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Le immagini prodotte dai cosiddetti monuments men sono un tassello della rappresentazione dell’Italia elaborata dagli Alleati nell’ultimo scorcio del secondo conflitto mondiale, oltre che una fonte ancora largamente inedita. Restituiscono lo sguardo di tecnici e uomini di cultura inglesi e americani arruolati nei ranghi militari (nomi come J.B. Ward-Perkins, A. S. Pennoyer, F. Hartt) sui centri italiani colpiti dai bombardamenti. Il tema dell’aggressione a insediamenti e collettività viene colto attraverso un filtro altamente simbolico, la fotografia al monumento, la cui diffusione a mezzo stampa fu non a caso attentamente regolata dai servizi propaganda come il Psychological Warfare Branch. La documentazione prodotta dai singoli esperti dislocati sul territorio (e oggi dispersa fra una quantità di fondi archivistici) rispondeva a finalità eminentemente tecniche: corredare i report sui danni agli edifici di pregio storico-artistico propedeutici agli interventi di riparazione. Gli scatti appartengono dunque ad una modalità di rappresentazione che si vuole per definizione descrittiva, seriale, oggettivante. Tuttavia, ad un’analisi attenta, rivelano non di rado elementi di qualità formale legati ad una interpretazione e ad un “gusto” personali: l’estrazione amatoriale del fotografo si intreccia all’affezione e all’approfondita conoscenza dello studioso verso il soggetto della ripresa, oltre a un’immediatezza cronachistica dettata dalle speciali contingenze. L’esperienza dei bombardamenti, per questi ufficiali-fotografi, viene vissuta inevitabilmente anche a livello individuale, e condivisa con gli italiani, in qualche caso documentando gli effetti delle operazioni al fronte da embedded reporter. Molte di queste immagini saranno impiegate in una serie di mostre negli Stati uniti, nell’immediato dopoguerra, per raccogliere fondi dai privati in favore dei restauri. Si assiste alla costruzione di una esplicita retorica che attinge all’universalità dell’arte per favorire la ripresa di un Paese prostrato dal conflitto, che ha in sé i germi del riscatto. Gli stessi documenti fotografici, intrisi di testimonianza personale, stratificano semanticamente nell’uso l’originaria funzione di registrazione degli eventi, la celebrazione ufficiale dell’operato degli Alleati, la comunicazione di massa ridivenuta (in tempo di pace) promozione “pubblicitaria”.

 

Parole chiave: Italia 1940-1945, Seconda guerra mondiale, arte e guerra, fotografia

 

Profilo

Michela Morgante, architetto e dottore di ricerca in Urbanistica, ha insegnato Storia della città e del territorio come professore a contratto all’Università di Bologna, sede di Ravenna. Si occupa del ruolo delle autorità di tutela storico-artistica nella pianificazione delle città italiane tra Otto e Novecento e di infrastrutturazione del territorio, governo delle acque e politiche territoriali di area vasta in età contemporanea. Oltre a diversi saggi su riviste di settore e in volumi collettanei, ha pubblicato Il canale e la città. Il Consorzio canale Camuzzoni nel primo Novecento (Cierre Edizioni, 2006) e curato i volumi Borgo Trento, un quartiere del Novecento fra memoria e futuro, exhibition catalogue, (Fondazione Cattolica Assicurazioni, 2010) e con A. Di Lieto, Piero Gazzola. Una strategia per i beni architettonici nel secondo Novecento, (Cierre Edizioni, 2009).

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Il saggio illustra alcuni aspetti dell’occupazione italiana della Slovenia durante la seconda guerra mondiale, quando la Slovenia fu annessa al Regno d’Italia e fu posta sotto un’amministrazione civile italiana. Sono affrontate le strategie militari e civili per gestire il conflitto e le ripercussioni della guerra sui diversi gruppi di persone in essa coinvolti. In Slovenia non si ebbe una contrapposizione militare su un fronte ben individuabile, bensì si assistette al sorgere di diversi fronti interni legati ai contrasti tra l’amministrazione civile e militare italiana e i collaborazionisti sloveni, alla repressione del movimento partigiano e della popolazione considerata, a torto o a ragione, connivente con l’opposizione armata al fascismo, e alle divergenze tra italiani e tedeschi nella gestione del territorio. Divisi tra guerra civile, collaborazionismo con il nemico, repressione brutale e internamento civile, la Slovenia e i suoi abitanti sperimentarono tutti gli aspetti dell’occupazione e della guerra.
Il saggio si basa su fonti d’archivio, diari e fonti secondarie nel tentativo di mostrare la varietà delle esperienze vissute dalla Slovenia tra il 1941 e la capitolazione italiana del 1943.

 

Parole chiave: Slovenia 1941-1945,occupazione italiana,Seconda guerra mondiale,occupazione tedesca,fronte interno

 

Profilo:

Karlo Ruzicic-Kessler si è addottorato all’Università di Vienna con una tesi sull’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943, ed è attualmente ricercatore presso l’Istituto di ricerca storica moderna e contemporanea dell’Accademia austriaca delle Scienze (Österreichische Akademie der Wissenschaften) di Vienna. I suoi interessi di ricerca includono il fascismo, la storia della Jugoslavia e le relazioni internazionali durante la guerra fredda.
Ha al suo attivo diverse pubblicazioni, tra cui Italy and Yugoslavia: From Distrust to Friendship in Cold War Europe, in «Journal of Modern Italian Studies», 19/5 (2014), Togliatti, Tito and the Shadow of Moscow 1944/45-1948: Post-War Territorial Disputes and the Communist World, in «Journal of European Integration History», 20/2 (2014), Yugoslavia and its Western Neighbours 1945-1980 (con Michael Portmann), in «Zeitgeschichte», 5 (2014) e ha curato con Marija Wakounig, From the Industrial Revolution to World War II in East Central Europe (2011).

