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Mariachiara Conti

Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca

 

I Gruppi di azione patriottica (Gap) nacquero, come diretta emanazione del Pci, dopo gli scioperi del marzo 1943. La linea politica del Partito comunista subì da quel momento una netta accelerata in direzione della lotta armata contro il fascismo e non è un caso che la prima circolare in cui compare il termine Gap, emanata dalla Direzione nord del Pci e indirizzata a tutti i responsabili di federazione, risalga al maggio 1943: il primo compito dei comunisti era quello di dare il via alla lotta armata attraverso piccoli nuclei di arditi che dovevano fungere da sprone alla lotta di massa, sulla scorta dell’esperienza francese dei Franc tireurs et partisans (Ftp) (Nota 1). Il richiamo diretto a questa esperienza è dovuto non solo al fatto che molti militanti italiani, inquadrati nella specifica sezione della Main d’Oeuvre immigrée (Moi), diedero un fondamentale contributo alla formazione dei Ftp, ma anche al fatto che, quello francese, era stato l’unico antecedente di guerriglia messo in scena dai comunisti all’interno delle città e dei centri industriali (Nota 2).
Nonostante gli sforzi della Direzione nord, la messa in pratica delle direttive fu successiva alla caduta del fascismo e alla rotta dell’esercito. Solo nell’agosto-settembre del 1943 alcuni dei migliori militanti italiani, esuli in Francia, vennero fatti rientrare con lo scopo di dare efficacia alla struttura clandestina che si andava lentamente consolidando: tra loro ricoprì un ruolo fondamentale e preziosissimo Ilio Barontini (Dario) che, nella fase iniziale, compì un vorticoso viaggio nelle città del nord Italia con l’obiettivo di armare ed istruire i primi nuclei di gappisti.
La presenza di rivoluzionari di professione come Barontini, sui quali solo il Pci poteva contare, fu determinante nella cesura che determinò il passaggio da un antifascismo sostanzialmente legalitario ad un antifascismo disposto non solo a praticare la lotta armata ma soprattutto ad accettare la sfida del terrorismo urbano (Nota 3).
Lo scopo di queste formazioni era infatti duplice: quello di colpire i nazifascisti laddove si sentivano più forti e sicuri per minare questa convinzione di sicurezza, e quello di combattere “l’attesismo” dei partiti moderati, dimostrando che l’unica strada da imboccare per sconfiggere definitivamente il nazifascismo era quella della lotta armata.
Le città italiane del concitato triennio 1943-45 offrivano una serie di caratteristiche favorevoli per organizzare questo tipo di colpi: i bombardamenti delle forze Alleate rendevano impossibile stabilire i movimenti da e verso i centri urbani e gli sfollamenti impedivano alla neonata Repubblica Sociale Italiana (Rsi) e alle forze occupanti di controllare con efficacia l’ordine pubblico, nonostante gli sforzi profusi (Nota 4). In secondo luogo le città garantivano un vasto pubblico operaio, pronto, almeno secondo le convinzioni dei comunisti, a raccogliere l’esempio Gap e ad unirsi alle forze della Resistenza.
Per affrontare l’argomento dei Gap è doverosa una premessa: non è possibile parlare di gappismo senza tenere presente che ci troviamo di fronte ad esperienze eterogenee e assai difficilmente assimilabili: ogni Brigata Gap presenta peculiarità sociali, numeriche, di genere. In molti casi è legittimo domandarsi se queste esperienze siano tenute insieme solo dalla parola Gap e l’esempio più evidente di questa contraddizione è sicuramente il caso emiliano.
In Emilia il gappismo si sviluppò prevalentemente nelle campagne che circondavano le città e, a partire dalla primavera del 1944, la guerriglia in pianura assunse dimensioni tali da poter parlare di un vero e proprio esercito formato prevalentemente da contadini, mezzadri e braccianti, e da rappresentare una secca smentita a chi riteneva la pianura un luogo assolutamente non idoneo per combattere con i metodi della guerriglia (Nota 5).
Questa tipologia di lotta è assai diversa da quella che si sviluppò nei maggiori centri industriali del nord Italia (Milano, Torino, Genova) e ancora diversa da quella che si sviluppò in città liberate nella primavera-estate del 1944 (Roma e Firenze), dove il gappismo fu un fatto di pochi.
Il caso emiliano è dunque del tutto specifico e non può essere indicativo per altre realtà: l’appoggio e la partecipazione dei contadini alla lotta è una delle sue caratteristiche distintive. Le ragioni storiche dello straordinario sviluppo della Resistenza in queste zone vanno ricercate nella forte coscienza di classe dei contadini emiliani che si era consolidata attraverso le prime leghe cooperative ed attraverso un’avversione al fascismo che aveva radici ben più profonde di quelle fatte risalire all’8 settembre (Nota 6).
All’interno di quello che possiamo definire “gappismo di massa emiliano” si situa però anche la 7ª Gap bolognese che, per la sua caratteristica di agire in un contesto urbano più ampio, è da considerarsi ancora un caso a parte rispetto alle brigate Gap che agirono nei piccoli centri emiliani, i cui colpi furono architettati principalmente nei centri di prima periferia. La 7ª Brigata Gap arrivò a contare 24 squadre di gappisti, divisi tra Bologna ed il circondario bolognese, nella primavera-estate del 1944 (Nota 7). Alcide Leonardi, che assunse il comando proprio in quel periodo, riuscì ad imprimere un’efficacia straordinaria alla Brigata: nei centri di prima periferia vennero prese d’assalto le cabine telefoniche ed elettriche, le ferrovie, i tralicci dell’alta tensione e venne riposta molta attenzione all’attacco contro gli automezzi tedeschi, mentre nel centro cittadino non si allentò l’attività più strettamente terroristica. A partire dall’estate del 1944 vennero infatti messi in scena i colpi più clamorosi e spettacolari che presupponevano una grande forza numerica ed organizzativa e che hanno reso la Brigata bolognese un caso assolutamente unico: l’uccisione del vicefederale di Bologna (9 luglio), la bomba collocata al cinema Manzoni (20 luglio), la liberazione dei detenuti politici dal carcere di San Giovanni in Monte (9 agosto), i due attacchi all’hotel Baglioni (rispettivamente 29 settembre e 18 ottobre) e gli spericolati recuperi di armi portati a termine dalla squadra “Temporale” (Nota 8).
È quindi chiaro come sia difficile parlare di gappismo senza sottolineare che, in realtà, potremmo parlare di esperienze molto diverse tra loro in ragione del contesto urbano, sociale e politico: cercare di proporre una sintesi senza tenere conto dei diversi casi locali ci porterebbe ad una descrizione parziale e per certi versi anche fuorviante (Nota 9).
In generale la storia dei Gap si caratterizza per una difficoltà nel reclutamento e la loro entrata in azione venne più volte sollecitata dai comandi superiori che non si riuscivano a capacitare del cronico ritardo dell’organizzazione. Sia in fase iniziale che in fase inoltrata quando, in molti casi, interi nuclei di Gap caddero sotto i colpi delle delazioni e il lavoro dovette ricominciare da capo, il reclutamento fu assai arduo. Le difficoltà erano dovute ad una serie di fattori umani ed organizzativi.
La percezione del forte rischio che si correva era un fattore da considerare: il gappista andava incontro ad una morte quasi certa e, per questo, molti scelsero di andare in montagna, dove in genere si combatteva una guerra più convenzionale, con più probabilità di fare ritorno a casa a liberazione avvenuta. La peculiarità della lotta dei Gap erano infatti la clandestinità più assoluta e l’isolamento insieme, per i più, al distacco totale dalla famiglia e dagli ambienti frequentati prima di entrare a far parte della guerriglia. Nonostante ciò a Firenze le norme cospirative furono assai più fluide di quelle stabilite: il gruppo fondatore dei Gap proveniva da una banda di montagna, dove le precauzioni cospirative erano meno stringenti. I giovani reclutati avevano continuato a risiedere, anche dopo l’ingresso in clandestinità, nei rioni popolari di San Frediano e Santa Croce, dove erano molto conosciuti. Questi elementi fecero sì che a Firenze non si ebbero nemmeno i nomi di battaglia, se non come pure formalità (Nota 10).
Nelle memorie e nei diari pubblicati nel dopoguerra, ricorre con insistenza il tema di una guerra collettiva portata avanti nella solitudine. Carla Capponi descrive così la sensazione di liberazione quando le venne ordinato di abbandonare Roma per raggiungere Palestrina:

