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Loredana Magazzeni

Lavoro e denaro nella corrispondenza privata di donne insegnanti di fine Ottocento

C'è una scena del film Notting Hill, in cui assistiamo, durante una cena di compleanno, a uno scambio di battute fra due invitati (lei attrice di successo, lui operatore finanziario), sulle difficoltà dei reciproci lavori: Julia Roberts lascia senza parole l’interlocutore perché gli rivela che guadagna 12 milioni di sterline l’anno. Non siamo abituati a sentir dire da una donna quanto guadagna, e soprattutto che questa sia una cifra considerevole. Ma, già alla fine del Settecento, Jane Austen collocava i personaggi dei suoi romanzi «lungo una scala finanziaria di precisione geometrica», dove una sostanziosa rendita o un buono o cattivo matrimonio potevano cambiare totalmente la vita di una donna della classe media, a cui non era ancora permesso «to make a living» (guadagnarsi la vita) come un uomo (Nota 1). Un secolo dopo Carolina Invernizio, nella sua conferenza Le operaie italiane (Nota 2), dopo aver accennato a quella che definisce «la storia del lavoro delle donne [che] è antica quanto il mondo» (Nota 3), si sofferma a considerare come le statistiche ufficiali e la stessa Esposizione femminile Beatrice diano un «luminoso e splendido esempio» del lavoro delle donne italiane (Nota 4), così spesso osteggiato, e come la condizione della donna che lavora sia «intimamente collegata alla condizioni delle famiglie ed a quelle sociali ed economiche della Nazione» (Nota 5).
La corrispondenza e gli scritti di alcune insegnanti italiane attive tra Ottocento e Novecento si rivelano un terreno fecondo per affrontare questo tema. L’istruzione appare, infatti, sin dalla costituzione dello Stato unitario il prerequisito necessario per le donne italiane per ogni avanzamento sociale e acquisizione di diritti, anche se il Codice napoleonico, entrato in vigore fra il 1806 e il 1809 sancisce, con l’autorizzazione maritale e la patria potestà, la naturale “inferiorità” e “domesticità” della donna, permettendole unicamente il passaggio dal “Casato” alla casa (Nota 6) e il Codice civile del regno d'Italia (Codice Pisanelli, del 1865) all’art. 134 ribadisce l’impossibilità per le donne sposate ad agire in termini economici, accendendo mutui o cedendo o riscuotendo capitali (Nota 7).
Con la legge Casati del 1859, che istituisce nel Regno d’Italia la scuola statale, si apre per uomini e donne la possibilità nuova di accedere a un lavoro stipendiato e qualificato come quello di insegnante, di cui sale improvvisamente la richiesta. L’inaspettato vantaggio offerto dall’istruzione alle donne, nonostante l’offerta formativa ridotta e le norme sociali che le vogliono relegate al lavoro domestico e di cura, è la novità vera, introdotta dalla sottolineatura sociale del carattere “neutro” dell’insegnamento, che lo rende adatto a uomini e donne. Da madre a maestra, a docente, a ispettrice ministeriale ad autrice di testi scolastici, la donna che esce dalla Scuola Normale, o dalle Facoltà di Magistero, soprattutto di Roma e Firenze, è la prima a superare la dialettica interno-esterno conquistando lo spazio pubblico e assumendo il profilo complesso di intellettuale.
Dagli archivi scolastici o dalla corrispondenza personale degli stessi insegnanti emergono spesso dati relativi agli stipendi. La Scuola normale maschile provinciale di Bologna, ad esempio, riporta per l’anno 1868 questo Specchio d’impiegati che tengono più d'un ufficio o hanno maggiori provvisioni (Nota 8), fatto stilare dal direttore Adelfo Grosso, da cui si ricavano singolari differenze di retribuzione fra gli insegnanti a seconda della materia e delle ore prestate (Nota 9).

Nome

Età

Qualifica

Materia

Stpendio

Luigi Savorini

Anni 43

Vicedirettore del collegio e insegnante

Lingua it., Storia e geografia

Lire 2.900

Don Raffaele Cantelli

Anni 33

insegnante

Catechismo e Storia sacra

Lire 500

Enrico Saint-Cyr

Anni 55

insegnante

Lingua francese

Lire 400

Federico Parisini

Anni 40

insegnante incaricato

Canto corale

Lire 300

Luigi Biondi

Anni 64

insegnante

Disegno ornamentale e architettonico

Lire 500

Raffaele Garagnani

incaricato

Esercizi militari

Lire 150

Emilio Baumann

Anni 25

insegnante incaricato

Ginnastica educativa

Lire 450

Raffaele Zappoli

Anni 45

insegnante

Calligrafia

Lire 50

Antonio Bertoloni

Anni 25

insegnante

Agricoltura teorico-pratica

Lire 600 assegnate dalla Società Agraria di cui è incaricato

Procolo Benettini

Anni 50

insegnante titolare

Matematiche elementari e nozioni di Scienze naturali

Lire 1.500

Girolamo Bonaghi

Anni 59

Bidello

Lire 840 con cui paga anche un inserviente, Angelo Conti, 21 anni

Dalselleri Sante

Anni 60

Portiere: in compenso del suo servizio ha l'alloggio gratuito per sé e per la sua famiglia.

Stessa precarietà e disparità tra insegnanti titolari, incaricati e maestre assistenti troviamo nelle Scuole normali femminili, come la Scuola normale femminile Laura Bassi di Bologna: i primi percepiscono dalle 1.500 lire alle 2.200 lire annue; gli incaricati dalle 300 alle 800 lire; la maestra assistente dalle 800 alle 1.000 lire (Nota 10).
Certo, come afferma Louise May Alcott in Piccole donne, non sta bene che una donna parli di denaro, e le donne hanno sempre evitato di farlo, ma la crescente presenza femminile nelle professioni educative dell’Ottocento le rende attente per la prima volta anche all’aspetto venale ed economico del loro lavoro.
Mentre nelle conferenze e nei discorsi di fine anno si allude al valore dell’insegnamento come vocazione, missione e sacerdozio, le insegnanti italiane di scuole elementari e normali si trovano a fare i conti con stipendi insufficienti, nettamente inferiori a quelli maschili, e con le difficoltà dovute a improvvisi trasferimenti punitivi, o a cambi di cattedra imprevisti cui devono fare buon viso. È il caso di Emma Tettoni, novarese, allieva di Giosuè Carducci, che nel 1881 scrive al suo maestro di essere stata assunta come insegnante di Materie letterarie presso l’Istituto femminile Uccellis di Udine con uno stipendio di lire 800 annue: «io insegnerei nel corso normale Letteratura italiana, Storia e geografia, Pedagogia e morale; in tutto 16 ore di lezione per settimana, di più mi sarebbe affidata la Biblioteca dell’Istituto; ed avrei vitto, alloggio ed 800 lire annue» (Nota 11).
In alcune lettere lamenta la fatica e l’estrema ripetitività del lavoro, che le impedisce di studiare e aggiornarsi come vorrebbe (cfr. le lettere al Carducci del 20 agosto 1881 e 13 marzo 1883). Nel 1883, dopo essersi dimessa dal Collegio Uccellis, è presso la Scuola superiore femminile provinciale di Rovigo, dove viene nominata direttrice, rimanendovi fino al 1889 quando, con il passaggio della Scuola da provinciale a governativa, le subentra un nuovo direttore, Giovanni Franciosi. Come molte giovani donne del suo tempo, Emma ha dovuto fare precocemente i conti con gravi lutti familiari, come la morte della madre e della sorella, con problemi economici, come la necessità di mantenere agli studi il fratello minore presso l'Accademia militare di Modena. Di queste difficoltà scrive a Carducci nella lettera del 19 settembre 1889:

