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Chiara Curti

Dal nazionalismo al fascismo. Le donne di Reggio Emilia tra prima guerra mondiale, dopoguerra e regime fascista

 

A Reggio Emilia la mediazione per l’adesione delle donne al regime fascista fu, per la maggior parte dei casi, il nazionalismo. Esiste infatti una continuità che lega l’esperienza della Grande guerra, del dopoguerra e del Fascio femminile, continuità ideologica, di personale e anche in parte organizzativa. Proposito del saggio è illustrare questa continuità, tenendo conto di alcune questioni legate alle fonti. Se per quanto riguarda il periodo 1915-1918 sono abbondanti (Nota 1), lo stesso non si può dire del primo dopoguerra (Nota 2), sia del periodo fascista: in quest’ultimo caso la documentazione degli anni tra il 1921 e il 1928 è scarsissima, mentre quella del periodo tra il 1929 e il 1940 permette di ricostruire con una certa efficacia la storia del Fascio femminile, nonostante si tratti di una minima parte di quella prodotta all’epoca, e nonostante manchino gli elenchi delle iscritte. Al di là delle difficoltà, evidenti anche nella ricostruzione delle biografie delle protagoniste, questa continuità risulta assolutamente evidente, e per mostrarla non resta altro che illustrare l’esperienza delle donne reggiane tra il 1915 e l’avvento del fascismo al potere.
Alla data del 1915, fu Virginia Guicciardi Fiastri a guidare la mobilitazione delle donne reggiane. Questa scrittrice, autrice di romanzi e di commedie teatrali di grande successo in ambito locale e, talvolta, nazionale, nacque il 27 giugno 1864 in una famiglia di fede nazionalista che poteva vantare la partecipazione al Risorgimento.
Giuseppe Fiastri e Giuseppina Salimbeni si sposarono del 1863, quando lui era già vedovo e padre di cinque figli, ed ebbero tre bambini. L’educazione di Virginia fu curata dalla madre, colta e guidata da una profonda fede religiosa: solo al compimento del quindicesimo anno di Virginia ne chiese l’ammissione alla Scuola normale privata del Reale collegio di Santa Caterina, dove la giovane, brillante negli studi, iniziò l’attività letteraria con piccole commedie a sfondo comico (Nota 3).
Nel 1885 Virginia sposò Giuseppe Guicciardi, medico praticante al Manicomio San Lazzaro, e dalla loro unione nacquero tre figli. Guicciardi aveva compreso le straordinarie abilità della moglie, e sin dai primi tempi del loro matrimonio la incoraggiò, procurandole opere di autori italiani e stranieri da tradurre, e sostenendola nella pubblicazione di novelle e romanzi. E proprio nei romanzi della Guicciardi Fiastri – la quale non partecipò direttamente ai movimenti femministi che a cavallo tra il XIX e il XX secolo lottavano per l’emancipazione giuridica e la difesa della donna lavoratrice – vediamo esprimersi il suo “femminismo moderato”, le sue aperture ideologiche in favore della liberazione della donna, evidenti nelle figure di mogli sopraffatte all’interno della famiglia. La scrittrice reggiana non riuscì tuttavia a discostarsi dall’immagine femminile tradizionale, considerando doti specifiche delle donne virtù quali la dedizione e il sacrificio. Le sue protagoniste si ribellano spesso alla rinuncia dell’amore vero: il femminismo sta nell’elemento della ribellione, latente ma sempre presente, che tuttavia porta i suoi personaggi alla morte o alla malattia nervosa, a testimonianza di come la scrittrice concepisse una donna ancora profondamente legata al ruolo di sposa e di madre. Una polemica contro il delitto d’onore è chiaramente visibile nel dramma Il divieto: Cordelia, la protagonista, scopre alla vigilia delle proprie nozze che la madre è stata uccisa dal padre, assolto in tribunale, poiché lei era sospettata di adulterio. La ragazza ha un forte dissenso col padre, cui dichiara che «la volontà delle donne non s’incatena», poi rifiuta di sposarsi, perché «un marito mi fa terrore. Un marito è abdicazione della volontà, è patto della schiavitù!». La Guicciardi rappresenta una ribellione impensabile per l’epoca, motivata dalla convinzione che le donne debbano avere una volontà autonoma e mantenere la sincerità con sé stesse. Cordelia rinuncia a un fidanzato che loda la donna tradizionale, la quale non deve fare parte di nessun comitato né fare propaganda per il suffragio femminile: deve essere la moglie pura e innocente del marito libero, cui spetta solo il compito di serbare bambina la propria compagna.
L’ultimo degli interventi di Virginia sul tema dell’emancipazione femminile è un discorso pronunciato ad un convegno tenutosi a Roma tra il 7 e il 9 ottobre 1917: si tratta del suo più diretto intervento sul tema, in cui si proponeva di sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto femminile, in merito alla necessità di ottenere quelle sanzioni di legge già in parte studiate dal Parlamento, che riguardavano la condizione sociale e giuridica della donna. I temi discussi erano quelli della più scottante attualità: il riconoscimento della paternità per i figli illegittimi, la protezione della donna lavoratrice, specie se madre, il diritto per le donne di esercitare le libere professioni, anche nel settore pubblico, l’abolizione del diritto maritale e il diritto di voto (Nota 4). Nella conclusione del discorso la scrittrice, pur a favore di riforme orientate alla protezione della donna madre e lavoratrice, distingueva chiaramente tra sesso femminile e maschile, che dovevano avere prerogative proprie, ed esprimeva una posizione favorevole al suffragio, che tuttavia vedeva sempre la famiglia come campo d’azione essenziale della donna, a cui però doveva accompagnarsi l’affermazione dell’identità personale grazie all’attività lavorativa.
La Guicciardi vedeva sé stessa come una donna segnata dalla doppia condizione di madre e di scrittrice, profondamente impegnata nell’attività sociale, prima con un teatrino che allietava medici e malati del San Lazzaro, poi nella lotta contro la tubercolosi, nella società Amici della musica, che promuoveva stagioni di concerti in ambito locale. Fu in questi ambienti che conobbe molte delle signore che avrebbe scelto per coadiuvarla nel Comitato femminile di assistenza civile.
Nell’aprile del 1915 la contessa Gabriella Spalletti scrisse a Virginia suggerendole di costituire anche a Reggio Emilia un Comitato di preparazione civile in caso di mobilitazione. La scrittrice accettò, dal momento che era necessario «associare nell’ora perigliosa in uno stretto vincolo (senza eccezioni di classi e di partiti e in nome della Patria) tutte le donne di Reggio e della provincia per avviarle ad un concorde lavoro» (Nota 5).
Le sedute preliminari si svolsero indipendentemente dal Comitato provinciale per l’organizzazione dei servizi civili (Nota 6), guidato da Alessandro Mazzoli, presidente della provincia di Reggio: la guerra era già scoppiata, e bisognava muoversi in fretta. Nella commissione esecutiva del Comitato troviamo soprattutto donne appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia: Carolina Sforza Calvi, vicepresidente, Maria Balletti, Ida Calvi Scapinelli, Barbara Cassoli Tirelli, Elisa Chiesi, che si occupava dei servizi pubblici, Clelia Scheiola Grasselli, Lina Biacchi Mazzoli, Rosina Mattei Zappa, Erice Angeli Montecchi, Itala Petrazzani Strozzi, Maria Menada Spallanzani, Ida Modena Palazzi, Angelica Sforza Pellizzi, Assunta Sforza Lari, Irene Manzotti Torlasco e Virginia Cocchi, che era la cassiera (Nota 7). Come il Comitato maschile, anche quello femminile si divise in Sezioni: quella di Assistenza all’infanzia, diretta dalle signore Pellizzi, Sforza Calvi e Montecchi, quella di Assistenza ai feriti e agli infermi e di aiuto negli ospedali, diretta dalle signore Mazzoli, Balletti e Petrazzani, quella di Corrispondenza, diretta da Laura Marani Argnani, cui si aggiunse un Laboratorio.

