorso espositivo giocato in chiave non più solo di propaganda ma già di promozione pubblicitaria.

 

NOTE:

Nota 1 Report of the American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas, Washington 1946, p. 1. La Commssione fu istituita il 23 giugno 1943 e viene comunemente citata come Roberts Commission. La vicenda è narrata in S. Mck. Crosby, The protection of artistic monuments in Europe, «College Art Journal», vol. 3, n. 3 (marzo 1944), pp. 109-113. Una ricostruzione recente e completa è quella di I. Dagnini Brey, Salvate Venere!, Mondadori, Milano 2010, pp. 41 e ss. Utili indicazioni archivistiche, infine, di ricerca in C. Coccoli, Repertorio di Fondi dell’Archivio Centrale dello Stato relativi alla tutela dei monumenti italiani dalle offese belliche nella seconda guerra mondiale, in G. P. Treccani (a cura di), Monumenti alla guerra. Città, danni bellici e ricostruzione nel secondo dopoguerra, Angeli, Milano 2008. Torna al testo

Nota 2 Su questo tema, variamente trattato negli ultimi anni, ci limitiamo a citare: L. H. Nicholas, The Rape of Europa: The Fate of Europe’s Treasures in the Third Reich and the Second World War, Vintage Books, New York 1995; E. Simpson (a cura di), The Spoils of War. World War II and its Aftermath: The Loss, Reappearance, and Recovery of Cultural Property, H.N. Abrams, New York 1997; M. Kurtz, America and the Return of Nazi Contraband: The Recovery of Europe’s Cultural Treasures, Cambridge University Press, New York 2006; M. Dean, Robbing the Jews: The Confiscation of Jewish Property in the Holocaust, 1933-1945, Cambridge University Press, New York 2008; E. Franchi, I viaggi dell’Assunta. La protezione del patrimonio artistico veneziano durante i conflitti mondiali, Plus, Pisa 2010; M. Serlupi Crescenzi, T. Calvano (a cura di), 1940-1945. Arte in fuga, arte salvata, arte perduta: le città italiane tra guerra e liberazione, Edizioni Musei Vaticani, Giunti, Sillabe, Citta del Vaticano, Firenze, Livorno 2012. Torna al testo

Nota 3 «It is declared policy of the Allied Governments to prevent by all practical means including first aid repairs further deterioration of already damaged buildings», National Archives and Records Administration, Washington (d’ora in poi NARA), Record Group 239, Roll 0067, General Instructions, Report Memo Gatherings – MFA&A 22 aug – 25 nov 1944 – by Major Mason Hammond. Fanno parte di una essenziale bibliografia di riferimento su questi temi: M. Boi, Guerra e beni culturali (1940-1945), Giardini, Pisa 1986; N. Lambourne, War Damage In Western Europe: The Destruction Of Historic Monuments During The Second World War, Edinburgh University Press, Edinburgh 2001; L. De Stefani (a cura di), Guerra, Monumenti, Ricostruzione. Architetture e centri storici italiani nel secondo conflitto mondiale, Marsilio, Venezia 2011. Torna al testo

Nota 4 Si vedano i contributi di R. M. Edsel, l’ultimo dei quali è Saving Italy. The Race to rescue a nation’s treasures from the nazis, Norton & Company, New York e London 2013 (ed. it. Sperling & Kupfer, Milano 2014, con il titolo Monuments men: missione Italia. La sfida per salvare i tesori dell’arte trafugati dai nazisti). Torna al testo

Nota 5 Sull’attività di personaggi come Vera Brittain e organizzazioni come il Bombing restriction Committee si rimanda in particolare a A. C. Grayling, Tra le città morte. I bombardamenti sulle città tedesche: una necessità o un crimine?, Longanesi, Milano 2006, pp. 208-240. Torna al testo

Nota 6 «At least ninety-five percent of the damage inflicted to major monuments by the Allies was caused by air-bombardment. As a statement of fact, it is therefore important to record the sincere efforts made by the Air Forces to limit such damage. As a matter of opinion, it is perhaps also permissible to record the views of the Subcommission on the success of these efforts and on the extent to which any proportion of that damage could reasonably have been avoided without prejudice to the overiding issue of defeating military power in Italy». Headquarters Allied Commission, APO 394, Subcommission for Monuments Fine Arts & Archives, Final Report, General, 1 gennaio 1946, p. 25. Torna al testo