avevo riflettuto a lungo su quanto la lotta fosse diversa in città, per le strade e le piazze di Roma, dove ogni albero era un fortino tedesco e i fascisti giravano in branchi armati. Stare nascosti nella cantina di Duilio, vagare di notte per effettuare colpi di mano alle colonne tedesche in transito verso il fronte, girare armati sapendo che a ogni angolo potevi essere perquisito, arrestato, ucciso; conoscere i luoghi della tortura e persino i volti degli aguzzini e dei nemici che opprimevano la città: tutto questo ci aveva tenuti in una tensione continua. A Palestrina le cose erano diverse: la lotta armata si svolgeva a viso aperto e gli scontri, anche se impari, avvenivano a faccia a faccia con il nemico. Io mi sentivo serena, tranquilla nella coscienza di assolvere un dovere. Il gappista tende un agguato e non vede quasi mai le vittime del suo attacco, mentre il partigiano non solo vede in faccia il nemico ma ne vede anche la morte e ne deve seppellire il corpo per impedire conseguenze sulle popolazioni civili (Nota 11).

La freddezza nell’affrontare la morte diventava determinante per chi doveva colpire in pieno giorno: era necessario saper disumanizzare il nemico, non preoccuparsi della sua vita, della sua famiglia, oppure del fatto che il milite in questione fosse o meno convinto della scelta intrapresa. Questo problema si poneva con meno prepotenza nella guerra in montagna dove era possibile affrontare la morte in maniera velata, come conseguenza inevitabile della guerra. La guerra in città poneva invece interrogativi sulla vita e soprattutto sulla morte non eludibili; la morte doveva essere guardata in faccia con meno mediazioni, anche culturali: il gappista dopo aver sparato ripiombava nella solitudine dato che con i compagni di lotta raramente poteva condividere impressioni o titubanze per non contravvenire alle norme cospirative.
Un altro elemento che ritroviamo nei diari e nelle memorie dei gappisti è la difficoltà iniziale ad eseguire gli ordini imposti dal comando di agire subito e di colpire “uomini vivi”. Rompere questo digiuno delle armi fu per molti una scelta sofferta, difficile, ricordata con una sensazione di  profondo malessere:

Ma noi non riuscivamo a dimenticare che le nostre armi avevano fatto fuoco su uomini vivi. Li avevamo visti. […] Avevo sparato su un uomo. Non riuscivo a parlare, a mescolarmi di nuovo con i miei amici. Ormai tra me e loro era avvenuta una rottura decisiva: io avevo cominciato la guerriglia. […] Io me ne rimasi solo, sveglio, a pensare. Mi domandavo mille volte se un uomo aveva il diritto di colpire un altro uomo. A una domanda così semplicistica mi rispondevo mille volte di no. Ma la mia guerra era legittima, e soprattutto non l’avevo voluta io, né gli uomini della mia parte. Eravamo stati travolti da un mare di violenza, cercavamo di difenderci da essa e di salvare quanto fosse più possibile dallo sfacelo (Nota 12).

Ilio Barontini, dopo la battaglia di Porta Lame, tracciò un vero e proprio prontuario delle norme di sicurezza da tenere in città. Il compito del gappista si presentava molto più pericoloso di quello di un soldato perché il gappismo era un fenomeno di natura più complessa: si doveva sopravvivere nel cuore del potere nemico. I requisiti fondamentali che doveva avere un gappista erano la riservatezza più assoluta e la capacità di mascheramento: non si doveva rivelare l’attività svolta a nessuno, nemmeno ai familiari, perché si sarebbe rischiato di compromettere la vita dell’intero reparto qualora qualcuno, sotto tortura, avesse parlato. Il gappista si doveva mostrare come un buontempone totalmente disinteressato alla politica, doveva apparire come un normale operaio, non doveva dare nell’occhio svolgendo una vita modesta. Era poi necessario presentarsi con estrema puntualità agli appuntamenti e non mostrarsi galante con le donne perché avrebbero potuto lavorare al soldo del nemico. Infine non si dovevano conoscere cose che non erano di propria competenza, e non si dovevano porre domande circa compiti che spettavano ai superiori di grado (Nota 13).
Il problema del Pci agli esordi della lotta fu duplice: quello di trovare quadri intermedi che potessero dirigere la lotta gappista, e quello di trovare combattenti temerari che la mettessero in pratica. Il primo problema venne facilmente risolto attraverso l’utilizzo dei quadri formatisi all’estero, ed attraverso i giovani detenuti politici formatisi nelle “università delle carceri” (Nota 14).
Il secondo problema si presentava invece di gran lunga più annoso. Vi era infatti bisogno di giovani non conosciuti alle questure e non schedati, che potessero muoversi liberamente camuffandosi all’apparato poliziesco del nemico.
Il requisito della giovane età era dovuto a motivazioni legate alla condizione del gappista: la necessità di una veloce ritirata, la resistenza all’isolamento alimentare che spesso colpì i gappisti, la capacità di poter dormire all’addiaccio o nei posti più improbabili per non destare sospetti.
Inoltre il Pci aveva dato disposizioni precise sul reclutamento e intendeva che fossero rispettate: i Gap erano le formazioni di punta e dovevano essere formati da operai iscritti al Pci. Non era però facile trovarli, perché gli operai comunisti formatisi in Italia erano stati istruiti, negli anni della semiclandestinità, al rifiuto del terrorismo individuale: quando il popolo non era pronto alla lotta bisognava “armarlo del bisogno bruciante di armarsi” e solo successivamente dare il via alla lotta armata. Sull’atteggiamento che veniva considerato “attesismo” nel 1943 si era fondata la linea politica del Pci fino a poco prima (Nota 15). Il cosiddetto “lavoro sportivo” che troviamo nelle circolari prima dell’8 settembre era quindi un lavoro di distribuzione di materiale considerato sovversivo dal regime, di preparazione ideologica degli operai, di raccolta di armi per il futuro e di organizzazione del Soccorso rosso.
Cesare Massai, che aveva combattuto in Etiopia e conosciuto le galere fasciste, conferma questo stacco: «di tutti coloro che vennero a formare i Gap, non molti avevano avuto già una certa esperienza di lotta armata: molti erano sì stati condannati dal Tribunale speciale ed avevano già svolto un’attività clandestina, ma tra quello che avevano fatto in precedenza (scritte sui muri, lanci di manifestini) e ciò che invece si richiedeva agli appartenenti ai Gap correva un abisso» (Nota 16). Era quindi necessario reclutare gappisti da una nuova generazione di antifascisti: i giovani, appunto.
Le difficoltà relative al reclutamento sono altrettanto deducibili da una serie di scambi tra il centro dirigente del Pci e le varie federazioni che faticavano a trovare gli uomini adatti per svolgere questo tipo di compito.
Per la Liguria alla voce lavoro sportivo si legge: «l’organizzazione dei Gap non esiste da nessuna parte, essa appare totalmente ignorata» (Nota 17), oppure per il Piemonte:

in quanto ai Gap, è vero che l’organizzazione non è stata finora in grado di fornirvi gli elementi di cui avete bisogno, tuttavia ora alcuni li avete trovati per sostituire i caduti e quelli da mettere da parte ed assieme cercheremo di trovarne altri, ma voi mettetevi in condizione di farli venire, altrimenti noi continueremo a “piétiner sur place”. D’altra parte voi avete contatto con un compagno responsabile di base che ha quarantacinque elementi Gap a disposizione e che lui conosce personalmente, possibile che non se ne possa trovare qualcuno che faccia il caso vostro? Voi dite, ce ne ha presentato uno e questo non ha accettato, e sta bene, anzi male, ma non vi è ragione di scoraggiarsi, si parla ancora col responsabile, gli si danno istruzioni, e poi ci si fa presentare altri elementi tra i migliori, e si finirà per trovare […] (Nota 18).

Quello che possiamo considerare un fattore accomunante è come lo schema del Pci calato dall’alto fosse in gran parte irrealizzabile: le fabbriche, come luogo di possibile propaganda dei comunisti, erano rigidamente controllate dall’apparato poliziesco del regime e non era sempre possibile, in ogni luogo, reclutare operai.
Il caso dei Gap di Roma è, in questo senso, l’esempio più calzante: constatata l’assenza degli operai classicamente intesi e la debolezza della federazione romana, formata per l’80% da nuovi iscritti, Giorgio Amendola percepì che il futuro dei Gap nella capitale si giocava su strati sociali che il Partito non aveva ancora indagato con la dovuta serietà e sulla ricomposizione di gruppi comunisti che avevano perso o non erano riusciti a trovare i contatti con il Pci (Nota 19).
Carla Capponi, che già era entrata in contatto con la rete clandestina del Pci, tramite la professoressa Marisa Maggi venne in contatto con il gruppo dei cattolici-comunisti e si rese disponibile ad utilizzare il suo appartamento per alcune riunioni (Nota 20). Il suo primo incarico ufficiale fu poi, nei mesi di ottobre e novembre – prima di entrare a pieno titolo nei Gap – quello di tenere i collegamenti tra Luciano Lusana ed il gruppo di Bandiera Rossa, per conto del Pci.
Oltre ai comunisti cattolici e a Bandiera Rossa, vi erano alcuni gruppi trotzkisti formatisi nelle università e gruppi di comunisti isolati che cercavano un contatto con il Partito.
Le testimonianze dei diretti protagonisti sono fondamentali per capire come fu possibile tenere insieme questi militanti e le storie personali dei diretti protagonisti sono, in questo caso, l’unica fonte cui attingere per comprendere il reclutamento nella capitale.
Rosario Bentivegna (Paolo), il noto gappista che accese la miccia di via Rasella, era uno studente di medicina, di buona famiglia, con un passato trotzkista in una formazione universitaria che raggruppava una ventina di studenti (Nota 21) e fu introdotto nella rete del Pci e, subito dopo nei Gap, tramite l’intermediazione del liceale Mario Fiorentini il quale, già prima del 25 luglio, era collegato con un folto gruppo di intellettuali dei quali fu coordinatore politico e militare fino a quando entrò in clandestinità (Nota 22).
Il mondo intellettuale, universitario e studentesco fu il bacino di arruolamento principale per i Gap romani: si trattava di una vera e propria élite di giovanissimi, avvicinatasi agli ideali comunisti più per una tensione ideale che per un’appartenenza di classe; una generazione antifascista del tutto nuova, venuta in contatto con il comunismo tramite intellettuali e professori.
Il controllo del Partito sul reclutamento dei Gap fu in alcuni casi meno rigido di quello teoricamente imposto dal centro. È emblematico il caso di Guglielmo Blasi, il delatore che fece crollare la rete dei Gap centrali di Roma, tra i quali il comandante Carlo Salinari (Spartaco), svelando al questore Caruso i segreti dell’organizzazione. Nell’autobiografia di Maria Teresa Regard emerge lo stupore per il mancato controllo di Blasi: «si scoprì che in passato Guglielmo aveva scontato condanne per reati comuni, era sorprendente che questi precedenti fossero sfuggiti al momento del suo reclutamento nei Gap» (Nota 23).
Blasi era stato catapultato ai vertici del Gap della quarta zona di Roma, tanto da partecipare ad alcune delle azioni più clamorose dei Gap della capitale, ma solo quando fu catturato, in seguito ad una rapina a mano armata, i suoi compagni vennero a sapere che aveva già scontato una pena per reati comuni e che era solito architettare truffe e rapine. Rosario Bentivegna ha ipotizzato che Blasi potesse essere stato infiltrato sin da subito dal nemico, ma è anche lecito ipotizzare che i responsabili allargassero le maglie del reclutamento qualora non riuscissero a trovare gli uomini disposti a condurre un tipo di lotta così aspro, per i motivi che abbiamo elencato sopra. E, in questo senso, reclutare tra le fila del sottoproletariato uomini già avvezzi a colpi di mano e all’uso delle armi accelerava l’esordio della lotta gappista e risolveva ai responsabili il problema del reclutamento.
Un’altra fonte interessante è l’Autobiografia di Carlo Camesasca (Barbisùn), che portò a termine l’esecuzione del Federale di Milano Aldo Resega e fu ucciso in circostanze misteriose nell’immediato dopoguerra. Barbisùn racconta come dal 1926 fosse iscritto al fascio di Monza perché amante dello sport, tanto da disputare, durante la sua chiamata alle armi nel 1932-33, le gare nazionali di tiro a segno e conquistare il primo posto. Barbisùn dichiara anche di non essersi mai interessato di politica e che la sua iscrizione al fascio era dovuta a motivazioni di quieto vivere piuttosto che a convinzioni effettive. Si avvicinò ai comunisti durante lo sciopero in Marelli del 1942 per le 120 ore, fabbrica nella quale era operaio caposquadra nel reparto torni e frese. I comunisti gli negarono l’iscrizione, ma non lo trascurarono, fornendogli stampa clandestina, facendogli versare qualche contributo ed operare qualche sabotaggio.
Venne poi chiamato dopo l’8 settembre per far parte dei Gap, molto probabilmente più per le sue qualità di tiratore scelto che per le sue convinzioni politiche. Secondo la sua Autobiografia a fine febbraio inizio marzo del 1944, persi i contatti con i comandi, organizzò una banda di recupero ed operò alcune requisizioni non concordate con il comando:

Liquidato questo affare ci permise sistemare un po’ le nostre famiglie, e qui devo aggiungere che era necessario perché malgrado tutte le volte che lo abbiamo fatto presente, alle nostre famiglie, i Comitati che avevano ricevuto incarico non avevano mai dato un centesimo, dirò di più che nemmeno si sono degnati di avvicinarli, forse per paura di essere compromessi e si deve capire che con i soldi che ci dava il Partito, siamo stati costretti a dar fondo ai nostri risparmi, che con sacrifici immensi, si era riusciti a mettere da parte quando si lavorava, con questi soldi che abbiamo ricuperato, ci siamo messi un po’ a posto anche come vestiario, ma non andò troppo alle lunghe che si cominciò a malignare sul nostro conto (Nota 24).

Certamente l’episodio di Barbisùn e del primo nucleo di Gap sestesi va contestualizzato in un momento di sbandamento del gruppo, ma è chiaro che il tema delle rapine non è riconducibile al solo Blasi ed è attribuibile anche ad un reclutamento non sempre rigidamente selezionato, anche tenendo conto che erano necessari, come abbiamo visto, requisiti umani molto particolari per poter accettare di entrare nei Gap.
Questi episodi si inseriscono nel contesto di una difficile dialettica tra centro dirigente e base operativa: la natura stessa della formazione gappista esigeva forme di lotta spregiudicate e gli stessi comandanti dovevano fare i conti con uomini non sufficientemente addestrati per condurre una lotta di quel tipo e, al contempo, con le continue sollecitazioni dei comandi ad “agire subito”. L’ipercriticismo del Pci metteva in moto un meccanismo di censura da parte dei comandanti Gap che agivano sul campo e dovevano cercare di mascherare errori e mancanze per tenere uniti gli uomini in momenti di grave difficoltà. È per questo che nell’affrontare la vicenda gappista bisogna saper leggere tra le righe del non detto: da un lato tenendo conto che le dure reprimende che il Pci trasmetteva alle varie formazioni facevano parte del culto terzinterazionalista dell’autocritica e dall’altro che i comandanti Gap si trovavano spesso ad operare in condizioni disastrose. Lo scarto tra il gappismo teorizzato dalla direzione del Pci e il gappismo messo in campo dai diretti protagonisti fu motivo di scontri, più o meno celati, tra i comandi Gap ed il centro dirigente. Un interessante articolo di Nicola Adduci, Il mito e la storia: Dante di Nanni analizza il caso specifico della cattura e dell’uccisione del giovane gappista-operaio con l’ausilio delle fonti d’archivio e ricostruisce una storia assai diversa da quella tramandata da Pesce: quest’ultimo infatti trasmise una versione modificata dei fatti per coprire alcuni errori dei suoi uomini e il Pci, resosi conto che il Gap torinese in quel momento era completamente distrutto, reagì accettando la mistificazione al fine di creare un mito che potesse fungere da elemento di propaganda per il reclutamento di nuovi giovani e per cercare di capovolgere il difficile rapporto esistente tra l’opinione pubblica cittadina e l’attività terroristica dei Gap (Nota 25).
Il battesimo di fuoco dei Gap fu diverso da caso a caso ma avvenne generalmente in modo del tutto improvvisato. Le prime azioni si caratterizzarono come colpi rapidi e a sorpresa seguiti da una fuga, solitamente in bicicletta.
A Bologna la guerra dei Gap si aprì il 3 novembre davanti al ristorante Fagiano, in via Calcavinazzi, in centro storico, quando tre giovani addetti alla stamperia clandestina del Pci lanciarono alcune bombe a mano contro sei militari tedeschi all’uscita dal locale (Nota 26); anche nella capitale i Gap esordirono con alcuni attacchi a sorpresa contro i tedeschi e i corpi della Milizia a metà ottobre (Nota 27). A Firenze, invece, i Gap puntarono subito più in alto ed uccisero, nella notte del primo dicembre del 1943, con tre colpi di pistola, il colonnello Gino Gobbi, responsabile del distretto di leva (Nota 28).
L’esempio più efficace per descrivere questi primi gappisti è sicuramente Giacomo Buranello, studente in Ingegneria all’università di Genova, che, nonostante la giovane età, aveva già conosciuto le galere fasciste per la sua attività sovversiva durante il regime. Buranello venne scelto dai vertici del Pci proprio per la sua spregiudicatezza che si spingeva fino ai limiti dell’incoscienza. Per il suo atteggiamento audace generò tensioni tra i vecchi militanti genovesi che lo consideravano un “avventurista”, ma Buranello si dimostrò la persona adatta per dare il via alle azioni gappiste in un contesto dove mancava l’apporto logistico necessario: non si disponeva di armi – che andavano assolutamente strappate ai nemici –, di bombe e di uomini, ma al contempo era necessario che qualcuno si sacrificasse e desse il via alla lotta uccidendo fascisti, indipendentemente dal ruolo ricoperto, generando in loro la paura di un nemico invisibile. La prima azione militare di rilievo, organizzata dal primo gruppo di Gap comandato da Buranello, venne compiuta a Sampierdarena alle ore 18 del 28 ottobre 1943, quando fu colpito a morte il capo manipolo della Milizia fascista (Nota 29).
Quella che possiamo definire “prima generazione gappista” pagò un prezzo altissimo per la propria partecipazione alla guerra di Resistenza: i pochi che riuscirono a sfuggire alle torture e alle fucilazioni dovettero riparare in montagna da ricercati, con taglie pesanti sulle loro teste. Sulla testa di Buranello pendeva, già nel gennaio del 1944, una taglia da un milione di lire e, per questo, venne fatto allontanare da Genova, tornò poi in città alla fine di febbraio per partecipare allo sciopero generale ma fu catturato il 2 marzo: venne fucilato dopo aver subito pesanti torture all’alba del giorno successivo.