Figura 1 Archivio della Biblioteca Panizzi, Comitato di Assistenza Civile, Membri, 1917, Foto di Roberto Sevardi.

Alcune delle donne più impegnate del Comitato, in particolare alcune di coloro che avrebbero continuato la loro attività durante il periodo fascista, meritano la nostra attenzione. Virginia Cocchi era la figlia di Riccardo Cocchi, presidente della Camera di commercio, e di Maddalena Manodori, anch’essa attiva nel Comitato, il cui padre era Pietro Manodori, primo sindaco di Reggio, fondatore della Cassa di risparmio e dell’Asilo Manodori. Anche la moglie, impegnata in varie iniziative di assistenza, si occupava di attività bancarie, tanto da figurare tra i soci fondatori della Banca agricola. Virginia nacque il 1° giugno 1880, e ebbe due sorelle, Rita, l’unica che si sposò, e Maria, nota infermiera che lavorò al fronte nel corso della prima guerra mondiale. Gli studi delle sorelle furono probabilmente casalinghi, e Virginia assorbì quella cultura di stampo risorgimentale che la portò ad aderire al nazionalismo. Inoltre, sebbene non impegnata nel movimento emancipazionista, può essere descritta come una femminista ante litteram: all’interno di una famiglia dove la trasmissione dei beni avveniva in linea patrilineare, Virginia si distinse per una marcata indipendenza, tanto che era lei a trattare direttamente con i mezzadri che lavoravano la sua terra. La Cocchi non si sposò mai: secondo la leggenda famigliare, da giovanissima si innamorò del cugino, e ne ebbe una forte delusione. Donna fascistissima, non si iscrisse al Fascio femminile, ma fu sempre attiva nell’assistenza all’infanzia come dama della San Vincenzo, specialmente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Alla morte della sorella Rita, fece da nonna al nipote di costei, Leopoldo Manodori Barbieri, che la descrive come una «donna dolce e decisa, un personaggio straordinario e incredibile che ha illuminato la sua infanzia» (Nota 8). Morì il 18 settembre 1977.
Maria Menada Spallanzani, nata nel 1877, era la figlia di Mariannina Manzotti, proveniente da una famiglia di possidenti modenesi, e di Pietro Spallanzani, per molti anni giudice conciliatore. Fu lui a introdurre la figlia negli ambienti della Croce rossa, nella quale fu attivo, nonostante l’età, anche durante la Grande guerra, occupandosi dell’organizzazione dei treni ospedale. Maria proseguì gli studi fino a 16 anni, frequentando come semiconvittrice il collegio femminile si Santa Caterina. Nel 1901 sposò Giuseppe Menada, cui diede cinque figli. Menada era più vecchio di lei di dieci anni, ma era molto conosciuto in città in quanto direttore della Camera di commercio e fondatore nel 1901 delle Officine meccaniche reggiane, di cui sarebbe stato presidente fino al 1912. Nel 1904 diede vita alla Croce verde, che nel giro di pochi mesi riuscì ad organizzare un efficiente servizio di pronto soccorso. Egli divenne sindaco di Reggio nel 1925, continuando a ritenersi, pur all’interno del governo fascista, uno dei vecchi moderati, tanto che non prese la tessera del partito. Menada vedeva infatti nel fascismo un mezzo che poteva ripristinare l’ordine, e l’erede del nazionalismo cui aveva aderito già all’epoca della “Grande armata”, così come nel sistema corporativo vide quella collaborazione tra classi propagandata nella campagna elettorale del 1907. Podestà dal 1927, morì quattro anni dopo. Maria divenne dama della Croce rossa nel 1911, quando fu tra le organizzatrici dell’invio dei pacchi ai soldati impegnati nella conquista della Libia. Il diploma da infermiera lo ottenne nel 1915, e da allora iniziò a lavorare negli ospedali reggiani, ottenendo la qualifica di ispettrice della Croce rossa provinciale in seguito alla visita a Reggio della duchessa d’Aosta. Maria svolse tale incarico per tutta la vita e che le fece guadagnare due onorificenze, una medaglia di benemerenza conferitale in Campidoglio nel 1917 e una medaglia d’argento ricevuta nel 1922 come “benemerita della salute pubblica”. Nel primo dopoguerra rimase attiva nel campo assistenziale, frequentando nel 1924 un corso che le permise di conseguire una qualifica di infermiera di grado superiore, e fondò il Consultorio e dispensario lattanti il quale, collegato alla Croce verde, si proponeva di assistere le madri che per cause di lavoro o di indigenza non riuscivano a prendersi cura dei figli. A loro venivano fornite visite mediche gratuite e consigli di puericultura; le gestanti potevano frequentare il refettorio materno, mentre i bambini fino a tre anni in condizioni di povertà venivano raccolti nell’asilo. Si offriva anche la possibilità di ricoverare i figli delle mondariso per tutta la durata della stagione, notte e giorno. Quando il Dispensario lattanti confluì nell’Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia) la Menada continuò ad occuparsene, prestando anche servizio nelle Cucine di beneficenza – di cui divenne presidente – che si occupavano dell’invio di bambini poveri nelle colonie estive. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, Maria Menada si trovò di nuovo ad organizzare il locale servizio delle crocerossine, ma dovette abbandonare per motivi di salute: morì nel 1942 (Nota 9).
Molte donne entrarono nel Comitato di assistenza civile spinte dai mariti: così Lina Biacchi, moglie di Alessandro Mazzoli, Angelica Pellizzi Sforza, moglie del presidente del Collegio degli ingegneri, Alessandra Liuzzi, di famiglia ebraica, che aveva sposato Mario Zuccoli, proveniente da una famiglia di possidenti terrieri di Scandiano di tradizione clerico-moderata; così infine Itala Strozzi, moglie di Pietro Petrazzani, vicepresidente del Nosocomio San Lazzaro, presidente dell’Ordine dei medici, futuro presidente della Cassa di risparmio e sindaco di Reggio che aveva fatto parte della “Grande armata”. Chi invece decise autonomamente si entrare nel Comitato fu Maria Balletti, nata nel 1885, figlia di Andrea Balletti, membro della consorteria e storico, che certamente trasmise alla figlia i valori del nazionalismo e dell’amore per la patria, chiaramente leggibili nella sua storia di Reggio. Come la Balletti anche Elisa Chiesi, attiva nelle organizzazioni cattoliche. Alcune delle donne del Comitato già da anni si impegnavano nel Patronato delle giovani operaie: così Emma Catellani Musi, che nel dopoguerra ne sarebbe stata presidente, e la già menzionata Angelica Pellizzi Sforza, che ne era la segretaria.
Emma Catellani Musi nacque il 27 novembre 1877 da una famiglia di ricchi proprietari terrieri e ricevette un’istruzione casalinga. Sposò Gino Catellani, medico che lavorò per la sezione reggiana dell’Opera nazionale degli orfani di guerra tra il 1932 e il 1933. La Catellani conosceva da anni la Guicciardi Fiastri, che la volle nel Comitato di assistenza civile proprio in virtù della sua esperienza nel Patronato. Fu lei ad organizzare in una delle sale del pianterreno del suo palazzo il Laboratorio del Comitato, aperto tutti i giorni, dove sotto la sua direzione venivano prodotti indumenti per i soldati e biancheria per gli ospedali. Dopo la fine della guerra Catellani Musi continuò a lavorare al fianco della Guicciardi Fiastri nel Fascio Pro Patria, poi fu nominata da Laura Marani Argani segretaria del Fascio comunale. Durante la seconda guerra mondiale la sua casa in via Roma fu bombardata, e dovette trasferirsi nella villa di Albinea, parzialmente occupata da un comando tedesco, dove ospitò alcuni sfollati. Morì il 27 giugno 1949.
È opportuno soffermarci brevemente sul funzionamento del Comitato femminile di assistenza civile: le sue Sezioni funzionarono in modo efficace durante tutta la durata della guerra, costringendo Virginia e le compagne ad un lavoro duro e pieno di difficoltà. La Sezione di assistenza ai feriti era quella che assorbiva la maggior parte degli sforzi delle donne reggiane, sia come visitatrici impegnate a distribuire conforto e beni di ogni tipo ai soldati, sia come infermiere, sia nella raccolta delle forniture per gli ospedali. La Sezione di assistenza all’infanzia si occupava invece dei figli dei militari e degli asili cittadini. Anche le donne reggiane, come nel resto d’Italia, furono fin da subito oberate dalle richieste di sussidi, presentate spesso da donne che temevano di rivolgersi alle autorità maschili: fu questo a spingerle ad organizzare iniziative di ogni tipo per il reperimento di fondi, dalla vendita di cartoline e rose all’organizzazione di spettacoli e lotterie.
L’Ufficio per notizie alle famiglie dei richiamati, diretto dalla Marani Argnani, era tra i più efficienti, tanto da meritarsi elogi dall’Ufficio centrale di Bologna, ed era diviso in varie sezioni, in modo da coprire tutte le esigenze dei soldati, delle famiglie, e delle autorità. Se le attività principali, ossia la raccolta della lana, la distribuzione di indumenti l’invio di pacchi al fronte, l’assistenza ai figli dei soldati, ricoverati – sfamati e forniti di indumenti negli asili – l’organizzazione di corsi per le infermiere e il lavoro negli ospedali continuarono durante tutta la durata del conflitto, nel corso degli anni si aggiunsero altre iniziative particolari, come il laboratorio per i bachi da seta, nel 1917, e il punto di ristoro per i soldati alla stazione, nel 1918.