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Ambrose G. Bierce (1842-191?), scrittore e giornalista, combatté nella guerra civile americana dal 1861 al 1865 tra le fila dell’Unione, scalando la gerarchia militare dal grado di soldato semplice a quello di ufficiale di stato maggiore e sopravvivendo ad alcune delle più sanguinose battaglie del conflitto fratricida. La sua esperienza gli permise di osservare la guerra sotto varie prospettive. A partire dai primi anni Ottanta dell’Ottocento contribuì alla creazione della memoria popolare della guerra, talvolta in contrasto con le principali correnti della memoria, talvolta in accordo con esse.
Rielaborò la sua esperienza bellica in testi che vanno dai racconti autobiografici alla narrativa, dai commenti giornalistici alle poesie. Testi spesso pubblicati in riviste e giornali che raggiungevano un vasto pubblico.
Sebbene la sua raccolta di racconti brevi del 1892 Tales of Soldiers and Civilians sembra suggerire una separazione tra la sfera militare e quella civile, in realtà i civili giocano un ruolo importante in gran parte della sua narrativa di guerra. Mentre la memoria della guerra civile americana alla fine del XIX secolo focalizzava l’attenzione principalmente sul valore e il sacrificio dei soldati bianchi, sia del Nord che del Sud, Ambrose Bierce ricordava anche il coinvolgimento dei civili nella guerra.
Nel mio articolo, dunque, prenderò in esame alcune figure di civili nei racconti brevi della guerra civile di Bierce e la compenetrazione del fronte di combattimento e del fronte interno. I civili possono essere sia vittime che perpetratori della guerra e sovente sono intrappolati fra le linee di fuoco e quelle politiche delle fazioni in lotta nella guerra civile. Ultimo elemento, ma non meno importante, Bierce non ha solo scritto storie sulla guerra civile, ma anche commentato le questioni al centro del dibattito del tardo Ottocento, come l’imperialismo americano e lo sciovinismo, in modo da edurre i suoi contemporanei sugli effetti e gli orrori della guerra.

 

Parole chiave: Ambrose Bierce, guerra civile americana, civili in guerra, USA 1861-1865, letteratura americana

 

Profilo:

Benedict von Bremen è research fellow al Dipartimento di Studi americani dell’Università Eberhard Karls di Tubinga. Tra i suoi campi di ricerca vi sono la Nato e la guerra fredda, la memoria della guerra in Germania e negli Stati uniti, la guerra civile americana.
Ha recentemente pubblicato: Technology, Warfare, and Intra-Alliance Rivalry: The U.S.-West German Main Battle Tank Harmonization in the 1970s, in Frank Jacob & Gerrit Dworok (eds.), Helix of Death? On the Interrelationship of War and Technology (Jefferson: McFarland, 2015) e Warriors and Victims: Commemorating War on the Stadtfriedhof Tübingen - A Local-National Perspective, in «Remembrance and Solidarity Studies in 20th Century European History», 2 (March 2014), http://www.enrs.eu/studies_files/2/#/229

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Il presente contributo affronta la storia dei Gruppi di azione patriottica (Gap), dalla loro creazione, sul finire del 1943, agli sviluppi della loro attività. I Gruppi nacquero per volontà del Partito comunista, il solo partito antifascista italiano a disporre nel 1943 di una organizzazione clandestina strutturata e di “rivoluzionari di professione” e antifascisti militanti da tempo che avevano partecipato alla guerra di Spagna o alla guerriglia francese nei Francs tireurs et partisans e possedevano, quindi, l’esperienza e le capacità organizzative necessarie a dare il via ad un movimento armato di piccoli gruppi in Italia. Nel saggio si delineano le caratteristiche dei diversi tipi di gappismo - i Gruppi avevano estensione, composizione e modelli di azione diversificati a seconda delle città e delle aree geografiche in cui agivano - e le qualità richieste ai combattenti per entrare a far parte dei Gap: riservatezza assoluta, prontezza di spirito, rispetto ferreo della clandestinità e delle regole, freddezza di fronte alla morte propria e del nemico, sprezzo del pericolo, capacità di mascheramento e di agire in solitudine, questi erano alcuni dei requisiti che un gappista doveva possedere. Requisiti che spesso ponevano i singoli gappisti e i centri dirigenti di fronte a notevoli difficoltà e che, insieme alle diverse situazioni contingenti, determinarono sviluppi diversificati e scostamenti dalla linea generale e teorica tracciata dal Pci.

 

Parole chiave: Gruppi di azione patriottica GapItalia 1943-1945Seconda guerra mondialeResistenzaguerriglia urbana

 

Profilo

Mariachiara Conti è dottore magistrale in Scienze storiche all’Università degli Studi di Bologna ed è dottoranda all’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale dove sta portando avanti una ricerca sui Gruppi di azione patriottica durante la Resistenza in Italia. Ha collaborato con «Le Monde Diplomatique» e con l’Istituto italiano di cultura di Parigi.
Ha pubblicato Guerra in pianura. I Gruppi di azione patriottica (Gap) a Reggio Emilia, in «RS-Ricerche storiche», 118 (2014).

        

 

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