Con il procedere dei mesi le azioni dei gappisti cominciarono a perfezionarsi in efficacia e strategia: se dapprima le vittime erano soltanto fascisti, si cominciarono poi a colpire militi e gerarchi delle SS, per dimostrare che anche i tedeschi non erano affatto invincibili.
A Milano, dove l’esordio dei Gap fu abbastanza rapido, ai primi di novembre il comando diede l’ordine di cominciare a colpire i tedeschi per verificare l’effetto che ne sarebbe scaturito. Il compito venne affidato alla squadra più esperta composta da alcuni operai, espressione delle maggiori fabbriche del “mitico” settore di Sesto San Giovanni (Nota 30). L’ordine del comando spiazzò però i gappisti, perché avevano appena portato le loro armi dall’armaiolo: fu così che Validio Mantovani (Ninetto), Carlo Camesasca (Barbisùn), Vito Antonio la Fratta (Totò) e Renato Sgobaro (Giulio e poi Lupo Mannaro) partirono alla volta di Milano e, tra corso Buenos Aires e piazza Argentina, decisero di risolvere il problema con gli strumenti del mestiere e di colpire «due ufficiali tedeschi che tranquillamente passeggiavano» con due martelli e quattro lime (Nota 31).
L’assenza cronica di armi, che queste formazioni dovettero affrontare, veniva generalmente risolta con i disarmi: in questo caso però l’ordine del comando di “agire subito contro i tedeschi” rendeva impossibile ai gappisti effettuare un’azione di questo tipo, se non rallentando di molto l’esecuzione del colpo. La minuziosa descrizione che compare nella Autobiografia di Barbisùn è assai preziosa perché molto raramente le memorie dei gappisti si sono soffermate sulla modalità delle violenze, preferendo fornire una descrizione asettica ed impersonale dei colpi (Nota 32).
In seguito agli arresti ed alle “cadute” che si verificarono soprattutto quando gli scioperi del marzo del 1944 fecero allentare ulteriormente le norme cospirative e, nello stesso tempo, il nemico adottò alcune norme di sicurezza per arginare la violenza gappista (scorta armata ai gerarchi, bandi che vietavano l’utilizzo delle biciclette nei centri urbani, anticipazione di coprifuoco), si cominciarono ad introdurre modalità più studiate e meno rischiose, come l’utilizzo delle bombe ad orologeria che permettevano uno sganciamento preventivo dei gappisti (Nota 33). Fu anche costruita nel tempo una fitta rete di rifugi sicuri in modo da isolare maggiormente le formazioni e limitare i danni, qualora una parte dell’organizzazione fosse stata individuata.
La struttura e le azioni gappiste si evolsero anche grazie all’entrata in scena delle Squadre di azione patriottica (Sap). Le Sap furono teorizzate da Italo Busetto (Nota 34) (Franco), nel giugno-luglio 1944: dopo lo sciopero del marzo 1944 si convinse che l’impostazione data alle squadre di difesa di fabbrica frenassero lo sviluppo della lotta armata e ritenne che queste squadre dovessero essere messe alle dipendenze di un comando svincolato dalle fabbriche e dai paesi per raggiungere l’unità di direzione e di coordinamento tattico e strategico. La sua relazione, di cui non abbiamo traccia, venne condivisa da Luigi Longo che si dimostrò entusiasta della creazione delle Sap così come teorizzate da Busetto (Nota 35). La differenza tra i Gap e le Sap non risiedeva solo nel fatto che i sappisti erano regolari di giorno e svolgevano azioni di sabotaggio, propaganda ed appoggio alla lotta partigiana di notte, ma anche nel fatto che le Sap non venivano concepite come formazioni di Partito ed il reclutamento non era vincolato all’appartenenza politica (Nota 36).
La prima notizia di questo tipo di formazione la troviamo in una direttiva rivolta a tutti i comandi generali e a tutte le formazioni del giugno-luglio 1944 da parte del comando generale dell’Italia occupata:

l’afflusso di nuove reclute non deve diventare un peso per le unità partigiane che devono essere ben formate nella lotta. Gli uomini devono essere inseriti progressivamente nella lotta, anche per quanto riguarda l’armamento. Devono prima essere fidelizzati. La massa di renitenti alla leva NON può e non deve essere tutta reclutata nelle file partigiane perché questo appesantirebbe le formazioni. Sceglieranno sistemazioni di fortuna vicino a centri rurali, ma questa massa di uomini non va assolutamente lasciata a se stessa. Affiancherà la lotta in altro modo, con azioni di appoggio. Non devono per forza fare la vita dei partigiani ma possono lavorare e a lato fare azioni di disarmo e sabotaggio (Nota 37).

In una circolare successiva datata 7 agosto 1944 venivano date direttive precise in merito al ruolo ed alle caratteristiche delle Sap. Al punto quattro veniva esplicitato:

il Comitato militare del Cdln provinciale ha come compito essenziale quello di preparare concretamente l’insurrezione nazionale nei centri urbani e rurali delle provincie. Esso deve quindi passare immediatamente all’organizzazione delle Squadre di azione patriottica (Sap) di operai e contadini e di selezionare fra di esse squadre scelte che dovranno subito iniziare l’opera insurrezionale. Saranno queste le Sap, le cui imprese di sabotaggio, disturbo, ricupero armi e materiale, epurazione delle spie e dei caporioni fascisti avranno un effetto importante ed immediato militare e politico (Nota 38).