Capirà che io mi troverei in una posizione umiliante di fronte alle allieve ed ai colleghi, essendo semplice insegnante dove sono stata Direttrice per sei anni; aggiungo poi, sebbene le private circostanze di famiglia non abbiano forse il diritto di pesar molto sulla bilancia, aggiungo che io ho fin qui provveduto alle spese per l’educazione di un mio fratello che ora è a Modena alla Scuola Militare; e tutto quanto ho fatto finora per lui diventerebbe inutile se io dovessi troncare la sua carriera per questa considerevole diminuzione del mio stipendio (fin ora, come Direttrice e insegnante Pedagogia, avevo lire 2.500: ora come semplice insegnante me ne furono assegnate 1.800); che sarebbe ora di quel povero ragazzo? (Nota 12)

Le insegnanti si definiscono “operaje della penna”, il termine operaia indicando colei che trae sostentamento dal frutto del suo lavoro, che sia manuale o intellettuale. Umile operaia della penna (Nota 13) si firma Onorata Grossi Mercanti, anche lei della grande “Classe dei Paria” degli insegnanti, come scrive la milanese Felicita Pozzoli.
Il lavoro diviene il tema centrale dei libri di lettura rivolti a ragazzi e ragazze, delle conferenze educative, di racconti e antologie scolastiche di fine Ottocento (Nota 14). La donna è incoraggiata ad istruirsi proprio per poter meglio accedere a un lavoro, e la pigrizia e la noia vengono ripetutamente stigmatizzate come nemiche della crescita intellettuale e personale di ciascuna.
Il coinvolgimento femminile nel progetto lavorista del secondo Ottocento si scontra con le posizioni più conservatrici del mondo cattolico, lungamente contrario al lavoro femminile (Nota 15).
Dalle lettere e dalle conferenze educative di insegnanti/scrittrici, che parlano esplicitamente di compensi e di lavoro, come fanno Onorata Grossi Mercanti, Felicita Pozzoli, Emma Tettoni, Emma Boghen Conigliani si esprime per la prima volta una maggiore consapevolezza di sé delle donne, in termini di autonomia e bisogni economici.
In Northanger Abbey, scritto da Jane Austen fra il 1797 e il 1798, Catherine Morland, eroina diciassettenne e alter ego dell'autrice, è un’appassionata lettrice di romanzi popolari, di cui denuncia la condanna da parte di critici e denigratori, «tanto numerosi quasi quanto i nostri lettori». Morland lamenta anche il fatto che proprio i romanzi popolari scritti da donne, come Ann Radclif o la Austen stessa, siano nel mirino dei moralisti, che non lesinano elogi e adeguati compensi ai compilatori di manuali scolastici di storia o antologie. I romanzi a firma femminile, infatti, sono quelli

in cui si dispiegano le più alte doti dell’intelletto, e nel linguaggio più squisito viene esposta al mondo la più profonda conoscenza della natura umana, la descrizione più felice della sua varietà, le più vivaci manifestazioni di spirito e di umorismo […], mentre migliaia di penne elogiano il talento del novecentesimo autore di un compendio di storia dell’Inghilterra, o di chi mette insieme e pubblica in un volume una dozzina di versi di Milton, di Pope, di Prior, un articolo dello Spectator e un capitolo di Sterne (Nota 16).

Quasi un secolo dopo, nel 1893, sulle pagine di «Cordelia», nella rubrica Profili femminili che dedica in quel numero a Onorata Grossi Mercanti (Nota 17), Ida Baccini lamenta, all’inverso, proprio la scarsa valorizzazione e la mancanza di una congrua retribuzione per chi, come la maestra livornese, ha lavorato una vita intera a scrivere volumi e compendi di Lettere e di Storia patria per vari ordini di scuole, e accenna a uno dei testi più fortunati, Dice il proverbio (Nota 18):

Dice il proverbio…ah, io vorrei, Onorata, che il proverbio dicesse: Donna virtuosa e colta, donna fortunata! E tu, cara, non sei davvero tra i beniamini della fortuna, perché affaticata nella lotta dell’esistenza e perché i tuoi scritti e la lunga fruttuosa tua opera educativa non t’hanno dato ancora la modesta agiatezza a cui avevi diritto…

Nel fascicolo intitolato a Onorata Grossi Mercanti presso l'Archivio Storico Giunti di Firenze sono custodite le copie dei contratti sottoscritti con l'editore Bemporad: con Roberto Bemporad viene stilato il 1° gennaio 1890 un contratto di lire 500 per il manuale Come si è fatta l'Italia, 200 lire vengono fissate per le ristampe. Il 3 giugno 1897 Onorata cede i diritti del suo Brevi racconti di Storia ebraica, greca e romana ad uso delle classi prima e seconda elementare per lire 500, l'editore si obbliga a pagarle lire 200 per ogni nuova edizione riveduta.  Il 20 aprile 1910, in un nuovo contratto per il libro Giovane Italia, ne cede per anni 20 i diritti, riservandosi una percentuale del 10% sulle vendite delle singole copie, mentre per i testi per la VI maschile, compilati con Ferruccio Orsi, la percentuale sulle singole vendite è del 5% (Nota 19).

 

Sono tempi difficili per le antologiste. Ida Baccini su «Cordelia» prosegue nella sua disamina a favore della Grossi Mercanti, riportando le parole dell’antologista toscana (Nota 20):

Siamo condannate a lottare, a soffrire. Ogni tanto ci chiamano apostoli, creature elette che spargono il lume della scienza tra gl’ignoranti, che educano il popolo, che commuovono, che destano palpiti generosi, nobili aspirazioni; ci lodano, ci cercano, ci sfruttano; e poi, non si curano di noi, non ci dicono: Tenete, prendete questo po’ di carta straccia e riposatevi e fate tutto quello che vi pare e create tutto quello che di più nobile e di più bello la vostra mente sa creare…No! Noi dobbiamo lavorare come l’asino de’ contadini, sempre, senza riposo, e ci dobbiamo evangelicamente contentare di due fili di paglia e d’un pugno d’avena. Oh meglio sarebbe stato infilzare quattro rime e due sonetti, e mandare in solluchero i retori classici, piuttosto che consumare il fosforo del nostro cervello per educare al bene, per fare amare la virtù!

Siamo condannate a lottare, a soffrire. Ogni tanto ci chiamano apostoli, creature elette che spargono il lume della scienza tra gl’ignoranti, che educano il popolo, che commuovono, che destano palpiti generosi, nobili aspirazioni; ci lodano, ci cercano, ci sfruttano; e poi, non si curano di noi, non ci dicono: Tenete, prendete questo po’ di carta straccia e riposatevi e fate tutto quello che vi pare e create tutto quello che di più nobile e di più bello la vostra mente sa creare…No! Noi dobbiamo lavorare come l’asino de’ contadini, sempre, senza riposo, e ci dobbiamo evangelicamente contentare di due fili di paglia e d’un pugno d’avena. Oh meglio sarebbe stato infilzare quattro rime e due sonetti, e mandare in solluchero i retori classici, piuttosto che consumare il fosforo del nostro cervello per educare al bene, per fare amare la virtù! (Nota 21).
Ma la Baccini riprende (Nota 22):

or sono pochi giorni fu assegnata una pensione a una fanciulla di vent’anni, sol perché aveva scritto in versi molte cose che tante penne illustri come la tua avevano da anni e anni scritto in prosa, e in che prosa! Quando penso che un premio, destinato a render meno difficili i giorni all’inclita donna che con opere preclare avesse cresciuto decoro alla patria, venne conferito a una giovanetta, i cui bei versi, non sempre commendevoli per la forma, sono – in gran parte – riprovevoli pel concetto, non so tenermi dal trascrivere certe parole che mi furono indirizzate mesi sono da una grande educatrice come sei tu.

Quella di Onorata Grossi fu una famiglia di insegnanti, autori di libri di testo. Il marito, Ferruccio Mercanti, laureato a Bologna in Medicina e Scienze Naturali, scrisse per gli editori Hoepli e Bemporad testi di fisica, igiene e storia naturale per le scuole superiori. La figlia Elisa Mercanti Agostini fu latinista e autrice, assieme a Giulio Giannelli (Nota 23), di antologie di letteratura latina per le scuole superiori, ristampate fin negli anni Sessanta del Novecento. E certamente raggiunge, a differenza della madre, di cui pure continua a percepire somme sui diritti di vendita almeno fino al 1927 una certa agiatezza economica, se nel 1932 il suo nome appare fra quelli delle socie dell’esclusiva associazione femminile internazionale Lyceum di Firenze.