Nota 7 Report of the American Commission, cit., p. 47. Torna al testo

Nota 8 The Campo Santo of Pisa now, in «The Burlington Magazine for Connoisseurs», vol. 86, n. 503 (febbraio 1945), pp. 33-39. Sugli interventi attuati e relativo dibattito disciplinare si veda A. Spinosa, Piero Sanpaolesi: contributi alla cultura del restauro del Novecento, Alinea, Firenze 2011. Torna al testo

Nota 9 NARA, RC 239, R 0066, Report on MFA&A to october 1944 Belgium Germany Eastern France Paris Lists for Germany Technical Notes Archives. La classificazione militare era così graduata: top secret, secret, confidential, restricted. Torna al testo

Nota 10 Report of the American Commission, cit., p. 37. Torna al testo

Nota 11 Le testate coinvolte furono, tra le altre: «Photo review», «Stars and Stripes», «Pro Arte», «Les Arts», «Art News». Ivi , p. 9. Torna al testo

Nota 12 NARA, RC 239, R 0067, MFA&A Field Reports compiled 1943-46, First through Fifth Monthly Reports (1 of 2), De Wald, 9 aprile 1944, V Rapporto mensile relativo a marzo 1944. Torna al testo

Nota 13 Report of the American Commission cit., p. 66. Le immagini sono consultabili negli archivi digitali di «Life», alla voce: Art restoration in Italy, may 1944. Torna al testo

Nota 14 Dell’immagine esistono almeno due versioni negli archivi di «Life», una in bianco e nero, a prospettiva centrale e con tre figure umane (consultabile su: www.google.com/culturalinstitute/asset-viewer/art-restoration-in-Italy/CAHXPJeOIzHagA ultimo accesso 20 aprile 2015) e una a colori, inquadratura leggermente disassata e due sole figure (www.google.com/culturalinstitute/asset-viewer/art-restoration-in-Italy/dAFGrfA7eHrbmw ultimo accesso 20 aprile 2015), frutto sicuramente della stessa occasione di ripresa. Torna al testo

Nota 15 NARA, RC 239, R 009, Deane Keller, Rapporto 22 dicembre 1944. Si vedano le fotografie dell’esecuzione di una spia italiana citate in R. M. Edsel, Saving Italy, cit., p. 221. Torna al testo

Nota 16 Le cosiddette navi dell’imperatore Caligola furono distrutte da un incendio probabilmente doloso il 31 maggio 1944 (cfr. G. Uccelli, Le navi di Nemi, II edizione, Roma 1950), le cui cause sono ancora in discussione. L’episodio viene ripetutamente citato dalla stampa vicina agli Alleati, come l’«Herald Tribune» del 13 giugno 1944, fra i più gravi atti criminali tedeschi. Torna al testo

Nota 17 Si veda, a titolo di esempio, il raffronto tra foto aerea e cartografia riportato in Photographic evidence: U. S. Bombers avoid Pisa’s monuments, «Art news», 1 giugno 1944. Torna al testo

Nota 18 NARA, RC 239, R 0025, Handbooks on Cultural Institutions of European Countries, compiled 1943-46, American Defense – Harvard Group, Committee on Monuments on Protection of Monuments, Notes on safeguarding and conserving cultural material in the field, Part 1, 1943. Torna al testo

Nota 19 NARA, RC 239, R 0067, General Instructions, cit., p. 17. Torna al testo

Nota 20 Ivi, p. 16. Torna al testo

Nota 21 Come per la chiesa di Santa Maria a Monte delle Formiche, Zena, nel gennaio 1945: Keller e Bernholz non poterono svolgere la visita in sito a causa dei cannoneggiamenti ma provvidero a documentare la situazione, appostati ad una distanza di circa 200 metri dal monumento. Cfr. NARA, RC 239, R 0120, Geographical Working Files compiled 1943-45. Torna al testo