Il compito principale delle Sap era quello di preparare l’insurrezione allargando il più possibile il fronte della lotta e del coinvolgimento popolare, in ottemperanza a quanto richiesto da Palmiro Togliatti (Ercoli) nell’appello “a tutti i compagni”, lanciato il 6 giugno del 1944, dove esortava l’intero Partito a ricordarsi che la guerra condotta era in primo luogo una guerra di liberazione dal fascismo e non aveva come scopo la trasformazione in senso socialista della società.
I Gap e le Sap, che mantennero generalmente comandi separati, cominciarono, a partire dall’estate del 1944, a collaborare sempre più strettamente, sino – in alcuni casi – a confondersi.
Soprattutto in Emilia si scatenò una sorta di competizione tra le due formazioni, tanto da generare una discussione tra due massimi dirigenti del Pci, Secchia (Vineis) e Amendola (Palmieri). In una lettera alla Direzione nord del Pci del 28 agosto Amendola descriveva «la concorrenza che si sta sviluppando, con le solite conseguenze di incidenti, attriti, lotte per i quadri migliori ed i migliori elementi» (Nota 39).
La risposta non si fece attendere e Secchia, a stretto giro di posta, rispose così il 1 settembre:

Carissimo Palmieri, […] Il problema dei rapporti tra Gap e Sap e della tendenza alla concorrenza non ci deve allarmare. È evidente che sviluppandosi ed addestrandosi all’azione le Sap tenderanno a fare le stesse cose che fanno i Gap. Che c’è di male in questo? È anche evidente che nella misura che la lotta si sviluppa i Gap da piccoli sparuti gruppetti si allargheranno sempre di più perché un maggior numero di elementi decisi entreranno a fare parte dei Gap e di conseguenza i Gap tenderanno proprio a trasformarsi in Sap. In fondo qual è la differenza tra i Gap e le Sap? La differenza sta nel fatto che i primi sono dei “professionali”, gli altri invece sono elementi che hanno generalmente un’occupazione e che le azioni le fanno solo a “tempo libero”. Ma più la situazione si sviluppa e più i Gap gonfiandosi tenderanno a diventare un’organizzazione di massa, a loro volta molte Sap dovranno abbandonare il lavoro in seguito alle razzie, in seguito alle loro azioni e per tanti altri motivi, diventeranno cioè dei professionali. Gap e Sap finiranno in molti casi di coincidere ed anche di fondersi. Ma tutto questo non ci preoccupa affatto. L’importante è che tanto gli uni quanto gli altri agiscano […] (Nota 40).

Nella tarda estate del 1944 si riteneva che l’insurrezione popolare fosse imminente e che l’avanzata degli alleati non fosse più prorogabile, tanto da ipotizzare, da parte di Secchia, una “sappizzazione” dei Gap in modo che potessero svolgere azioni di appoggio all’insurrezione ed allentare le misure cospirative. Visti l’arresto dell’avanzata alleata e l’impossibilità per i patrioti di combattere una battaglia a viso aperto è forse più rispondente al vero l’ipotesi della “gappizzazione” delle Sap che dovettero, con mezzi e norme cospirative sempre più simili a quelli gappisti, alzare il livello dello scontro. L’esempio più evidente in questo senso è la 106ª Brigata Sap diretta da Giovanni Pesce che, trasferito in Valle Olona per misure cautelative dopo le delazioni di Arconati, diede un’impronta gappista alla Brigata (Nota 41).
A Reggio Emilia, ad esempio,gli sforzi compiuti per il rafforzamento delle Sap diedero presto i frutti sperati, tanto che dovette intervenire il comando Sap, a fine ottobre 1944, precisando che erano i Gap gli elementi di punta:

Dal risultato di vari sopralluoghi compiuti nelle zone Sap in seguito a divergenze sorte nel corso di qualche azione eseguita da Sap e Gap si ritiene definire i rapporti tra i due organismi militari che operano in pianura.
Pertanto si stabilisce:
1)     Nelle azioni ove i Gap chiedono l’intervento e l’aiuto delle Sap la direzione dell’azione stessa è affidata al comandante dei Gap presenti.
2)     Nelle azioni ove i Sap chiedono l’aiuto e l’intervento dei Gap la direzione delle azioni è affidata al comandante del settore e squadra Sap.
Rimane inteso e logico che in tutti i casi essendo i Gap elementi di punta e più esperti è necessario che il comandante l’azione si consigli circa il modo migliore con il responsabile dei Gap partecipanti all’azione stessa (Nota 42).

Se, anche da questo punto di vista, il caso emiliano fu del tutto eccezionale, la sovrapposizione di compiti e la confusione di ruoli tra Gap e Sap fu comunque una tendenza generale fino alla liberazione. Con l’avvicinarsi dell’inverno e l’arresto dell’avanzata alleata dopo il proclama Alexander, anche le azioni gappiste persero il carattere di fulminea sorpresa per inserirsi in un quadro sempre più coordinato non solo con le Sap, ma anche con le formazioni di montagna: oltre alla soppressione delle spie, dei delatori e dei gerarchi venne intensificato il controllo delle vie di comunicazione attraverso un massiccio attacco agli automezzi tedeschi: sabotaggio di linee ferroviarie, sparatorie contro mezzi militari provenienti dalla montagna, attacco ai tralicci dell’alta tensione (Nota 43).
Abbiamo finora sottolineato come l’esperienza gappista sia strettamente legata al solo Pci, tuttavia – anche se abbiamo poche notizie in merito – sappiamo con certezza che il termine Gap cominciò a farsi strada anche all’interno delle formazioni di Giustizia e Libertà (Gl):

Inutile insistere sull’importanza che avrebbe per noi in questo momento agli effetti della possibilità di scambio con lo zio, la cattura di elementi militari e civili, tedeschi, altolocati che l’Alto comando tedesco vorrebbe riavere ad ogni costo.
Tale cattura deve avvenire senza danneggiare fisicamente il catturato, la sua morte o la sua ferita sarebbe gravemente controproducente.
Dal vostro comando dipendono attualmente una dozzina di Gap: ben preparati, ben armati e con la promessa di un grosso premio individuale se il colpo riesce (anche superiore alle 10.000 lire) essi devono ora essere usati per il prelievo come ostaggi di uno almeno dei due nominativi seguenti. I Gap devono essere istruiti di avvisare immediatamente la persona che catturano che la sua cattura non ha scopo violento ma solo scopo di usarlo per un cambio: la corrispondente frase in lingua tedesca dev’essere o imparata a memoria dai Gap o a scritta sui biglietti di cui devono essere muniti: ciò è utile per distogliere la persona prelevata dal desiderio di opporre una violenta Resistenza fisica nell’eventualità di una colluttazione […] (Nota 44).