Anche Tommasina Guidi, prolifica e popolare scrittrice di novelle e romanzi (Nota 24) in una lettera a Carducci del 18 gennaio 1893, polemizza sull’assegnazione della pensione Milli ad Ada Negri perché teme che questa «farà tacere Ada Negri, non la farà più libera di scrivere» (Nota 25). Per carattere, oltre che per la sua importante posizione di ispettore ministeriale e poi senatore, Carducci non rimane insensibile alle richieste di aiuto che gli rivolgono insegnanti, scrittori e scrittrici di fine Ottocento. Fra la sua corrispondenza troviamo lettere di protesta e richieste di intervento a favore di un miglioramento del trattamento economico riservato agli insegnanti, specie quelli di storia e geografia nelle Scuole Normali, come la lettera di Felicita Pozzoli (Nota 26), che il 4 aprile 1894 denuncia la situazione dell’insegnante aggiunto di Storia e geografia:

conceda Le delinei brevemente la condizione dell’insegnante di Storia e Geografia nelle Scuole Normali. L’articolo 369 della Legge Casati stabilisce 3 titolari ed un aggiunto per ogni scuola, senza precisare le materie; era logico che per affinità e inscindibilità fra Italiano, la Storia e Geografia, il terzo titolare dovesse essere quello di Storia, non già quello di Scienze [...] La condizione dell’aggiunto è curiosa: massimo dello stipendio, ₤ 1.500, ridotto dalle imposte a 1.300, non aumento sessennale, una vera strada cieca. L’orario stabilito dal Casati pei 3 corsi normali, era di 9 ore; il Boselli vi aggiunse di proprio il 3^ corso preparatorio, con 4 ore d’insegnamento, imposto, senza compenso di sorta, agli insegnanti Normali; così da 9 le ore divennero 13; poi un’ora in più per l’assistenza alle lezioni pratiche; ampiezza di programma; esigenze degli studi progrediti, progredienti; importanza vera, assoluta, dell’una e dell’altra materia, la geografia in ispecie; le pretese poco men che universitarie degli Ispettori, i quali lasciano sempre il tempo che trovano; necessaria preparazione giornaliera, cose tutte che provano luminosamente il valore delle discipline stesse; il regolamento Boselli apriva uno spiraglio all’avvenire dell’insegnante di Storia e Geografia, trattato come quello di Disegno e Calligrafia, ma rimase lettera morta. [...] Non è questione di fondi: si trovano per promuovere, da ₤ 5.000 a ₤ 5.500 ecc, per provvedimenti, stipendi per un Mandalari, Giampaoli; per Commissioni di Studi, che viceversa non studiano niente, dacché non approdano a nulla; dalle tasse che s’imporranno alle Elementari e Normali, le sole scuole ancora esenti e frequentatissime, non si potrebbe devolvere una parte a beneficio dei poveri insegnanti di Storia e geografia? (Nota 27)

Come sottolinea per l'insegnamento secondario in generale, e in specifico per quello di Storia e geografia Anna Ascenzi, proprio la modestia degli stipendi e delle carriere rendono poco appetibili le carriere scolastiche, ritenute «una soluzione di ripiego rispetto alle ben più remunerate e socialmente apprezzate professioni liberali» (Nota 28).
Agli inizi del Novecento, la situazione per i docenti di scuola secondaria appare molto migliorata se nel 1906 lo stipendio annuo di Emma Boghen Conigliani, attivissima docente fiorentina, da reggente di Lingua e lettere italiane nelle Regie scuole normali a ordinaria di secondo livello passa da lire 2.200 a lire 2.900 (Nota 29).
Il crescente impegno professionale e letterario, e di conseguenza la possibilità di migliori guadagni, apre le porte dell’editoria scolastica alle insegnanti più attive e propositive, come Boghen Conigliani (Nota 30). Oltre ai documenti personali e a minuziose raccolte delle recensioni ricevute ai suoi volumi di racconti e di critica letteraria, l’autrice conserva la corrispondenza commerciale con gli editori Barbera e Bemporad. Nei primi anni del Novecento Emma Boghen preparò per Bemporad una Storia della letteratura italiana e una Antologia italiana per le scuole superiori che incontrarono un notevole successo di vendite, venendo adottate per più di vent'anni. Nel 1906 Bemporad stila un primo rendiconto delle copie vendute e delle somme percepite, relativamente al volume, a firma Boghen Conigliani, Storia della letteratura italiana:

1 volume cop. 1.300 lire 3.250
2 volume cop. 1.000 lire 2.900
3 volume cop. 1.000 lire 2.790
per un ricavo totale di 8.900 lire, di cui il 10%, cioè lire 890, vanno all’autrice, assieme all’anticipo di lire 1.000 già corrisposto (Nota 31).

Il libro viene adottato nelle scuole per diversi anni, tanto che nel 1913 troviamo un nuovo contratto, datato 18 dicembre 1913: la casa editrice si impegna a stampare per l'Antologia italiana in tre volumi, ad uso delle Scuole normali, il 1° volume entro il 1914, il 2° e 3° volume entro il 1915, con una prima edizione di 4.000 copie, di cui 500 da spedire in saggio agli insegnanti, e per un compenso all’autrice di lire 2.000, divise in tre rate, alla consegna di ciascun originale. Inoltre, l’editore stabilisce di corrispondere la percentuale del 7% su tutte le copie che venderà, da liquidare ogni anno nel mese di febbraio. L’autrice, a sua volta, si impegna a correggere e «rifondere» l'opera Storia della letteratura italiana, già edita, e per essa le verrà corrisposto un compenso al 10%, di cui l’editore anticiperà lire 1.000 in tre rate (Nota 32).
La lunga durata e la fortuna di questo testo scolastico sono attestate dalla presenza di un nuovo contratto, datato 3 gennaio 1920, in cui Bemporad si impegna a versare all’autrice 2.340 lire per ogni edizione di 3.000 copie di ciascun volume della Storia della letteratura italiana per le Scuole normali, di cui 1.200 alla firma del contratto, 1.940 all’atto della consegna, 2.340 per ogni ristampa. Sulle copie vendute oltre le 3.000, le sarà corrisposta la somma di lire 780. Altri contratti vengono sottoscritti nel 1924 e nel 1926.
Che Emma Boghen sia anche una propositiva consulente editoriale si evidenzia dai progetti che sottopone all’editore. A proposito di un progetto di Epica per le scuole, intitolato Disegno per un testo di Lettere ad uso delle Scuole Normali, scrive:

il libro corrisponde in tutto ai programmi dell’Istituto Magistrale Superiore, in parte ai programmi dell'Ist. Tecnico Inferiore. Offre riunita una materia che altrimenti si dovrebbe ricercare in molti libri separati. Dà aiuto all’insegnante e a gli scolari per i quadri storici in cui il Ministero raccomanda di inquadrare ogni autore e ogni opera (Nota 33).

Un’altra proposta è quella per un libro di testo su Socrate, così suddiviso: I Quadro storico, II Platone: Apologia di Socrate, III Dialoghi platonici e qualche pagina dai Detti Memorabili di Socrate di Senofonte, IV Socrate nella critica e nell’arte. Anche a questa proposta aggiunge motivazioni precise:

Tra le letture indicate nel punto a del programma governativo in quasi tutti gli istituti Magistrali Superiori furono scelte L’apologia di Socrate e il Critone perché offrono modo di far conoscere l’antica Grecia in due delle sue personalità più grandi, Socrate e Platone, e perché giovano all’indirizzo speciale magistrale. Se il libro potesse essere pronto per il marzo potrebbe in molte scuole essere accolto quest’anno stesso.