Nota 22 NARA, RC 239, R 0016, Correspondence compiled 1943-46, Memorandum to Dr. Dinsmoor, firmato maj. J.B. Ward-Perkins, Deputy Director, 16 giugno 1944, oggetto: «photographic equipment». William Dinsmoor era uno dei membri della Roberts Commission, l’organismo designato da Roosevelt sin dal giugno 1943 per coordinare la protezione delle opere d’arte nelle aree di guerra europee. Torna al testo

Nota 23 NARA, RC 239, R 0120, Geographical Working Files compiled 1943-45, Keller Report, 5 ottobre 1944. Torna al testo

Nota 24 Report of the American Commission, cit., p. 36. Torna al testo

Nota 25 NARA, RC 239, R 0067, General Instructions, cit., p. 27. Torna al testo

Nota 26 L’immagine comparve su «Photo Review», vol. 1, n. 18 ed è nota in almeno un paio di varianti, pubblicate con didascalie fra loro discordanti, cfr.: web.princeton.edu/sites/Archaelogy/rp/Pennoyer/exhibition.html (ultimo accesso 20 aprile 2015) e S. Colalucci, La Subcommission for Monuments, Fine Arts and Archives Region III. Il maggiore Paul Gardner a Napoli, in A. Porzio e R. Middione (a cura di), Napoli 1943: i monumenti e la ricostruzione, Edizioni Fioranna, Napoli 2010, p. 55, volume quest’ultimo cui si rinvia per una più generale panoramica sul tema della ricostruzione postbellica nel capoluogo campano. Torna al testo

Nota 27 NARA, RC 239, R 0063, Report del colonnello Henry Newton pervenuto il 13 giugno 1944. Fra le molte immagini prodotte dall’esercito statunitense nel corso dell’avanzata si segnalano quelle realizzate dal fotografo dei Signal Corps R. A. Rocker, raccolte in un album dal titolo This was Italy (1946) e recentemente riedite in occasione della pubblicazione del memoriale di D. Ross Brower, Remount Blue. Dalla linea gotica al lago di Garda. 1944-1945, a cura di G. Mazzocchi e M. R. Donadel, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto 2013. Torna al testo

Nota 28 NARA, RC 239, R 0067, Lt. Col. Mason Hammond, General Policy, 22 agosto-25 novembre 1944. Torna al testo

Nota 29 Sono circa 200 le immagini a corredo del Final Report Lombardia, in gran parte realizzate da Pennoyer, che aveva invece acquisito da fonti italiane la documentazione sui danni nelle prime fasi di guerra, cfr. NARA, RC 239, R 0074, MFA&A Field Reports, Headquarters Allied Commission, APO 394, Subcommission for MFA&A, Final Report on Lombardia, 30 settembre 1945, p. 14. Torna al testo

Nota 30 Si veda NARA, RC 239, R 0064, MFA&A Field Reports, compiled 1943-46, Report on Status of MFA A in MTO [Teatro Mediterraneo delle Operazioni] by Col. H..C. Newton, 20 agosto 1944. Si veda anche NARA, RC 239, R 0016, Appunto di Newton del 28 giugno riportato in Lettera del Gen. J. H. Hilldring [direttore della Civil Affairs Division] a Huntington Cairns [tesoriere della American Commission], 10 luglio 1944. Il giudizio severo di Newton sarà sposato, a consuntivo, anche da L. Woolley in A record of the work done by the military authorities for the protection of art and history in war areas, HMSO, London 1947, p. 25. Torna al testo

Nota 31 NARA RC 239, R 0005, Correspondence relating to Personnel 1945-46, Meeting february 3, 1944, Proceedings, Intervento di W. Dinsmoor alla Roberts Commission. Torna al testo

Nota 32 NARA, RC 239, R 0064, Report on Status of MFA A in MTO, cit. Torna al testo

Nota 33 Ibidem. Torna al testo

Nota 34 Definito «esperto fotografico» in NARA, RC 239, R 0011, Correspondence compiled 1943-46, Lettera 20 nov 44 del Lt. Comm. P.B. Cott a J. Gilmore. Torna al testo

Nota 35 NARA, RC 239, R 0016, Memorandum di J.B. Ward-Perkins a Dr. Dinsmoor, cit. Torna al testo