Il documento, che fa riferimento alla cattura di Parri del 2 gennaio 1945, fu inviato dal comando generale lombardo delle formazioni di Gl al comando delle divisioni cittadine di Milano. La parola Gap è qui utilizzata per nuclei che si occupavano di rapimenti al fine di scambio di prigionieri, un tipo di lotta assai diverso da quella gappista classicamente intesa. Le raccomandazioni a preservare la vita e l’incolumità degli ostaggi sono un indizio di come la matrice ideologica fosse molto differente, tuttavia è importante sottolineare come i comandi Gl assunsero la denominazione Gap, probabilmente consci del grande spazio pubblico che queste formazioni si erano ritagliate nel contesto cittadino.
Tutti questi elementi sottolineano come la multiformità dei “gappismi” ci imponga prudenza nel cercare di schematizzare un fenomeno che, per sua natura, si presenta come disorganico e complesso. In una prospettiva futura sarebbe interessante provare a tenere insieme dimensione nazionale e dimensione locale, per fare emergere come il Pci abbia concepito e teorizzato i Gap, da un lato, e come queste direttive siano state poi declinate nei diversi territori, dall’altro. La centralità dei diversi casi locali e la possibilità di compararli ed analizzarli è determinante perché – come abbiamo visto – anche di fronte ad alcune rigidità del centro dirigente, le diverse realtà seppero dare risposte originali dal punto di vista del reclutamento, delle operazioni militari e dell’organizzazione.

 

NOTE:

Nota 1 Istituto Gramsci Roma (d’ora in poi IGR), Archivio del Partito Comunista (d’ora in poi APC), Fondo Direzione nord (d’ora in poi DN), Serie Direzione, 1-8-1, Circolare strettamente riservata, dalla segreteria del Pci ai responsabili di federazione e di città, maggio 1943. Torna al testo

Nota 2 P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, Feltrinelli, Milano 1971, p. 95, La testimonianza di Antonio Roasio. Torna al testo

Nota 3 Ilio Barontini, Dario (1890-1951), dirigente comunista livornese. Emigrò in Francia per sfuggire alle carceri fasciste ed abbandonò la famiglia per dedicarsi completamente alla guerriglia. Organizzò i ribelli in Etiopia, combatté tra le fila dei garibaldini di Spagna e tra i Ftpf. Rientrò in Italia nell’agosto 1943, dal luglio del 1944 divenne comandante del Comando unico militare Emilia-Romagna (Cumer). A liberazione avvenuta venne soprannominato “il cavaliere della libertà dei popoli”. Morì in un incidente d’auto il 22 gennaio del 1951. Per una biografia completa di Barontini cfr. E. Barontini, V. Marchi, Dario, llio Barontini, Nuova Fortezza, Livorno 1988. Torna al testo

Nota 4 Cfr. L. Paggi, Il «popolo dei morti». La repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946), il Mulino, Bologna 2009, pp. 110-116. Torna al testo

Nota 5 Cfr. M. Conti, Guerra in pianura. I Gruppi di azione patriottica (Gap) a Reggio Emilia, «RS-Ricerche Storiche», 118 (2014). Torna al testo

Nota 6 Cfr. D. Gagliani, Culture comuniste tra anni 30 e 40: Togliatti e Reggio rossa, alcune note, in G. Boccolari, L. Casali (a cura di), I Magnacucchi, Valdo Magnani e la ricerca di una sinistra autonoma e democratica, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 25-46; L. Casali, D. Gagliani, Presenza comunista, lotta armata e lotta sociale nelle relazioni degli «ispettori»: settembre 1943-marzo 1944, in L. Arbizzani (a cura di) Azione operaia, contadina, di massa, in LEmilia Romagna nella guerra di Liberazione, vol. III, De Donato, Bari 1976, pp. 499-611. Torna al testo

Nota 7 Istituto per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Reggio Emilia (d’ora in poi ISTORECO), Fondo Archivi della Resistenza (d’ora in poi AR), b. 1b, fasc. 18, Delegazione per lEmilia del comando generale dei distaccamenti e Brigate dAssalto Garibaldi, giugno 1944. Torna al testo

Nota 8 Per una sintesi del caso bolognese cfr. M. De Micheli, 7ª Gap, Editori Riuniti, Roma 1971. Torna al testo

Nota 9 Il recente libro di Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e resistenza, del quale abbiamo preso visione solo a lavoro ultimato, restituisce per la prima volta una sintesi dell’esperienza dei Gap attraverso un’avvincente ricostruzione dei colpi più rappresentativi. L’autore chiarisce che la scelta del plurale “storie di Gap” in luogo del singolare “storia dei Gap” è tesa a delimitare i confini della sua ricerca che, non potendosi basare su una mole di studi locali criticamente fondati – tuttora assenti –, ha dovuto comprendere solo i casi ritenuti esemplari ed emblematici. Cfr. S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e resistenza, Torino, Einaudi 2014, p. 8. Torna al testo

Nota 10 A. Fagioli, Partigiano a 15 anni, Alfa, Firenze 1993, p. 106. Torna al testo

Nota 11 C. Capponi, Con cuore di donna, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 277-278; cfr. anche R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, a cura di M. Ponzani, Einaudi, Torino 2011, pp. 110-111. Torna al testo

Nota 12 Cfr. R. Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Mursia, Milano 1983, pp. 82-83. Torna al testo

Nota 13 L. Casali (a cura di), Cumer, Il Bollettino militaredel comando unico militare Emilia Romagna (giugno 1944-aprile 1945), Patron, Bologna 1997, pp. 213-218, A tutti i gappisti - A tutti i sappisti della provincia di Bologna, novembre 1944. Torna al testo

Nota 14 I detenuti politici del Pci furono sottoposti nelle carceri ad una severa istruzione politica da parte dei militanti più esperti: ci si formava sui testi marxisti e si seguivano rigide norme di distribuzione alimentare in modo da garantire a tutti un equo sostentamento. Tra i comandanti gappisti provenienti da questa esperienza dobbiamo ricordare Giovanni Pesce, Elio Chianesi, Bruno Fanciullacci, Giacomo Buranello, Walter Fillak, Cesare Massai. Torna al testo

Nota 15 A tal proposito si vedano le posizioni di Pietro Secchia assai critiche rispetto alla linea intrapresa dal Partito in quegli anni in P. Secchia, Lazione svolta dal Partito comunista in Italia durante in fascismo 1926-1932, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 115-117. Torna al testo

Nota 16 C. Massai, Autobiografia di un gappista fiorentino, Associazione Centro Documentazione, Pistoia 2007, p. 41. Torna al testo

Nota 17 IGR, APC, Fondo DN, Serie Liguria, 18-1-6, Alcune note sulla organizzazione del P. in Liguria, 13 novembre 1943. Torna al testo

Nota 18 G. Carocci, G. Grassi (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. I, Agosto 1943-Maggio 1944, Feltrinelli, Milano 1979, p. 126, doc. n 18, Alfredo (Arturo Colombi) al responsabile del lavoro militare per il Piemonte, Sandrelli, 10 novembre 1943. Torna al testo

Nota 19 G. Amendola, Lettere a Milano 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 220-221, Dal verbale della riunione del gruppo di direzione di Roma, 23 novembre 1943. Torna al testo

Nota 20 A. Tagliabracci (a cura di), Le Quattro Ragazze dei Gap. Carla Capponi, in «Il Contemporaneo», 1964 (77). Torna al testo