Ma la vera novità, per questa autrice così prolifica nell’editoria scolastica primo novecentesca, è l’operazione di coordinamento editoriale che compie rispetto alla stesura della sua più volte ristampata Antologia italiana. L'antologia risulta composta, oltre ai volumi dell’autrice, da 49 volumetti in sedicesimo e in brossura, curati da 19 insegnanti di Lettere di Scuole normali (tutte donne, tranne un solo autore, Rosolino Guastalla, già collaboratore della casa editrice Bemporad) dedicati ad autori e correnti della letteratura italiana dalle origini all’Ottocento.
Gli autori appaiono in “subappalto”, cioè vengono pagati dall’editore, tramite la curatrice, per il numero delle pagine prodotte, mentre alla sola Boghen è destinata una percentuale annuale sulle vendite. Boghen conserva la cessione dei diritti d’autore per ogni volume della collezione Antologia della letteratura italiana, rilasciata dalla prefettura di Firenze, e tutte le ricevute delle somme percepite dai singoli autori (Nota 34). Per la supervisione al progetto e la revisione di alcuni volumetti ha già percepito 200 lire, e l’editore rimanda i conteggi restanti all’anno venturo (Nota 35).

 


La figura di Emma Boghen Conigliani dimostra quanto sia coinvolto il contesto ebraico italiano in questa storia di emancipazione femminile attraverso le professioni intellettuali e dell’insegnamento. Fra le prime, le donne provenienti da famiglie ebraiche, dove l’analfabetismo è quasi inesistente (5,8% a fronte del 64,5% degli italiani) diventano docenti e autrici di libri scolastici, proprio perché, come ha notato Monica Miniati, vi è una profonda continuità fra la tradizione ebraica e «la scelta di operare all’interno di quelle associazioni e organizzazioni che si proponevano di educare la donna all’autonomia e di dotarla degli strumenti necessari per elevarsi moralmente, materialmente e intellettualmente» (Nota 36), agendo secondo la zedaqà, il principio di giustizia sociale, che le porta ad aprire giardini d’infanzia, scuole e associazioni emancipazioniste, spesso a fianco delle donne gentili. Un esempio ne è Isa Boghen Cavalieri, sorella di Emma Boghen Conigliani, che presiede il Comitato di propaganda pel miglioramento delle condizioni della donna, formatosi nel 1890 a Bologna e promuove attivamente l’istituzione, assumendone poi la direzione, della Scuola provinciale femminile di arte e mestieri, aperta a Bologna nel 1895 (Nota 37).
Anche Ada Borsi, una delle collaboratrici di Emma Boghen Conigliani (il volumetto Cronache e volgarizzamenti del sec. XIV, VI volume della Antologia della letteratura italiana curata da Boghen Conigliani, esce nel 1906 al prezzo di Cent. 50) è insegnante della Scuola normale Laura Bassi. Borsi partecipa, con una sua poesia, all’uscita del numero unico Cor Unum, A beneficio dell’Asilo Nazionale Gratuito per le figlie povere dei Condannati, autorizzato dal pretore di Bologna e uscito il 17 gennaio 1909 (Nota 38).
Tra i collaboratori troviamo importanti nomi del mondo letterario coevo, riuniti per uno scopo benefico: Silvia Albertoni Tagliavini, Grazia Pierantoni Mancini, Annetta Ceccoli Boneschi, Ida Baccini, Sofia Bisi Albini, Emma Boghen Conigliani, Ada Borsi, Giulia Cavallari Cantalamessa, Alessandro D'Ancona, D'Arcais, Giovanni Federzoni, Lino Ferriani, Antonio Fogazzaro, Ida e Teresa Folli, Maria Majocchi Plattis (Jolanda), Giovanni Marradi, Guido Mazzoni, Giovanni Pascoli, Cesira Pozzolini Siciliani, Rajna, Torraca, Vacaresco. Tra gli inediti, testi di Carducci, Augusto Conti, Giannina Milli e Caterina Franceschi Ferrucci.
I compilatori, nella seconda pagina, ringraziano «tutti i gentili che concorsero con noi a formare questo numero Unico». Le insegnanti ebree entrano nel mercato editoriale come autrici, coordinatrici di collane e a volte editrici in proprio e attiviste.
Molta strada è fatta, molta resta ancora da fare. Come per le cattoliche, per le donne ebree quella della cittadinanza è una doppia conquista, giuridica e culturale, ma istruzione e imprenditorialità femminile cominciano ad essere una realtà tangibile, che in modo rilevante, anche dall’ambito ebraico, muove le lente vicende italiane.

 

NOTE:

Nota 1 E. Moers, Denaro, lavoro e piccole donne: il realismo femminile, in Ead., Grandi scrittrici, grandi letterate, Edizioni di Comunità, Milano 1979, pp. 111-354. Le citazioni riportate sono a p. 113 e p. 119. Torna al testo

Nota 2 C. Invernizio, Le operaie italiane, in La donna italiana descritta da scrittrici italiane in una serie di conferenze tenute all'Esposizione Beatrice in Firenze, Civelli, Firenze 1890, pp. 187-201. Torna al testo

Nota 3 Ivi, p. 188. Torna al testo

Nota 4 Ivi, p. 201. Sull’Esposizione Beatrice, fortemente voluta da intellettuali donne, prime fra tutti Felicita Pozzoli e Carlotta Ferrari, rimando al mio saggio Microstorie magistrali: Emma Tettoni fra carduccianesimo e reti emancipative in «Ricerche di Pedagogia e Didattica, Journal of Theories and Research in Education», vol. 10, n. 3 (2015). Torna al testo

Nota 5 Ivi, p. 196. Torna al testo

Nota 6 S. Soldani, Prima della repubblica. Le italiane e l'avventura della cittadinanza, in N. M. Filippini, A. Scattigno, Una democrazia incompiuta. Donne e politica in Italia dall’Ottocento ai nostri giorni, FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 41-90, le citazioni sono a p. 48. Torna al testo

Nota 7 Ivi, pp. 320-323. Torna al testo

Nota 8 Una legge del 19 luglio 1862 vietava il cumulo degli impieghi retribuiti, delle pensioni ed altri assegnamenti a carico dello Stato, o di pubbliche amministrazioni. Torna al testo

Nota 9 Archivio Storico della Provincia di Bologna, Serie archivistica Scuola normale maschile provinciale, b. 3 “Personale insegnante”, fascicolo 1867/1868. Torna al testo

Nota 10 Maestre (e maestri) d’Italia: i 150 anni del Liceo Laura Bassi: quaderno della mostra, Bologna, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, 10 maggio-10 giugno 2011, a cura di M. G. Bertani e P. Franceschini, BraDypUS, Bologna 2011, p. 27. Torna al testo

Nota 11 Casa Carducci, Bologna, Archivio dei Corrispondenti, Lettera di Emma Tettoni a Carducci, 20 agosto 1881. Epistolari, Cart. CIX, fasc. 68 (n. 31.095). Torna al testo

Nota 12 Casa Carducci, Bologna, Archivio dei Corrispondenti, Lettera di Emma Tettoni a Carducci. Epistolari, Cart. CIX, fasc. 68 (n. 31.109). Torna al testo

Nota 13 C. I. Salviati, Paggi e Bemporad, editori per la scuola, Franco Angeli, Milano 2007, p. 157. Torna al testo

Nota 14 A. Chemello, «Libri di lettura» per le donne. L’etica del lavoro nella letteratura di fine Ottocento, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1995, pp. 40-72 sulla letteratura selfelpistica italiana, e in particolare «Libri di lettura» per le «Buone Fanciulle» e le «Giovani Operaie», pp. 73-110. Torna al testo

Nota 15 A. Chemello, «Libri di lettura» per le donne, cit. p. 75 e seguenti. Torna al testo

Nota 16 J. Austen, L’abbazia di Northanger, trad. Silvia Forini, Rusconi Libri, Rimini 2008, pp. 21-22. Torna al testo

