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Guido Crainz, Storia di un naufragio. Italia, 2003-2013, Donzelli, Roma 2013, pp. 220

(Mirco Dondi)

 

L’ultimo dei quattro volumi di Guido Crainz sulla storia dell’Italia repubblicana (Il Paese reale, Donzelli, 2012) termina con una postfazione intitolata La resistibile deriva, che si innesta con il Diario di un naufragio costruito sui numerosi articoli di commento che l’autore ha scritto per «La Repubblica», «Diario», «Il Piccolo», il «Messaggero veneto» nell’arco di un decennio. Non si tratta però di una riproposizione di quei contributi, ma di un montaggio sul quale si innestano ulteriori riflessioni dell’autore e il dibattito pubblico caratterizzato dai principali opinion maker: Pier Luigi Battista, Giuseppe D’Avanzo, Giuliano Ferrara, Ernesto Galli Della Loggia, Massimo Giannini, Gad Lerner, Ezio Mauro, Luca Ricolfi, Sergio Rizzo, Barbara Spinelli, Michele Serra, Gian Antonio Stella. Un dibattito, come si evince dai nomi, rappresentato preferibilmente sull’area del centro sinistra e che guarda al giornalismo di impegno civile, osservatorio privilegiato delle ricostruzioni di Guido Crainz che ha sempre avuto per le sue opere una figura come Enzo Forcella tra i suoi punti di riferimento, non a caso ancora evocato in queste pagine.
Il coro dei commentatori conduce ad altre riflessioni, utili a cogliere il taglio interpretativo di quest’opera, come l’assoluto predominio della carta stampata sia sul giornalismo digitale, sia sul giornalismo televisivo tenuto complessivamente in scarsa considerazione e visto, semmai, come contenitore invaso da Berlusconi (un chiaro esempio è l’inverno elettorale del 2006: pp. 53-54), o mezzo di contesa quasi sempre manipolato (p. 103) più che un autonomo produttore di opinioni. La bassa attendibilità del medium televisivo è accresciuta anche dalla scarsa considerazione che l’autore riserva ai pur non lottizzati Michele Santoro e Marco Travaglio.
Inevitabile che questo sia un diario di politica interna, una testimonianza di passione civile (importanti le pagine sul caso di Eluana Englaro) dove l’autore è inserito nel dibattito. I temi che sono in filigrana nelle opere di sintesi sull’Italia repubblicana (per esempio il patrimonio acquisitivo di evasione dalla legalità già descritto nel Paese mancato a proposito dell’assenza della riforma urbanistica nel 1964) non solo si riflettono sul presente, ma appartengono al registro della contesa. Crainz cerca di non perdere mai la sua dimensione di storico mantenendo, dove possibile, una visione prospettica. È così per la crisi dei partiti, richiamata in momenti diversi del suo declino negli anni Settanta, negli anni Ottanta fino all’occasione abortita di Tangentopoli dal cui sbocco fuoriesce un’incompiuta seconda Repubblica.
Il rapporto tra cittadini e politica caratterizza la maggioranza delle riflessioni dell’autore, molto attento a valutare il percorso di nascita del Pd, descritto come un’unificazione senz’anima alla quale hanno nociuto le spinte centrifughe di Margherita e Democratici di sinistra. Andando oltre il difficile parto, l’autore ha dato credito al progetto di fondazione del Pd, volto innanzitutto a riformare la politica e a rilanciare la partecipazione. Crainz non nasconde il consenso per le proposte di Walter Veltroni che guarda a un maggioritario semplificato dal pulviscolo di partiti e registra con altrettanto favore l’alta (e imprevista) partecipazione alle primarie. È un desiderio di un’altra politica che nel Paese serpeggia in forme diverse. Inizia con i girotondi e arriva ai sempre più affollati raduni “vaffa” di Grillo, il cui seguito è già stimato dai sondaggisti vicino al 10% sul finire degli anni Zero. Dentro all’ira dell’antipolitica – che Crainz ricorda non essere mai stata portatrice di seguito per la sinistra (p. 97) – trova spazio lo straordinario successo del libro La Casta di Stella e Rizzo, che denuncia gli intoccabili privilegi e gli inauditi sperperi della classe politica sulla cui credibilità pesano scandali di ogni tipo, dagli affari del bossiano cerchio magico al basso impero berlusconiano ridotto a bordello. Poco importa che la degradazione della politica sia un fenomeno diffuso nel mondo occidentale (complice la personalizzazione e le regole dell’esposizione mediatica); molto importa, invece, che la missione del Pd, di risanare la politica, sia fallita, come deve amaramente registrare l’autore, di fronte ai rinvii a giudizio e allo scandalo affaristico che coinvolge una rilevante figura del Partito democratico, Filippo Penati coordinatore della segreteria di Pier Luigi Bersani. È qui che il giornalismo civile, soprattutto legato al centro sinistra, fornisce la migliore prova di sé esigendo chiarezza sui contesti e le dimissioni dei personaggi coinvolti. Nonostante l’incalzare di una stampa pregiudizialmente non ostile, anche il Pd s’incaglia, non dà risposte immediate, non è risoluto nel riformare la politica.
Nel precipitare della credibilità della classe dirigente divampa dal 2008 la crisi economica, una prova del fuoco che brucia Silvio Berlusconi come uomo di governo, al di là delle sue pendenze giudiziarie. Resta – dice in conclusione l’autore – un Paese disarticolato, un’eredità pesante che rende faticosa la progettazione del futuro.

 

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