Figura 2 Archivio della famiglia Barbieri Manodori. Laboratorio bachi da seta, 1917.

A questo punto qualche riferimento sulla nascita del movimento fascista a livello nazionale e sul suo rapporto con la componente femminile della società è d’obbligo per comprendere meglio il passaggio delle donne reggiane dal nazionalismo all’adesione al regime fascista. All’atto di nascita del fascismo a San Sepolcro c’erano solo nove donne, e nel suo primo periodo di attività il movimento fascista si disinteressò completamente di loro, non prendendo misure per la creazione di una componente femminile interna al movimento stesso: il programma che prevedeva il voto con piena parità di accesso alle cariche corrispondeva al contesto politico del momento, dove il suffragio femminile godeva di ampio consenso. Il fascismo della prima ora aveva alcune caratteristiche che lo rendevano attraente per i ceti medi, quali il dannunzianesimo, capace di attirare donne emancipate ma ostili al femminismo, e il futurismo, che attirava giovani irrequiete con la sua miscela di militarismo e antiautoritarismo. Molte di coloro che aderirono al fascismo prima del 1925 lo considerarono come una forza moderna e liberatoria: erano donne eccentriche con una certa esperienza politica che si univa al disgusto per la mancanza di valori dello stato liberale e al desiderio di uno stato forte e ordinato; alcune avevano militato nel Partito socialista (Psi), per poi aderire al fronte interventista. Tra di loro solo Elisa Mayer Rizzoli militò nei Fasci femminili: dotata di grandi doti organizzative e di fondi finanziari, ne organizzò la rete a livello nazionale, curando anche il periodico «Rassegna Femminile Italiana». Le fondatrici, Amalia Besso, pittrice, Lucia Pagano, insegnante, e Carmelita Casagrandi, medico chirurgo, erano donne ricche ma prive di esperienza politica, e guardavano a Mussolini in un’ottica di restaurazione dell’ordine morale e sociale sconvolto dalla Grande guerra, sicure che, una volta giunto al potere, il fascismo avrebbe riconosciuto i loro meriti nella salvaguardia del fronte interno.
Le fasciste della prima ora dovettero fare i conti con l’atteggiamento di Mussolini, determinato dalle necessità di consolidamento del potere. Nel 1920 le posizioni “emancipazioniste” furono abbandonate di fronte all’ostilità dei reduci verso le donne lavoratrici, alla mentalità dei proprietari terrieri e della piccola borghesia. Dopo la Marcia su Roma Mussolini dichiarò che i tempi per il suffragio femminile erano maturi, e la stessa Legge Acerbo previde il voto per determinate categorie di donne alle amministrative, ma la generale abolizione delle elezioni nel 1926 vanificò la concessione del diritto di voto, sia pur limitata, e con essa le speranze delle donne. Mentre veniva approvato uno Statuto che relegava le donne ai compiti di assistenza, propaganda e beneficenza, si profilava lo scontro tra i Fasci lombardi, che si riconoscevano nella Mayer Rizzioli, da un lato, e quello padovano, guidato dalla Casagrandi, e romano dall’altro, nazionalisti e favorevoli a una visione più tradizionale della donna. Sostenuti dalla dirigenza del partito, furono questi a vincere la battaglia, e dal 1925 il regime iniziò a fare leva sull’immagine della donna quale angelo del focolare, madre di figli da sacrificare alla patria (Nota 10).
Alla fine della Grande guerra le donne reggiane seguirono Virginia Guicciardi Fiastri quando quest’ultima fondò, nel luglio del 1918, il Fascio Pro Italia o Pro Patria con un doppio fine, sia assistenziale – continuare il lavoro del Comitato di assistenza civile – sia politico, «moltiplicare le forze di propaganda per salvare l’Italia». La fede nazionalista delle donne reggiane era infatti ben evidente nel programma:

1) Innalzare la fede dell’avvenire della Patria nell’ambito della famiglia, della scuola, del lavoro per rendere fecondo il sangue sparso di tante giovinezze generose, il pianto, il sacrificio dell’intera Nazione.