Nota 17 Onorata Grossi Mercanti (Livorno 1853-1922) fu maestra elementare, ma soprattutto scrittrice di importanti antologie, quali Come si è fatta l’Italia. Storia del risorgimento italiano narrata ai fanciulli (Firenze 1890); Brevi racconti di storia patria, dalla fondazione di Roma alla scoperta dell’America (Firenze 1891); Dice il proverbio (Firenze 1893) ed altri testi scolastici per la scuola elementare. Presso il Fondo Bemporad dell’Archivio Storico Giunti Editore, a Firenze, è presente un fascicolo a lei dedicato (3 giugno 1889 – 3 ottobre 1927). Esiste inoltre un carteggio di 34 lettere di argomento più personale e familiare, scambiate con Emilia Peruzzi, animatrice di un importante salotto fiorentino, tra il 1870 e il 1890, cfr. A. Contini, A. Scattigno, Carte di donne: per un censimento regionale della scrittura delle donne dal 16. al 20. secolo: atti della Giornata di studio, Firenze, Archivio di stato, 5 marzo 2001, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2005. Torna al testo

Nota 18 I. Baccini in «Cordelia: rivista quindicinale per signorine», Cappelli, Rocca San Casciano, p. 326. Torna al testo

Nota 19 Archivio Storico Giunti, fascicolo Onorata Grossi Mercanti. Torna al testo

Nota 20 «Cordelia», cit., p. 326. Torna al testo

Nota 21 Sull’Istituzione del Premio Giannina Milli, vedi anche: Istituzione Milli di Firenze, Progetto di statuto per la instituzione Milli diretta ad onorare e promuovere gl’ingegni del sesso femminile in Italia, Stamperia sulle logge del grano, Firenze 1865; Istituzione Milli, Firenze, Rendiconto finale dell’amministrazione tenuta dal Comitato promotore di questa Istituzione, dall’anno 1864 a tutto aprile 1873, cioè fino al momento di consegnare la rappresentanza al municipio di Firenze ... / Istituzione Milli, 1873; Consiglio comunale di Firenze, Deliberazione del Consiglio comunale di Firenze pel conferimento del premio alla signorina Ada Negri, Tip. Galletti e Cocci, Firenze 1893. Torna al testo

Nota 22 «Cordelia», cit. Torna al testo

Nota 23 Giulio Giannelli (1889-1980), docente universitario di storia greca e romana, fu fra i redattori dell'Enciclopedia italiana, Direttore della Scuola normale superiore di Pisa dal 1959 al 1964 e saggista. Torna al testo

Nota 24 Tommasina Guidi, alias Cristina Guidicini (Bologna, 1835-1903) visse a Firenze e a Bologna, dove fu allieva di Salvatore Muzzi. Fra le sue opere, la novella Memorie di una zia, Un’amicizia di educandato, presso l'ufficio del Giornale delle donne, Torino 1881. Torna al testo

Nota 25 Casa Carducci, Bologna, Archivio dei corrispondenti, Tommasina Guidi, Carteggio LXIII, 45. Torna al testo

Nota 26 Felicita Pozzoli (Milano, 11 dicembre 1838-26 gennaio 1916) fu insegnante, scrittrice, pedagogista. Insegnò presso la Scuola Normale femminile di Milano e di Brescia. I suoi primi dialoghi per bambini, I Chiacchierini, che inviò in saggio a Alessandro Manzoni, furono pubblicati su «Il Tesoro delle famiglie». Collaborò a numerose riviste, con poesie, articoli e brevi racconti. Nei primi anni Settanta diresse il «Giornale delle fanciulle», su cui scrissero, fra gli altri, Caterina Percoto e Felicita Morandi. A partire dal 1878 diresse il periodico educativo «L'infanzia», pubblicato da Giacomo Agnelli. Molto attiva come teorica dell’educazione femminile, tenne conferenze presso la Lega milanese di pubblico insegnamento, tra cui Sullo stato attuale della donna in Italia. Considerazioni e studj, in Annali universali di statistica economia pubblica, legislazione, storia viaggi e commercio e degli studi morali e didattici (4, vol. 48, 1871:1 ott., Fascicolo 142). La pedagogista milanese mette al primo posto per la donna l’educazione dei figli come contributo alla formazione del cittadino e sostiene il primato, per le fanciulle, dell’educazione sull’istruzione. Cfr I. Mattioni, scheda ad vocem in G. Chiosso, R. Sani, Dizionario Biografico dell’Educazione,Editrice Bibliografica Milano e R. Farina, Dizionario biografico delle donne lombarde, 568-1968, Baldini & Castoldi, Milano 1995. Assieme a Giuseppe Banfi (1812-1877) la Pozzoli, compilò un’importante Antologia di prosa e poesia per le giovanette riordinata ed accresciuta secondo i Programmi governativi, ad uso delle Scuole Ginnasiali, Normali e Tecniche, Giacomo Agnelli, Milano 1890. Torna al testo

Nota 27 Casa Carducci, Bologna, Archivio dei Corrispondenti, lettera n. 26.225. Torna al testo

Nota 28 A. Ascenzi, Tra educazione etico-civile e costruzione dell'identità nazionale: l'insegnamento della storia nelle scuole italiane dell'Ottocento, V&P università, Milano 2004, pp. 123-213, la citazione è a p. 152. Torna al testo

Nota 29 Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Scientifico G. P. Vieusseux, Firenze, Fondo Boghen Conigliani, b. 5, decreto ministeriale del 19 settembre 1906. Torna al testo

Nota 30 Emma Boghen Conigliani (Venezia, 1866-Roma, 1956) diplomata a pieni voti presso il Regio istituto superiore di Magistero a Firenze e allieva di Enrico Nencioni, fu scrittrice, critica letteraria, insegnante di Lettere in numerose Scuole normali femminili (Ascoli Piceno, Parma, Napoli, Brescia, Udine, Cagliari, Firenze). Socia corrispondente della Regia deputazione di storia patria delle Marche, fu nelle commissioni giudicatrici dei concorsi a cattedra per docenti di lettere e pedagogia e per direttori didattici. Fu una delle più attive autrici Bemporad, editore per cui curò una fortunata serie di volumi di Storia della letteratura e Antologia della letteratura italiana, più volte ristampate. Torna al testo

Nota 31 Archivio Storico Giunti, fascicolo Emma Boghen Conigliani, b. 2. La corrispondenza non è inventariata. Torna al testo

Nota 32 Ivi. Torna al testo

Nota 33 Ivi. Torna al testo

Nota 34 Fra i biglietti conservati presso l’Archivio Storico Giunti, quello di Eugenia Dal Bo che, per il suo Goldoni e Poeti patriottici del sec. XIX, accetta le condizioni dell’editore di lire 30 a foglio di stampa di 16 pagine; la ricevuta di Chiarina Comitti, datata Ravenna 1° febbraio 1908, in cui dichiara di aver ricevuto la somma di lire 268,25 e si dichiara saldata per la cessione perpetua e assoluta di ogni diritto di proprietà letteraria sui due volumetti XV e XVIII dell’Antologia per le Scuole normali Poesia. Moralisti e critici e Opere minori del Tasso; Paolina Tacchi che dichiara di aver ricevuto lire 135 per il volume Francesco Guicciardini e gli storici minori. Torna al testo

Nota 35 Archivio Storico Giunti, Firenze, Fondo Boghen Conigliani, b. 2, minuta della lettera contabile dell'editore Roberto Bemporad al 4 novembre 1909 indicante i saldi ad Emma Boghen, Direttrice della Scuola Normale Femminile di Cagliari, per revisione dei seguenti volumi: n. 23 Lirici e poeti del Seicento, sig.ra Paolina Tacchi, L. 50.00; n. 36 Poesia patriottica del secolo XIX, sig.ra Eugenia dal Bo, L. 50.00; n. 37 Critica e politica nel Risorgimento, sig.ra Laura Romagnoli Zanardi, L. 50.00; n. 38 Massimo D’Azeglio, sig.ra Emma Leffi Foa, L. 50.00. Torna al testo

Nota 36 M. Miniati, Le “emancipate”. Le donne ebree in Italia nel XIX e XX secolo, Viella, Roma 2008, pp. 151-152. Torna al testo