Nota 36 NARA, RC 239, R 0066, Eleventh Monthly Report Campania Lazio Umbria Abruzzi Toscana Emilia Villas near Florence, Ernest De Wald a Henry Newton 11 settembre 1944 e NARA, RC 239, R 0068, Rapporto di Deane Keller, 30 novembre 1944. Torna al testo

Nota 37 NARA, RC 239, R 0016, Airgram 4 dicembre 1944 al Pentagono. Torna al testo

Nota 38 NARA, RC 239, R 0014, Correspondence, compiled 1943-46, Lettera di Rensselaer Lee a Crosby, 26 febbraio 1945 e Lettera di Gilmore a Rensselaer Lee, 9 marzo 1945. Torna al testo

Nota 39 Probabilmente si tratta non delle consuete macchine Kodak ma di Argus Cintar. Cfr. NARA, RC 239, R 0016, Lettera 15 febbraio 1945 di Hilldring a Gilmore in cui si riporta la richiesta del colonnello H. C. Newton, e Lettera di Gilmore a Hilldring, 9 aprile 1945. Torna al testo

Nota 40 Nel Fondo Associazione nazionale per il restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra, s. 5, fasc. 32 è presente un “Elenco delle fotografie di proprietà degli alleati inviate in America” da cui ricaviamo i nomi di altri ufficiali-fotografi: capt. C. R. Pinsent, major Norman T. Newton, col. E. T. De Wald, capt. R. E. Enthowen, Lt. P. B. Cott. Il fondo fotografico Ward-Perkins (War Damage Series) è conservato presso la British School at Rome e consultabile on-line, quello di Pennoyer presso i Princeton University Visual Archives. Torna al testo

Nota 41 Headquarters Allied Commission, Subcommission MFA&A, Final Report, General, cit., p. 35. Torna al testo

Nota 42 NARA, RC 239, R 0010, Correspondence, compiled 1943-46, American commission – Memoranda to Members of the Commission. Torna al testo

Nota 43 Report of the American Commission, cit., p. 36. Torna al testo

Nota 44 NARA, RC 239, R 0012, Correspondence compiled 1943-46, Exhibition – Life Magazine, To Mr. Parker, American Federation of Art, Subject: Photographic Exhibition on European Monuments and the War, minuta, s.d. Torna al testo

Nota 45 Il dato iniziale e quello finale sono riportati in: Report of the American Commission, cit., p. 36. Il dato intermedio è tratto da: NARA, RC 239, R 0012, Exhibitions – Request to American Commission for Material, Etc., Lettera di Charles Seymour a Margaret Freeman del Metropolitan Museum, 1 febbraio 1946. Torna al testo

Nota 46 NARA, RC 239, R 0038, Records relating to restitution to cultural materials, Lettera di William Burke a Bancel Lafarge 24 gennaio 1946. Torna al testo

Nota 47 Ibidem. Torna al testo

Nota 48 Headquarters Allied Commission, Final Report, General, cit., p. 35. Torna al testo

Nota 49 1.300 fotografie dedicate all’Italia risultano nel gennaio 1946 (Lettera di William Burke a Bancel Lafarge, cit.), dato da comparare con le 4-5.000 raggiunte a quell’epoca dall’ACLS Photo Archive. Torna al testo

Nota 50 «The gatherings of monthly documents from Italy were very full and I assume that we have the complete coverage». NARA, RC 239, R 0038, Minuta di lettera non firmata a Mason Hammond, 25 febbraio 1946. Si notino le proporzioni riportate negli elenchi preparatori la mostra Fine Arts Under Fire. From Cassino to Cologne: 50 fotografie rappresentano le distruzioni in Italia, 20 in Germania, 13 in Francia e 3 in Olanda. Cfr. NARA, RC 239, R 0012, Exhibition – Life Magazine, cit., Minuta, s.d. Torna al testo

Nota 51 Su questi aspetti rinvio a: M. Morgante, War’s toll, i monumenti italiani in USA (1946-47). Una strategia per immagini, «Ricerche storiche», a. XLIII, n. 2 (2013), pp. 223-240. Torna al testo

 

Questo saggio si cita: M. Morgante, This was Italy. Monumenti e territori in guerra nelle fotografie degli ufficiali di tutela alleati (1943-45), in «Percorsi Storici», 3 (2015) [www.percorsistorici.it]

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