2) Aiutare l’opera di resistenza fino al trionfo della causa del diritto, della giustizia contro il militarismo germanico oppressore del nemico.

3) Lavorare assiduamente a favore dello sviluppo di quella coscienza italiana nell’unione degli spiriti e in quei principi di elevazione morale, che assurgono a Dio, si inchinano alla volontà disinteressata e al riconoscimento dei doveri verso la famiglia e l’umanità, e all’onestà salda che non teme la crociata contro la virtù corruttrice e il disfattismo rovinoso ed empio.

4) Contribuire con tutte le forze a favorire il libero svolgersi delle nostre industrie italiane, dell’agricoltura, dei commerci, dell’arte, di tutte le energie caratteristiche nella nostra gente, rendendole indipendenti e tali da riacquistare tutta la piena agilità di movimento e il marchio originale della razza (Nota 11).

Il Fascio Pro Patria raccoglieva le stesse animatrici del Comitato di assistenza civile: se la presidenza spettava alla Guicciardi, le vice presidente era Emma Bergonzi Moscatelli, la cassiera Irene Manzotti Torlasco, la segretaria Marianna Riva. Tra le consigliere ritroviamo tutto il direttivo del Comitato, e ad esse si unirono alcune delle maggiori personalità del mondo cattolico femminile. Il Fascio Pro Patria decise di fare professione apolitica e apartitica, rivendicando la mancanza di distinzioni di ceto, parole propagandistiche dietro cui si nascondeva la guida dei ceti più ricchi della città, animati da una politica conservatrice, che rinnovava una forte ostilità al socialismo e ai mutamenti sociali in atto.
La presidente decise che la nuova associazione non avrebbe fatto parte, come il Comitato di assistenza civile, del Consiglio nazionale delle donne italiane, perché il gruppo reggiano non aveva intenzione di dedicarsi alla causa femminista, che per il momento doveva essere accantonata al fine di dare tutto l’appoggio ai combattenti. I motivi sono in parte esposti in una lettera alla signorina Ponzio Vaglia, dalla quale comprendiamo come l’ostilità alla questione del suffragio non venisse tanto dalla Guicciardi, ma dalle socie del Fascio Pro Patria (Nota 12).
Non appena avuta la notizia della fondazione del Fascio Pro Patria, Amalia Besso scrisse a Virginia per chiederle di aderire al Fascio nazionale femminile, insistendo per alcuni mesi:

Mi rallegro e mi compiaccio che abbiano deciso di adottare la dicitura Fascio Nazionale Femminile [...] e calcolo che si ritengano collegate a noi come tutti gli altri fasci e che comunicandoci reciprocamente le idee si possa lavorare tutte insieme e concordi per un solo ideale: la Patria! La grande vittoria, un raggiungimento dei nostri ideali non devono farci dormire sugli allori, anzi dobbiamo essere consce di quanto vi è ancora da fare, di come sia necessaria la serietà dell’opera che la donna può esplicare.
Approvo pienamente la sua idea di divulgare il sentimento patriottico attraverso la scuola, anzi credo che lei farebbe bene di svolgerla ampiamente per un articolo da pubblicare sulla rivista “Attività Femminile”, che è ormai letta da un gran numero di donne […] (Nota 13).

La Guicciardi, pur non rinunciando a qualche collaborazione con la Besso, rifiutò, nell’intento di mantenere l’indipendenza della propria associazione, provocando il disappunto della pittrice:

Mentre ammiro tutto ciò, che alla sua alta intelligenza e alla sua meravigliosa attività si compie di bene in codesta nobile città non comprendo perché essa sia l’unica che non ha voluto aderire al Fascio Nazionale, mentre il Fascio Pro Patria ha tutte le stesse finalità nel senso dell’unione di tutte le donne senza distinzione di classe e di partito, per la resistenza alla vittoria; e poi per affrontare i problemi che la guerra avrà resi più urgenti […] (Nota 14).