Nota 37 B. Dalla Casa, Mutualismo operaio e istruzione professionale femminile a Bologna. L'Istituto “Regina Margherita”. Società anonima cooperativa, (1895-1903), in «Bollettino del Museo del Risorgimento», XXIX-XXX, 1984-1985, pp. 23-78; Ead., Associazionismo borghese ed emancipazione femminile a Bologna: il Comitato di propaganda per il miglioramento delle condizioni della donna, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», XXXII-XXXIII, pp. 145-165. Torna al testo

Nota 38 Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna. Il fondo Ada Borsi è inserito nella busta 166 del Fondo Umberto Borsi, ed è composto da 2 Cartelle numerate, 155/1 – 166/2. La prima comprende gli scritti di Ada Borsi (manoscritti) dal 1890 al 1908 circa. Inventario a cura di Maria Grazia Bollini. Torna al testo

 

Questo contributo si cita: L. Magazzeni, Lavoro e denaro nella corrispondenza privata di donne insegnanti di fine Ottocento, in «Percorsi Storici», 4 (2016) [www.percorsistorici.it]

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Enza Pelleriti, «Italy in transition». La vicenda degli Allied Military Professors negli Atenei siciliani fra emergenza e defascistizzazione, Bonanno editore, Catania 2013, pp. 439

(Simona Salustri)

 

Il libro di Enza Pelleriti affronta per la prima volta in maniera articolata il tema della defascistizzazione delle università siciliane dopo la caduta del fascismo. Come già ricordava Mariuccia Salvati in un suo saggio del 2001 dal titolo Amnistia e amnesia nell’Italia del 1946, in Italia la storiografia ha trattato a fasi alterne le vicende connesse al processo di transizione intercorso tra il fascismo e il periodo repubblicano, a volte travolta dalla contingenza politica, altre stimolata dall’accesso a nuove fonti. Solo nell’ultimo ventennio si è però allargato il campo, come suggeriva Claudio Pavone, allo studio della continuità degli individui più che ai processi normativi e istituzionali. Tale aspetto risulta anche il più interessante per approfondire la reale portata dell’irreggimentazione impressa dal fascismo.
È in quest’ottica che deve essere letto il lavoro di Pelleriti, ricco di spunti interpretativi e di suggerimenti di analisi, fondato su un’ampia ricerca archivistica in fondi locali e nazionali e su documenti in larga parte inediti riportati nell’utile appendice che occupa la seconda parte del volume. Di fatto l’Autrice avvalora una tesi già nota, ovvero quella della continuità dello Stato e della mancata epurazione italiana sia per ciò che concerne gli aspetti burocratico-normativi, sia per quanto riguarda un’auspicata riforma dell’assetto universitario ereditato dal regime fascista, senza dimenticare i protagonisti dell’alta cultura e la loro capacità di rimanere nei rispettivi ruoli, muovendosi tra le falle legislative. Nel testo si trova anche conferma dell’azione degli americani e degli inglesi, entrambi impegnati, sia pure con modalità diverse e con risultati limitati al tempo della gestione diretta del territorio italiano, ad imprimere un cambiamento all’assetto burocratico e al settore educativo della Penisola.
L’utilità del libro è ben altra e la si può cogliere sin dall’articolazione del volume. È infatti importante come Pelleriti scelga di dedicare il primo capitolo alla ricostruzione della fascistizzazione degli Atenei siciliani per fornire al lettore tutti gli elementi utili ad inquadrare la situazione accademica e per valutare al meglio l’attività svolta dai governi alleati, attraverso la costituzione dell’Education Subcommision prima e la creazione degli Allied Military Professors poi, temi al centro rispettavemente del secondo e del terzo capitolo. Senza allargare l’indagine agli anni Trenta sarebbe di fatto più complicato comprendere le difficoltà che si frapposero tra la complessa realtà accademica italiana e gli intendimenti alleati, e come i tanti compromessi raggiunti fossero l’unica strada per evitare il completo collasso del paese. Gli anglo-americani avevano alla base della loro azione un concetto ben preciso di educazione intesa come fine ultimo dell’istruzione, sostanzialmente agli antipodi del modello mussoliniano perfettamente rappresentato dal cambio del nome del Ministero della Pubblica istruzione in Ministero dell’Educazione nazionale nel momento in cui il regime impresse una evidente accelerazione alla costruzione dell’uomo nuovo fascista. La pedagogia anglosassone, incarnata nel momento della liberazione da uomini quali il colonnello George Robert Gayre, antropologo a Oxford, doveva essere il fondamento sul quale educare gli italiani in modo da eliminare il fascismo ed importare in Italia principi democratici sui quali sarebbero cresciuti i cittadini post-fascisti.
Alla luce di ciò che era stata la dittatura e di quale era stato il reale consenso degli italiani al regime, in campo strettamente educativo l’idea alleata sembrava quanto mai inappropriata e inapplicabile al paese; nel settore specifico dell’epurazione universitaria l’impossibilità di introdurre tout court un modello alternativo era ancor più evidente. Come sottolinea Pelleriti, gli anglo-americani si resero ben presto conto di dover fare i conti con una macchina complessa, quella gestita dagli accademici siciliani e fondata su relazioni consolidate. Un ingranaggio con il quale avrebbero necessariamente dovuto “negoziare” attraverso accordi singoli, anche in attesa di una generale evoluzione normativa. Questo elemento ci porta ad evidenziare un ulteriore aspetto che rende interessante il volume: l’Autrice ci mostra come la Sicilia sia stata una sorta di laboratorio nel quale sperimentare pratiche inedite, ma anche una regione dove con il passare del tempo queste pratiche passarono dall’essere emergenziali a costituire la norma utile alla salvaguardia dei poteri preesistenti. È il caso qui ricostruito degli AM Professors (docenti chiamati a sostituire i colleghi sottoposti a giudizio epurativo), unici nella realtà peninsulare ed esempio evidente di un processo di cooptazione universitaria che molto risentì delle interferenze locali e della successiva incapacità dei governi italiani di stabilire norme certe per la loro stabilizzazione.
Le stesse interferenze, sul piano opposto, si ritrovano nei procedimenti di defascistizzazione. Questo aspetto emerge quando l’Autrice affronta il tema dell’epurazione dei tre Atenei partendo dalla rimozione dei rettori e dei presidi fino ad arrivare agli ordinari e agli altri ruoli. Le indagini che portarono alla sospensione scandagliarono tutti gli aspetti della vita dei sospettati, non solo quelli relativi all’attività pubblica, ma anche quelli che potevano rientrare nella sfera privata per meglio individuare comportamenti che fossero il segnale di una vicinanza o, ancor peggio, di una condivisione dell’ideologia fascista. Vita privata e relazioni professionali furono dunque passate al setaccio, a comporre un quadro sui singoli docenti che basava le sue fondamenta non solo sulla autocertificazione compilata dai singoli e su indagini specifiche, ma anche su denunce in larga parte anonime e dichiarazioni a favore dei docenti compromessi. Un simile approccio all’indagine, con il peso assunto al suo interno dalle reti di relazione, determinò una certa discrezionalità nell’allontanamento dei professori da parte degli alleati che non fu certamente eliminata dai governi italiani, segnati nella loro attività dal rapido cambiamento dello scenario politico internazionale, oltre che dall’incapacità, e in alcuni casi dalla non volontà, di fare i conti con il passato regime.
Le singoli commissioni epurative in sede nazionale, così come l’Alto commissariato per l’epurazione, finirono per preferire la via più semplice del collocamento a riposo, salvo poi, nel giro di pochi anni, assistere al reintegro in servizio di alcuni dei personaggi più compromessi con il regime fascista.
In conclusione il volume di Pelleriti è senza dubbio un tassello importante per la storiografia dedicata alla defascistizzazione universitaria, ancora in larga parte da approfondire, e più in generale ci offre uno spaccato sulla transizione dal fascismo all’età repubblicana, segnata dalla continuità dello Stato e della rapida rimozione del passato.