Nota 21 R. Bentivegna, Achtung, cit., p. 62. Torna al testo

Nota 22 Mario Fiorentini aveva presentato al Partito comunista anche Franco Calamandrei e Vasco Pratolini che divenne capo settore nella terza zona. Nella fase del reclutamento Fiorentini fu una pedina fondamentale per collegare questi giovani alla lotta armata. Torna al testo

Nota 23 M. T. Regard, Autobiografia 1924-2000, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 54. Torna al testo

Nota 24 Archivio dell’Istituto per la storia dell’età contemporanea (d’ora in poi ISEC), Piccoli Fondi, Carte Mantovani, non ordinate, Autobiografia del Compagno Camesasca Carlo (Barbisùn), s.d. Il testo viene riportato fedelmente, senza interventi di natura ortografica. Torna al testo

Nota 25 N. Adduci, Il mito e la storia: Dante di Nanni, in «Studi Storici», 4 (2012). Torna al testo

Nota 26 IGR, APC, Fondo DN, Serie Emilia-Romagna, 8-2-7, Rapporto del triangolo dal settembre al dicembre 1943. Torna al testo

Nota 27 G. Amendola, Lettere a Milano, cit., pp. 225-226, Dal verbale della riunione del gruppo di direzione di Roma, 23 novembre 1943. Torna al testo

Nota 28 C. Massai, Autobiografia, cit., p. 39; G. Verni, Lopera dei gappisti fiorentini, in«Atti e Studi dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana», 5 (1964), pp. 7-8. Torna al testo

Nota 29 Cfr. N. Simonelli, Giacomo Buranello, primo comandante dei Gap di Genova, De Ferrari, Genova 2002. Torna al testo

Nota 30 Sul caso milanese si veda L. Borgomaneri, Due inverni unestate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, Franco Angeli, Milano 1995. Torna al testo

Nota 31 ISEC, Piccoli Fondi, Carte Mantovani, non ordinate, Autobiografia, cit. p. 3. Torna al testo

Nota 32 Una descrizione meno minuziosa dell’azione ma coerente con la versione fornita da Camesasca si ha anche in ISEC, Piccoli Fondi, Carte Sgobaro, non ordinate, Biografia del gappista Sgobaro Renato (Giulio), s.d. ma post liberazione. Torna al testo

Nota 33 Si veda ad esempio L. Bergonzini (a cura di), La Resistenza a Bologna: testimonianze e documenti, vol. III, Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1970, pp. 276-277, Testimonianza di Walter Nerozzi. Torna al testo

Nota 34 Italo Busetto, Franco (1915-1985), nacque a Napoli da una famiglia di intellettuali, si laureò in Giurisprudenza e fece parte dei Guf, ma da subito manifestò la sua simpatia per la Russia sovietica. Dopo la laurea venne assunto in banca come funzionario e, chiamato alle armi nel 1940, venne inviato sul fronte greco-albanese. Rientrato in Italia venne richiamato per il fronte russo nel 1942 ma, ormai convintosi della necessità di combattere fattivamente il fascismo, riuscì ad ottenere il congedo appellandosi ad un imperfezione dell’occhio sinistro e riprese il suo impiego in banca. Prese contatti con l’antifascismo organizzato nell’agosto del 1943, chiese poi l’iscrizione al Partito comunista e, caso unico, la ottenne subito. Nel dopoguerra divenne dirigente ed amministratore locale per il Pci milanese finché non si ritirò a vita privata. Per la vita di Busetto cfr. L. Borgomaneri, Due inverni, cit., pp. 116-120. Torna al testo

Nota 35 I. Busetto, Cronaca Sap in «il Settimanale. Organo della Resistenza», 3 (1946). Torna al testo

Nota 36 Istituto Nazionale Storia Movimento Liberazione in Italia, Fondo Corpo Volontari della Libertà, b. 92, fasc. 2, Prontuario del Sapista, 29 dicembre 1944. Torna al testo

Nota 37 IGR, APC, Fondo Brigate Garibaldi (d’ora in poi BG), sez. I, cart. 2, fasc. 1 (giugno-luglio 1944, lettere e circolari), ff. 004815-16, Inquadramento di nuovi elementi, giovani richiamati ed operai che sfuggono alla deportazione, s.d., il doc. riporta: protocollo n. 15 circolare n. 7. Il maiuscolo è nel testo. Torna al testo

Nota 38 IGR, APC, Fondo BG, sez. I, cart. 2, fasc. 2 (agosto 1944, lettere e circolari), ff. 005129-30, Funzionamento dei comandi operativi unificati di zona e dei comandi militari provinciali, 7 agosto 1944, il doc. riporta: protocollo n. 35, circolare n. 18. Torna al testo

Nota 39 G. Amendola, Lettere a Milano, cit., p. 395, Seconda Lettera da Bologna, 28 agosto 1944. Torna al testo

Nota 40 IGR, APC, Fondo DN, Serie Direzione singoli, 2-13-6, Sul problema Gap e Sap Vineis a Palmieri, 1 settembre 1944. Torna al testo

Nota 41 F. Giannantoni, I. Paolucci (a cura di), Giovanni Pesce Visoneun comunista che ha fatto lItalia. Lemigrazione, la guerra di Spagna, Ventotene, i Gap, il dopoguerra (Togliatti, Terracini, Feltrinelli), Essezeta, Varese 2005, pp. 139-140. Torna al testo

Nota 42 ISTORECO, Fondo AR, b. 2A, fasc. 11, comando azioni, il comando Brigata Sap Reggio Emilia al comando di tutte le zone, al comando Brigata Gap e p. c. al comando piazza, 31 ottobre 1944. Torna al testo

Nota 43 Cfr. M. Conti, I Gruppi di azione patriottica e le guerriglia nei centri urbani durante la guerra di Liberazione, tesi di laurea in Scienze Storiche, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, a.a. 2012-2013, relatrice prof.ssa D. Gagliani, pp. 245-297. L’appendice finale ricostruisce, attraverso il confronto tra i Bollettini prodotti dalle brigate di Roma, Firenze, Reggio Emilia, Bologna, Milano e Torino, e i Notiziari della Gnr, tutte le azioni dei Gap suddivise per città, giorno, mese, anno. Torna al testo

Nota 44 G. De Luna et al. (a cura di), Le formazioni Gl nella Resistenza, Franco Angeli, Milano 1985, p. 300, Parri è arrestato i Gap devono reagire, s.d, ma successivo al 2 gennaio 1945. “Lo zio” è il nome in codice di Ferruccio Parri. Torna al testo

 

Questo saggio si cita: M. Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca, in «Percorsi Storici», 3 (2015) [www.percorsistorici.it]

Questo saggio è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia

 

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