L’attività del Fascio Pro Patria si colloca, nel 1918, in forte continuità con quella del Comitato di assistenza civile: l’assistenza ai soldati la faceva ancora da padrone, insieme al lavoro negli ospedali, per cui la Guicciardi collaborò attivamente con la Croce rossa americana. Tra il 1919 e il 1921 le iniziative del gruppo cominciarono a differenziarsi e ad articolarsi in diversi settori, quali la propaganda nazionalista e l’attività a favore di coloro che nelle trincee avevano perso la vita, con la raccolta fondi a favore del monumento dei caduti e le onoranze funebri celebrate insieme all’Associazione delle famiglie dei caduti.
L’attività a favore dell’infanzia, inoltre, era varia e differenziata: se per i figli dei richiamati continuavano tutte le specifiche iniziative assistenziali, ed essi divenivano oggetto di una specifica propaganda nazionalista, per i bimbi delle terre irredente si provvedeva con sottoscrizioni, raccolte fondi, invio di indumenti, biancheria, materiale scolastico, e addirittura con il finanziamento di una latteria a Corbanese (Nota 15).
Una certa attenzione fu posta al mondo delle lavoratrici; essa derivava dal fatto che molte socie del Pro Patria prestavano servizio anche nel Patronato delle giovani operaie, mentre la presenza di svariate personalità del mondo cattolico locale portò il gruppo verso l’adesione alla campagna contro il lusso e l’immoralità della moda, che sarebbe durata fino al 1921, e avrebbe visto la costituzione di una specifica Lega.
La più importante delle opere svolte dal Fascio Pro Patria fu quella a favore di Fiume italiana. Immediatamente dopo la conquista della città da parte di D’Annunzio la fede irredentista della Guicciardi, membro del Comitato nazionale pro Fiume Italiana, spinse il gruppo verso l’opera di assistenza all’impresa, che per tutta la durata della Reggenza del Carnaro fu continua e assidua, fino alla protesta contro il governo Nitti, affinché i diritti degli italiani fossero rispettati. Del resto, l’annessione di Fiume era nel programma dell’associazione, e le iniziative furono numerosissime: si cominciò finanziando parzialmente una bandiera, venne invitata la contessa Pasini per una conferenza, furono vendute cartoline pro legionari cui seguì una raccolta fondi che permise di inviare a Fiume 2.000 lire, poi cominciò l’invio di pacchi per i legionari contenenti medicinali, indumenti, bende, calzature, carne in scatola, latte sterilizzato e pezze di tela. Le loro condizioni di vita, segnate dalla fame, erano pessime, «la razione è ridotta a metà», scriveva una delle dirigenti del movimento fiumano, «mancano scarpe, calze, maglie» (Nota 16).
Il punto più alto dell’azione del Pro Patria coincise con l’arrivo a Reggio di 12 bimbe fiumane, che vennero ospitate in alcuni istituti per quattro mesi: il gruppo provvide al loro mantenimento, alle cure mediche, alla loro istruzione. Alla partenza da Reggio tutte ebbero doni, biancheria, un cappotto di panno, scarpe, cappelli, e una catena d’argento con una medaglia. A riaccompagnarle fu la stessa Guicciardi Fiastri, che venne ospitata alla mensa particolare di D’Annunzio, rimanendo profondamente colpita dal Governatorato, descritto con entusiasmo nelle sue memorie. La scrittrice sarebbe tornata a visitare il poeta nel 1927, ma in quell’occasione D’Annunzio le sarebbe parso molto meno mitico e l’incontro andò a segnare un primo distacco dall’esperienza dell’irredentismo per Guicciardi. L’allontanamento da D'Annunzio non portò però alla all’abbandono definitivo dell’esperienza irredentista e da ciò che questa aveva rappresentato per il nazionalismo della Guicciardi Fiastri, la quale continuò a mantenersi in contatto con le donne che aveva conosciuto a Fiume: era per lei quasi un dovere che le donne di tutta Italia fornissero un supporto alle terre irredente.
Nel 1920 il Fascio aveva 939 socie, e l’apice sarebbe stato raggiunto l’anno successivo, con 1.500 aderenti. Alla chiusura dell’esperienza fiumana il clima politico mutò, e il Pro Patria si spostò progressivamente verso il fascismo. Pur non aderendovi direttamente, il Fascio Pro Patria mostrava il suo apprezzamento per il movimento mussoliniano, con la partecipazione ai funerali di Amos Maramotti, il versamento di un sussidio alla famiglia del caduto fascista Antonini, e l’offerta di fiori a un altro ferito delle Camicie nere (Nota 17). Alla fine del 1921 il Fascio si dichiarò simpatizzante di tutti i gruppi maschili che avevano come ideale l’amore per la patria e la volontà di ricostruire materialmente e moralmente la nazione; nel giro di breve tempo, il gruppo avrebbe dovuto fare i conti con il nuovo regime.
Il primo dopoguerra aveva visto a Reggio una forte crescita del Psi, dominato dalla corrente riformista di Camillo Prampolini. La lotta contadina e quella operaia avevano scosso profondamente la città, e, d’altra parte la borghesia era in difficoltà nel tentativo di darsi un’organizzazione politica efficace e il vecchio blocco agrario era in dissoluzione. L'alta borghesia reggiana non comprese lo stratagemma di Giolitti, volto ad attendere che le proteste operaie si estinguessero da sole, e gridò al tradimento, iniziando quel processo che l’avrebbe portata verso le forze della reazione e poi verso il fascismo, seguita dal ceto medio, verso il quale il Psi aveva sempre tenuto un atteggiamento di forte ostilità, non distinguendo tra gli interessi di grande e piccola borghesia. Ciononostante, il fascismo fu inizialmente un fenomeno di importazione nel reggiano, dove furono le squadre d’azione carpigiane e modenesi a commettere le prime azioni nelle campagne della bassa. Solo nel 1921 si formarono i primi gruppi di camicie nere locali, e da allora le violenze divennero quotidiane, con l’arrembaggio ai comuni socialisti, i cui amministratori furono costretti a dimettersi dietro violenze e minacce. Le violenze distrussero nel corso di un anno il movimento cooperativo, imponendo la sostituzione delle leghe con i sindacati fascisti, e impedendo l’applicazione delle conquiste del biennio rosso.
I nazionalisti reggiani vissero da subito in armonia con i Fasci di combattimento anche grazie al loro animatore Ottavio Corgini, presidente della Camera d’agricoltura e futuro sottosegretario all’Agricoltura del primo governo Mussolini. Dal punto di vista ideologico, ciò significò l’affermazione del fascismo nel Reggiano attraverso parole d’ordine conservatrici, come la difesa della proprietà, la fedeltà alla monarchia, la restaurazione della gerarchia e dell’autorità dello Stato (Nota 18).
Già nel 1922 la Guicciardi si chiese se fosse giusto mantenere l’indipendenza della propria associazione, e interpellò il Federale, che le rispose: «No, no, per ora tenete in vita la Pro Italia. È apolitica, prepara gli animi, ci aiuta. Ci ritroveremmo un poco più innanzi».
In un primo momento il fascismo decise infatti di appoggiarsi proprio al Fascio Pro Patria per le iniziative che implicavano una partecipazione femminile, probabilmente perché le risorse umane e materiali che quest’ultimo era in grado di mettere in campo erano molto maggiori rispetto a quelle a disposizione del piccolo Fascio femminile, nato il 5 maggio 1921 dalla volontà di 81 donne, nella maggior parte dei casi maestre nazionaliste, mogli o sorelle di gerarchi.
Questo avvenne soprattutto durante il periodo in cui Pietro Petrazzani e Giuseppe Menada, uomini che il fascismo aveva scelto per staccare la propria immagine da quella dello squadrismo, furono sindaci. I loro rapporti con la Guicciardi Fiastri furono sempre ottimi: Petrazzani scelse lei per rappresentare Reggio Emilia al Congresso dei dialetti del 1925, e nello stesso anno la nominò consigliera della colonia Luigi Roversi, stavolta in quanto presidente del Fascio Pro Patria; nel 1929 Menada la chiamò a far parte del Comitato per la celebrazione del pane, con il compito di preparare lo spettacolo per Balilla, Piccole e Giovani italiane.
Menada, inoltre, coinvolse il Fascio Pro Patria in una serie di iniziative a partire dal 1925, quando chiese alla Guicciardi Fiastri di tenere una conferenza sulle bonifiche della ditta Parmigiana-Moglia: in quell’anno le donne reggiane collaborarono all’albero di Natale del Dispensario lattanti, con cui si volevano offrire doni ai bimbi più poveri, e per loro il Pro Patria offrì denaro e oggetti; nel 1927, poi, lo stesso Dispensario chiese di finanziare una culla, poi intitolata all’associazione, e in seguito vennero offerti capi di abbigliamento per i piccoli.
Il Pro Patria continuò a dichiararsi politicamente indipendente fino al 1925, quando l’assemblea delle socie decise la fusione con il Fascio femminile, e le sue attività continuarono per altri due anni, fino allo scioglimento ufficiale del gruppo.
Quanto ai rapporti tra Virginia Guicciardi Fiastri e il fascismo, la scrittrice decise di prendere la tessera del partito, e collaborò con il Fascio femminile per diversi anni, fino al 1936, soprattutto per le Piccole e Giovani italiane, per cui scriveva commedie e spettacoli teatrali. La scrittrice accolse il fascismo perché esso partiva dalla religione della patria per governare il paese, attuando quella collaborazione tra le classi che compare frequentemente negli appelli del Fascio Pro Patria, e accettò senza troppi problemi la contraddizione che era alla base dei rapporti tra le donne e il fascismo, il quale da un lato favoriva una visione della donna tradizionale – l’angelo del focolare che si occupava dei figli e della famiglia lasciando il compito lavorativo al marito – dall’altro, nel momento in cui chiedeva loro di mobilitarsi per il successo della nazione, le spingeva verso la sfera pubblica (Nota 19). Ciò che le sfuggì fu il suo carattere intrinseco, la dittatura.
Virginia Guicciardi Fiastri aveva ottimi rapporti con Elisa Mayer Rizzioli: lo scambio epistolare doveva durare già da tempo nel 1926, quando la Mayer le scrisse sfogandosi di quanto le era accaduto. Roberto Farinacci, segretario del partito, aveva soppresso la sua carica di ispettrice nazionale dei Fasci femminili, costringendola a rassegnare le dimissioni (Nota 20):