 

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Orazio Pavignani Inseguendo mio padre. Cronaca di una ricerca: la Divisione Acqui settembre 1943, Minerva, Bologna 2016, pp. 272

(Vincenzo Sardone)

 

E’ una riuscita commistione fra romanzo autobiografico, cronaca, storia e memoria il bel lavoro di Orazio Pavignani fresco di stampa che, come suggerisce il titolo, riguarda una ricerca intima e personale sulla partecipazione di suo padre Marino alla vicenda della Divisione Acqui dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Scampato agli scontri e all’eccidio, Marino non aveva mai raccontato in famiglia quella dolorosa esperienza vissuta da giovane, ancora prima di sposarsi e mettere al mondo dei figli. L’autore comincia a seguire le tracce del suo genitore circa un decennio dopo la scomparsa (avvenuta nel 1989), quando è sua madre a parlargli della storia della Acqui, mostrandogli un articolo sull’argomento a firma di Mario Pirani apparso sul quotidiano La Repubblica.
Comincia così circa quindici anni fa per Orazio un intenso lavoro di ricostruzione storica in Italia e con frequenti viaggi a Cefalonia, l’isola principale teatro del massacro compiuto dalla Wehrmacht di cui furono vittime migliaia di giovani soldati italiani colpevoli di non aver ceduto le armi agli ex alleati. Contemporaneamente egli si impegna concretamente nell’Associazione nazionale divisione Acqui (Anda), che raccoglie l’adesione degli ormai pochissimi reduci e dei loro familiari e che si occupa della conservazione della memoria di quei fatti e dei suoi protagonisti. Partecipa a convegni, collabora con le scuole, facendo da guida presso i luoghi dell’eccidio.
Il libro si snoda in nove capitoli iniziali autobiografici in cui l’autore racconta il suo percorso in maniera appassionata e spontanea, uno stile che risulta coinvolgente per il lettore proprio perché scevro sia da orpelli stilistico-linguistici sia da quel talvolta freddo rigore “scientifico” da ricercatore storico, definizione nella quale egli stesso non si riconosce.
Consulta documenti, ascolta testimonianze, visita i luoghi e parla con le persone che ricordano, arrivando indirettamente a trovare qualche traccia della presenza di suo padre. Racconta inoltre la sua commossa partecipazione alle varie cerimonie commemorative, in particolare quella assieme ad alcuni reduci e membri dell’Anda, al seguito dell'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel 2007 volle celebrare il 25 aprile a Cefalonia presso il monumento ai caduti della Acqui.
La seconda parte del volume è costituita da una ricca raccolta di schede biografiche, brevi testimonianze, fotografie o semplicemente elenchi nominativi e rispettivo corpo di appartenenza di soldati della Acqui originari delle province di Bologna, Ferrara e Modena, reduci o caduti. Insomma un piccolo “pantheon” che vuole ricordare e rendere omaggio a questi uomini che hanno combattuto per il loro onore e per quello dell’Italia.
Pavignani è tutt’ora presidente della sezione di Bologna, Ferrara e Modena dell’Anda, fa parte della Giunta esecutiva nazionale dell’associazione con la carica di redattore del notiziario nazionale e curatore del sito internet www.associazioneacqui.it. Ha realizzato anche una splendida e documentatissima mostra storico fotografica dal titolo La scelta della Divisione Acqui a Cefalonia e Corfù nel settembre 1943 che è stata esposta in 65 sedi in Italia, fra le quali Palazzo d’Accursio a Bologna nel 2014, ricevendo la Medaglia di Rappresentanza della Presidenza della Repubblica.

 

 

 

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 Roberta Mira

 Il campo di Fossoli e il reclutamento di forza lavoro per la Germania nazista 

 

Il campo di Fossoli è noto per essere stato il Polizei- und Durchgangslager controllato dalle SS della Sicherheitspolizei und SD in Italia facenti capo a Wilhelm Harster: come tale fu un campo di transito per ebrei e politici in attesa di essere deportati nel Reich e fu attivo dal marzo del 1944 sino ai primi di agosto dello stesso anno, quando la struttura principale di raccolta dei prigionieri destinati alla deportazione divenne il campo di Bolzano (Nota 1). La maggior parte dei testi in cui si trovano riferimenti a Fossoli fa terminare ad agosto del 1944 la storia del campo nel periodo bellico (Nota 2), una storia peraltro centrale, essendo Fossoli un crocevia fondamentale per la deportazione dall’Italia da cui transitarono numerosi politici e circa un terzo degli ebrei trasferiti nel Reich dalla Penisola (Nota 3).
I lavori più accorti sulle vicende del campo segnalano il passaggio di consegne fra le SS e l’apparato dipendente dal Plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera (Generalbevollmächtigter für den Arbeitseinsatz, GBA) – incaricato di reclutare lavoratori nei diversi paesi dell’Europa occupata per inserirli nell’economia di guerra della Germania nazista – all’inizio di agosto del 1944 e accennano sinteticamente al fatto che Fossoli, come campo di transito per civili da impiegare come manodopera, funzionò sino alla fine di novembre dello stesso anno (Nota 4).
Manca del tutto una ricostruzione delle vicende di Fossoli in questo periodo di tempo che è quanto ci proponiamo di presentare in queste pagine (Nota 5). Le analisi storiografiche condotte sul campo di Fossoli riflettono infatti lo stato degli studi italiani sul tema del trasferimento e dell’impiego nel Reich di manodopera straniera, un tema rimasto a lungo ai margini della ricerca italiana sul periodo dell’occupazione tedesca nella Penisola, a differenza di quanto è avvenuto all’estero (Nota 6). Gli storici che si sono dedicati a studiare le deportazioni dall’Italia hanno concentrato maggiormente l’attenzione sulle vicende dei deportati politici e razziali e in misura minore su quelle degli internati militari (Nota 7) e il trasferimento di forza lavoro civile dall’Italia alla Germania fra il 1943 e il 1945 è stato per lo più trascurato (Nota 8). Certo è necessario distinguere fra le diverse esperienze di deportazione, considerando i differenti obiettivi perseguiti dai nazisti, le strutture di internamento, gli apparati responsabili della deportazione, il livello di sofferenze e gli indici di mortalità, ma, tenendo conto dell’importanza che lo sfruttamento della manodopera straniera rivestì per la Germania nazista, per la sua economia di guerra e per i suoi disegni di dominio sul continente europeo, appare opportuna una riflessione sui civili italiani che furono forzatamente trasferiti in Germania come lavoratori in condizioni che corrispondevano «di fatto a una deportazione» (Nota 9). Tale riflessione consente anche di indagare il sistema occupante nazista in Italia, le modalità repressive e di controllo del territorio adottate da tedeschi e fascisti della Rsi fra il 1943 e il 1945 e le violenze perpetrate a danno dei civili e dei partigiani italiani in quel biennio. Nel corso del lavoro sono emerse, infatti, numerose connessioni fra la cattura di forza lavoro per il Terzo Reich, i rastrellamenti e le operazioni militari condotte contro la Resistenza e le stragi di civili dell’estate-autunno 1944, connessioni che invitano a considerare il reclutamento di manodopera da parte nazista all’interno del contesto più generale in cui fu portato avanti. In questo senso la ricerca sul centro di raccolta per lavoratori di Fossoli, oltre a costituire un passo in avanti per completare la storia del campo, si inserisce in un quadro più ampio di quello strettamente locale. Certamente essa può contribuire alla storia regionale, in particolare delle province di Bologna, Modena e Reggio Emilia e della zona appenninica emiliano-romagnola a cavallo con la Toscana e le Marche, dove a partire dall’estate del 1944 si intensificarono le azioni antipartigiane e repressive condotte da nazisti e fascisti. Non solo. L’importanza attribuita dal nazionalsocialismo allo sfruttamento della forza lavoro straniera al servizio della guerra tedesca e del Nuovo Ordine Europeo permette di collocare lo studio di Fossoli anche in un contesto nazionale e sovranazionale, collegandolo da un lato al filone di ricerca sul lavoro coatto nella Germania di Hitler e dall’altro alle analisi del sistema di occupazione nazista in Italia, delle politiche di repressione dei fenomeni di Resistenza e opposizione e delle violenze perpetrate a danno della popolazione civile.
Allo scopo di ricostruire la storia del campo di Fossoli nei mesi in cui fu sottoposto al controllo del GBA è stato necessario procedere da un lato ad un’analisi quantitativa, cercando di definire il flusso di prigionieri in ingresso e in uscita da Fossoli, verificando anche eventuali mutamenti nel corso dei mesi che possono rinviare a cambiamenti nelle strategie della forza occupante o nelle più generali operazioni militari e di polizia sul territorio italiano; dall’altro all’esame del meccanismo di funzionamento e di struttura interna del campo stesso.
Una seconda fase del lavoro è stata rappresentata dall’esame qualitativo dei dati raccolti per identificare i prigionieri di Fossoli. L’estrazione sociale, le fasce d’età, la provenienza geografica, il sesso degli internati sono dati importanti per definire gli interessi e i fini dei nazisti che tenevano queste persone in cattività e per comprendere quanto di casuale ci fosse nella loro cattura e quanto invece non rimandasse a fenomeni estesi di opposizione politica e a comportamenti che per l’occupante e la Rsi potevano comunque essere considerati atteggiamenti ostili.
Il lavoro si è basato sulla documentazione reperita in archivi italiani – sia nazionali che locali – e tedeschi, nonché su storiografia di riferimento, testi di storia locale, memorialistica, testimonianze edite e inedite. È stato anche possibile intervistare alcuni ex deportati per lavoro. Da tutte le fonti utilizzate, siano esse primarie o secondarie, sono emerse notizie sul funzionamento del campo, sui rastrellamenti, sulle partenze, e nominativi di persone transitate per Fossoli, nonché – in particolare per quanto riguarda la documentazione e la bibliografia tedesche – sulle vicende occorse ai lavoratori italiani nel Reich e ad alcuni degli internati di Fossoli una volta trasferiti in Germania.