Mia cara e illustre amica,
La sua lettera mi esprime un dolore che non è se non il riflesso di quello che martoria l’animo mio: perciò posso comprenderla e consolarla anche, sebbene poco. Io ho dei grandi doveri verso di lei, perché sono io che l’ho chiamata alla lotta disumana. Non sapevo però che mi sarebbe stato tolto il diritto di difendere le mie compagne di fede, e che io, straziata, avrei visto, senza poterci mettere riparo, straziare le altre.
L’aspetto a Milano, ansiosa di conoscerla personalmente, e di poter scambiare con lei il carico di dolore per alleggerirlo, e di studiare quello che si può fare in avvenire per la femminilità fascista, tanto misconosciuta e calpestata: mentre noi sappiamo quale forza deve essere pel partito e per la Patria nostra adorata. Stia serena, cara amica: pensi solo che il dolore ha potuto essere il lievito delle assunzioni umane (Nota 21).

È interessante come questa lettera riveli una comunanza di idee tra le due donne circa la condizione femminile, e la “lotta disumana” cui la Mayer si riferisce è la collaborazione con la «Rassegna Femminile Italiana», quindicinale espressione dei Fasci femminili che venne progressivamente osteggiato da Farinacci e dall’anima nazionalista del partito. Nel 1927 alla scrittrice reggiana venne chiesto dall’“amica milanese” un articolo sul conferimento del premio Nobel a Grazia Deledda, quando venne pubblicato un numero del giornale espressamente dedicato all’avvenimento. In quell’anno la «Rassegna» aveva appena ripreso le pubblicazioni dopo la sospensione voluta da Farinacci, e le sue condizioni economiche rimasero precarie anche nel 1928, quando la Mayer Rizzioli dovette piegarsi a pubblicare novelle e romanzi seguendo la moda, e chiese aiuto alla Guicciardi Fiastri, che venne anche scelta per il gruppo di scrittrici chiamate ad omaggiare il matrimonio tra Umberto di Savoia e Maria José, inviando uno scritto dalla coloritura nazionalista.
Pochi mesi prima della chiusura definitiva del periodico la Mayer Rizzioli scrisse, prefigurando gli avvenimenti, una lettera all’amica reggiana in cui sfogava il dolore e la frustrazione, rimarcando la distanza fra il proprio fascismo, vero e puro, e quello della direzione del partito:

Carissima amica,
Io sono grata della cara lettera sua che riempie un vuoto. Vedo che le occupazioni pressanti le hanno impedito di scrivermi prima. Ma essa non sa quanto è accaduto: nuove politiche e pericolosissime colleganze di donne equivoche hanno trovato in Farinacci l’esecutore della soppressione dell’Ispettorato e della Rassegna. Lei che mi ha vista al lavoro potrà capire il profondo dolore nello staccarmi dagli 800 fasci da me creati e da tutta quanta questa femminilità che mi seguiva ad ogni azione di bene. Nel posto che occupai non seppi che cosa erano gli orrori: seppi la dura fatica di attivare anime che altri avevano turbate ed allontanate; restaurai, raccolsi, iniziai [illeggibile] per il fascismo: ma per il fascismo santo che sento Io [sottolineatura del testo] e pochi altri, non per quello piazzaiolo che riempie le bocche e lascia arido il cuore. Le mie parole sono amare ma il mio animo è sereno: lavoro in silenzio, scambio una parola d’affetto con quanti mi ricordano e sopporto disciplinatamente l’ingiustizia, dolendomi solo per quanto danneggia il fascismo femminile (Nota 22).

I rapporti di Guicciardi Fiastri col regime non furono sempre lineari: quando nel 1926 vennero premiate le donne che potevano vantare un’anzianità di iscrizione al Partito nazionale fascista (Pnf), Virginia Guicciardi non fu chiamata, e dal 1928 notò una crescente emarginazione nei suoi confronti da parte delle donne fasciste, che la portò a rinunciare progressivamente alle attività da esse promosse: «Pel Fascio di Combattimento Marani faccio quello che posso: partecipo alle adunate ufficiali, offerte, pago puntualmente la tessera, accetto sebbene a malincuore la nomina a presidente del Circolo di Cultura Femminile» (Nota 23).
Nel 1931 scriveva nel suo diario a proposito di un fascismo che vedeva sempre di più deviare dal vero amor di patria: «Piego il capo al Duce, ma forse troppo italiana, non sono sempre gradita i fascisti, meno sinceri e più settari» (Nota 24).
Nel 1934 a Virginia venne offerta la carica di commissaria del circolo di Reggio Emilia dell’Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate. La scrittrice esitò, a causa dell’età ormai avanzata e dei problemi di salute, ma dietro l’insistenza di Laura Marani e della commissaria nazionale Maria Castellani finì per accettare. Le intellettuali reggiane si riunivano due volte al mese nella sala del Circolo del littorio, leggendo le opere dei poeti italiani, organizzando conferenze di argomento storico, visite alle mostre di arte figurativa, e talvolta qualche gita. Virginia rimase alla guida dell’associazione fino al 1940, quando decise di dare le dimissioni a causa dell’età ormai incombente, anche se non rinunciò a scrivere qualche articolo per il «Solco Fascista» e a tenere qualche conferenza, come quelle di argomento dantesco organizzate nel 1942 per l’Istituto di cultura fascista.
Se già la guerra d’Etiopia le aveva suscitato sentimenti contrastanti, le leggi razziali non raccolsero i suoi favori, e la Guicciardi cominciò a dedicarsi più intensamente alle associazioni cattoliche, distaccandosi sempre di più dal regime man mano che quest’ultimo si avvicinava alla seconda guerra mondiale: del resto, una scrittrice e traduttrice di opere letterarie inglesi non poteva accogliere favorevolmente la propaganda anti-britannica. L’entrata dell’Italia nel conflitto venne accolta con profondo dolore da Virginia, che nel suo diario scrisse di «prendere la tessera solo per essere tutti di un parere»: il suo può essere letto come un caso – per quanto precoce – di postfascismo, di un distacco dal regime che avviene sotto i colpi della guerra e delle bombe lanciate dagli alleati. Gli ultimi anni della sua vita furono difficili: le difficoltà e le privazioni indotte dalla guerra, lo sfollamento, la salute malferma, la fine dell’attività letteraria la indussero in uno stato depressivo che non subì miglioramenti al termine del conflitto perché lei e il marito dovettero affrontare la morte di una delle figlie. Morirono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra, nel 1946.
La protagonista della storia del Fascio femminile reggiano sarebbe stata Laura Marani Argnani, nata il 23 giugno 1865 a Faenza in una famiglia di patrioti: il padre, benché non fosse una figura di primo piano del Risorgimento, aveva partecipato a una serie di rivolte tra il 1948 e il 1961, ed era tenuto sotto controllo dalla polizia. Dopo l’Unità era tornato a Faenza dove, dopo aver trovato lavoro come insegnante d’arte, aveva sposato Giuseppina Saleri. Federigo Argnani permise alla figlia di studiare, e Laura conseguì due diplomi da insegnante all’Università di Roma, uno in matematica e uno in fisica e scienze naturali, nel 1888 e nel 1891. Nel 1897 sposò Enrico Marani, ma i due non ebbero figli. Nel 1908 Laura arrivò a Reggio Emilia come preside della Scuola normale Principessa di Napoli, carica che mantenne fino al 1919, anno in cui venne trasferita a Venezia, dove rimase fino al 1924, quando tornò a Reggio.
In quell’anno la Marani aderì al fascismo, attratta specialmente dalla sua vena patriottica e nazionalista: il fascismo era per lei una fede, e dai suoi scritti si evince la totale fedeltà alle direttive del duce, che ai suoi occhi “aveva sempre ragione”. Le sue innegabili doti organizzative la resero una perfetta dirigente degli anni Trenta: dopo essere stata nominata fiduciaria dei Fasci femminili reggiani, nel 1929, riuscì in breve tempo a portarli al primo posto nazionale per quanto riguarda il tesseramento, curando inoltre tutti i settori dell’assistenza che il regime delegava alle donne e rendendoli efficienti, soprattutto nel campo della cura dell’infanzia. Il suo ideale di donna fascista era poco femminile: una donna austera, ligia al dovere, madre esemplare che mette al mondo tanti figli. Era una donna non certo povera, che lavorava intensamente dalla mattina alla sera, silenziosamente, per aiutare le classi indigenti, e che non si occupava in nessun modo di politica (Nota 25).
Quando la Marani ereditò la guida del Fascio femminile reggiano trovò una situazione disastrosa, con solo 25 gruppi e 102 donne fasciste. Purtroppo, sappiamo poco del Fascio femminile reggiano tra il 1921 e il 1928, anni in cui le attività sembrano limitate a un Laboratorio scuola, dove orfane di guerra e mogli di caduti fascisti confezionavano bandiere e gagliardetti, al primo nucleo del Dopolavoro e allo sviluppo dei gruppi delle Piccole e Giovani italiane.
Sotto la guida della Argnani si registrò un balzo in avanti nelle iscrizioni, passate nel 1930 a 854 e poi salite progressivamente fino alle 31.750 del 1936 e alle 60.595 del 1940 (Nota 26); l’incremento fu dovuto soprattutto alla sua tenacia e alle sue doti organizzative, ma anche la scelta delle collaboratrici fu importante: essa ricadde sulle compagne della Grande guerra e del Pro Patria, in particolare Emma Catellani Musi, nominata fiduciaria del Fascio comunale di Reggio Emilia, e Marianna Riva, segretaria.
Qui sta il segreto della continuità tra l’esperienza della prima guerra mondiale e del fascismo: donne provenienti da famiglie che avevano partecipato al Risorgimento, i cui membri maschili appartenevano all’ala moderata della politica reggiana, che aveva aderito al nazionalismo e sentito come un profondo dovere servire la patria nel 1915. Esiste però una differenza di classe nel passaggio al fascismo: se le maestre o le donne della piccola borghesia, quasi sempre a patto di essere imparentate con gerarchi, si iscrissero direttamente al partito, quelle dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, pur nell’affinità ideologica, soprattutto con i Fasci di Roma e Padova, provavano una certa diffidenza verso il Pnf, rifiutando spesso l’iscrizione, tranne nei casi della Menada e della Petrazzani, spinte probabilmente dai mariti. Chi tra le donne del Comitato di assistenza civile prestava servizio nel Patronato delle giovani operaie, penso soprattutto alla Catellani Musi e ad Angelica Sforza Pellizzi, continuò a lavorare al suo interno, senza ovviamente perdere la carica al momento della fascistizzazione del gruppo. Bisogna rimarcare anche una certa differenza generazionale: se le donne che si occuparono della mobilitazione durante la prima guerra mondiale erano nate tra il 1858 e il 1873, con l’eccezione di Maria Balletti, nata nel 1885, le prime socie del Fascio femminile appartenevano alla generazione successiva: Rina Taddei nacque nel 1885, Graziella Curli nel 1898, Maria Osti nel 1900, Maria Zerbo nel 1902, Ines Suter Mazzoni nel 1889 (Nota 27). Su cosa queste “donne nuove”, il cui orizzonte ideologico non differisce da quello della generazione precedente, basandosi sempre sull’amor di patria, si aspettassero dal fascismo possiamo solo fare ipotesi, a causa dell’assoluta mancanza di documentazione. Potrebbe essere esistita una certa voglia di autonomia da parte delle più giovani, che scelsero di fondare autonomamente il Fascio femminile laddove esisteva un gruppo con un’esperienza maggiore e risorse nemmeno paragonabili rispetto a quelle della piccola sezione femminile del Pnf. Ad ogni modo, la fusione tra i due gruppi, nel 1927, non sembra provocare grossi cambiamenti nella gestione del Fascio femminile, in questo periodo guidato da Ines Suter Mazzoni, di cui Laura Marani Argnani lamenterà le scarse capacità organizzative e di gestione finanziaria.
Eventuali contrapposizioni saranno superate proprio al momento della nomina della Marani a Fiduciaria dei Fasci femminili reggiani, in una scelta che costituisce una sintesi tra le due anime del fascismo reggiano: una donna non certo giovane, con una lunga esperienza nel campo dell’assistenza, con una famiglia nazionalista e risorgimentale, che finisce per aderire completamente al fascismo, fino a lottare con le gerarchie maschili locali per lo sviluppo dell’organizzazione femminile.

 

NOTE:


Nota 1
Le base della ricerca è costituita dalla documentazione conservata presso l’Archivio del Comune e l’Archivio di Stato di Reggio Emilia, integrati col «Giornale di Reggio», quotidiano liberale, e con «La Giustizia», organo locale del Partito socialista. Di questo tema mi sono occupata per la mia tesi di Laurea magistrale in Scienze storiche, Dai comitati femminili di assistenza civile alle donne della Repubblica sociale italiana a Reggio Emilia, Università di Bologna, Scuola di Lettere e Beni culturali, a.a. 2014-15, rel. prof.ssa D. Gagliani. Torna al testo

Nota 2 Per quanto riguarda il Fascio Pro Patria, alcuni documenti sono conservati presso l’Archivio di Stato, esistono poi alcuni pamphlet di Virginia Guicciardi Fiastri. Torna al testo

Nota 3 N. Guarrasi, Virginia Guicciardi Fiastri, scrittrice reggiana (1864-1946), Nuova Futurgraf, Reggio Emilia 1996, pp. 11-23. Torna al testo

Nota 4 N. Guarrasi, Virginia Guicciardi Fiastri, cit. pp. 53-60. Torna al testo

Nota 5 Archivio della Biblioteca Panizzi (ABP), V. Guicciardi Fiastri, Note della mia vita. Torna al testo

Nota 6 Il Comitato Provinciale per l’organizzazione dei servizi civili (Cac) nacque nell’aprile del 1915 dalla volontà di rappresentanti degli enti pubblici e dei principali istituti della città. Si trattava di uomini di fede moderata, eredi delle famiglie risorgimentali i quali, dopo aver tentato l’esperimento della “Grande armata” – così era stata ribattezzata dai socialisti la coalizione moderata che aveva governato la città tra il 1904 e il 1907, con il compito di opporsi al socialismo imperante – desideravano mettersi al servizio della patria per garantire la continuità dei servizi e del lavoro in caso di mobilitazione dell’esercito, colmando i vuoti che si sarebbero creati sia nella pubblica amministrazione sia nel settore privato. Allo scoppio della guerra, i socialisti aderirono al Cac, cosa che permise di precisarne i quadri direttivi: la presidenza veniva affidata ad Alessandro Mazzoli, il vice-presidente era Luigi Roversi, sindaco di Reggio. Nella commissione esecutiva, se si esclude Arturo Bellelli, presidente della locale Camera del lavoro, troviamo tutti i nomi dei liberali reggiani. Il Cac era diviso in sezioni: Propaganda e raccolta fondi, Distribuzione dei fondi, Sezione di economia generale, Assistenza ai feriti, Assistenza all’infanzia, Sezione profughi e rimpatriati. Torna al testo

Nota 7 Per quanto riguarda il Comitato femminile di assistenza civile si veda il saggio di E. Paterlini Brianti, La mobilitazione femminile. Le donne reggiane e le associazioni di volontariato durante la Grande Guerra, in A. Ferraboschi e M. Carrettieri (a cura di), Piccola Patria, Grande guerra. La prima guerra mondiale a Reggio Emilia, CLUEB, Reggio Emilia 2008. Torna al testo

Nota 8 Intervista a Leopoldo Barbieri Manodori. Torna al testo

Nota 9 www.menada.it Torna al testo

Nota 10 Sull’argomento si veda: V. De Grazia, Le donne del regime fascista, Marsilio, Venezia 1993; H. Dittrich Johannsen, Le militi dell’idea. Storia delle organizzazioni femminili del Partito Nazionale Fascista, Leo Olschki, Torino 2002; P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, Laterza, Bari 2011; G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne. Il Novecento, Laterza, Bari 1996. Torna al testo

Nota 11 Archivio di Stato di Reggio Emilia (ASRE), Comitato di Assistenza Civile – Fascio Pro Patria, b. IV, Corrispondenza 1919, Corrispondenza Pro Italia 1918-1920. Torna al testo

Nota 12 «Egregia Signorina Ponzio Vaglia, […] pel fascio patriottico reggiano mi sono trovata nel bivio o di non farne più nulla o di proclamare un programma diverso da quello emanato dal Consiglio Nazionale delle Donne Italiane e ciò per la parte che si riflette allo scopo permanente e generale di affrontare i problemi sociali. Forse qualcuno ha lavorato segretamente, tant’è che si è finito per ritenere da molte che il vero fine del Consiglio Nazionale fosse il femminismo e così il dissenso, nonostante le mie proteste, è dilagato. […] così ho ritenuto mio dovere per l’opera di propaganda costituire la Pro Italia indipendente nel reggimento, […]. Io personalmente appartengo al Consiglio Nazionale e mando la mia quota annua, ma dopo questo fatto non posso più, mi pare, appartenere al Consiglio Nazionale come presidente del Comitato di Assistenza Civile che si è scostato dalla linea generale». Allo scopo si veda: ASRE, Comitato di Assistenza Civile – Fascio Pro Patria, b. IV, Corrispondenza 1919, Corrispondenza Pro Italia 1918-1920 – brutta copia della lettera di Virginia Guicciardi Fiastri alla Signorina Ponzio Vaglia. Torna al testo

Nota 13 ABP, carteggio del fondo Virginia Guicciardi Fiastri, lettera di Amalia Besso alla Guicciardi Fiastri, 27 novembre 1918. Torna al testo

Nota 14 ASRE, Comitato di Assistenza Civile – Fascio Pro Patria, b. IV, Corrispondenza 1919, Corrispondenza Pro Italia 1918-1920 – lettera di Amalia Besso a Virginia Guicciardi Fiastri. Torna al testo

Nota 15 ASRE, Comitato di Assistenza Civile – Fascio Pro Patria, b. IV, Corrispondenza 1919, Corrispondenza Pro Italia 1918-1920. Torna al testo

Nota 16 ASRE, Comitato di Assistenza Civile – Fascio Pro Patria, b. IV, Corrispondenza 1919, Corrispondenza Pro Italia 1918-1920, lettera di Teresina Pasini alla Guicciardi Fiastri, 28 giugno 1920. Torna al testo

Nota 17 V. Guicciardi Fiastri, Relazione sull’opera del Fascio Nazionale Pro Italia dal giugno 1919 al giugno 1921, detta all’Assemblea delle consocie dalla Presidente Virginia Guicciardi Fiastri, Tipografia Bojardi, Reggio Emilia 1921, pp. 3-9. Torna al testo

Nota 18 Sull’argomento si veda R. Cavandoli, Le origini del fascismo a Reggio Emilia, Editori Riuniti, Reggio Emilia 1972. Torna al testo

Nota 19 V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit. pp. 17-18. Torna al testo

Nota 20 Si veda a proposito H. Dittrich Johannsen, Le militi dell’idea, cit. Torna al testo

Nota 21 ABP, fondo Virginia Guicciardi Fiastri, lettera della Mayer Rizzioli alla Guicciardi Fiastri, 26 aprile 1926. Torna al testo

Nota 22 ABP, fondo Virginia Guicciardi Fiastri, lettera della Mayer Rizzioli alla Guicciardi Fiastri, 19 dicembre 1929. Torna al testo

Nota 23 ABP, V. Guicciardi Fiastri, Note della mia vitaTorna al testo

Nota 24 Ibidem. Torna al testo

Nota 25 Per quanto riguarda Laura Marani Argnani e la sua attività nel Fascio femminile reggiano si veda il saggio di P. Willson, The fairytale witch: Laura Marani Argnani and the Fasci Femminili of Reggio Emilia, in «Contemporary European History», vol. 15, 1 (2006). Torna al testo

Nota 26 C. Curti, Dai comitati femminili di assistenza civile alle donne della Repubblica sociale, cit., p. 202. Torna al testo

Nota 27 Nell’Archivio dell’anagrafe mancano le schede di Dirce Rossi e Carmelia Giaroli. Torna al testo

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