 

1. Fremdarbeiter e economia bellica 

Se la Germania di Hitler poté mantenere alti i livelli produttivi, incrementando i risultati in alcuni settori dell’industria bellica, anche dopo che le sorti del conflitto volsero a vantaggio della compagine antinazista, fu anche grazie alla presenza nel Reich di milioni di lavoratori stranieri che sostituivano i tedeschi inviati al fronte. Circa un lavoratore su tre attivo in Germania sul finire del 1944 proveniva dai territori europei occupati o alleati del Reich per un totale di 8 milioni circa secondo le stime GBA risalenti al settembre 1944 (Nota 10). Considerando nel conteggio non soltanto coloro che si trovavano effettivamente al lavoro, ma anche chi aveva già concluso il proprio periodo di servizio per scadenza del contratto o per rimpatrio, i malati, i deceduti e chi riuscì a fuggire – vale a dire la totalità dei reclutati – gli studi più approfonditi in materia parlano di una cifra complessiva di lavoratori stranieri in Germania durante la seconda guerra mondiale che va dai 9 ai 13 milioni di persone, la cui componente più cospicua è costituita da circa 8 milioni e mezzo di lavoratori civili seguiti da 4 milioni e mezzo di prigionieri di guerra e da quasi 2 milioni di internati nei campi di concentramento inseriti nel programma lavoro dell’ufficio economico delle SS (Nota 11).
Principale responsabile del reclutamento, del trasferimento e del collocamento dei lavoratori europei nel territorio del Reich fu il plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera Fritz Sauckel, la cui carica fu istituita nel marzo del 1942 proprio allo scopo di centralizzare e regolare l’utilizzo della forza lavoro straniera cercando di evitare conflitti di competenze e malfunzionamenti dell’economia così da favorire lo sforzo bellico. Le campagne di reclutamento lanciate in tutta Europa dal GBA inizialmente puntavano sulla presentazione volontaria dei lavoratori che avrebbero dovuto essere attratti in Germania da buoni salari, ma esse furono affiancate con intensità crescente nel corso del 1943 e del 1944 da misure coercitive, arresti, rastrellamenti e deportazioni di civili e dal ricorso ai prigionieri di guerra e dei campi di concentramento per sopperire al fabbisogno di manodopera (Nota 12). Per questo è possibile affermare che la parte maggioritaria degli stranieri al lavoro nel Reich non era costituita da volontari, ma da forzati, nonostante l’esistenza di una sorta di contratto di lavoro, di paghe e della condizione ufficiale di lavoratori liberi.
Come la storiografia ha da tempo chiarito, lo sfruttamento di tale manodopera da parte della Germania fu parte integrante dei piani di dominio sul continente europeo elaborati dal Terzo Reich, il quale doveva prevalere sull’intera Europa dal punto di vista bellico, politico, razziale ed economico (Nota 13).

 

2. Il reclutamento di lavoratori nell’Italia occupata

L’Italia entrò nel novero dei paesi da cui drenare forza lavoro in misura sistematica ancor prima dell’istituzione del GBA, in virtù di particolari accordi stipulati fra i due paesi alleati alla fine degli anni Trenta; nei primi anni Quaranta, poi, una succursale dell’ufficio del plenipotenziario per la manodopera si insediò a Roma. Fra il 1938 e il 1943 si spostarono in Germania per lavoro circa 500.000 italiani, secondo un processo che Brunello Mantelli ha definito di «emigrazione organizzata» (Nota 14). L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conseguente occupazione della penisola da parte tedesca determinarono una nuova situazione di cui i nazisti potevano approfittare per garantirsi la copertura di una parte del loro fabbisogno di manodopera. In Italia vennero applicati gli stessi metodi utilizzati negli altri territori occupati, senza bisogno di accordarsi con il governo locale, almeno fino alla creazione della Repubblica sociale, il cui ruolo ufficiale di governo alleato del Reich modificò – anche se solo di facciata – alcune condizioni (Nota 15).
Sauckel si mosse sin dalla fine del 1943 per ampliare il suo ufficio italiano e ottenne un proprio rappresentante in Italia, Kretzschmann, e addetti all’interno dei comandi militari territoriali dislocati nei principali capoluoghi di provincia italiani. Fino alla primavera del 1944 gli uffici per il reclutamento di manodopera italiana da inviare in Germania cercarono di ottenere l’adesione dei lavoratori attraverso campagne di arruolamento volontario accompagnate da una propaganda, la quale prometteva agli italiani che nel Reich avrebbero avuto un trattamento pari a quello dei lavoratori tedeschi e contratti di durata limitata. I risultati apparvero però piuttosto insoddisfacenti e alla presentazione volontaria per il lavoro in Germania i tedeschi affiancarono misure quali la chiamata obbligatoria per classi d’età e punizioni per i renitenti e i loro familiari. Accanto a tali disposizioni fecero la loro comparsa gli arresti collettivi e le retate nelle fabbriche e nei luoghi pubblici.
Tali provvedimenti favorirono i fenomeni di renitenza e di opposizione alla presentazione per il servizio del lavoro nel Reich: molti uomini, infatti, cercarono di sottrarsi al reclutamento obbligato e alla partenza per la Germania chiedendo di lavorare per le industrie protette dal ministero per gli armamenti e la produzione bellica nazista, la cui manodopera era indispensabile in Italia; presentandosi all’organizzazione Todt incaricata di lavori di fortificazione nella Penisola o prendendo contatti con la Resistenza armata ed entrando a far parte delle formazioni partigiane. Il passaggio alle “maniere forti” nel tentativo di guadagnare manodopera, dunque, non solo non fece raggiungere ai tedeschi gli obiettivi del reclutamento, ma creò anche difficoltà alla forza occupante che si trovò a dover contrastare un crescente movimento partigiano (Nota 16).
Secondo i piani di Sauckel nel corso del 1944 l’economia tedesca avrebbe dovuto ricevere l’apporto di più di un milione di lavoratori italiani, ma sino alla fine di luglio vennero trasferite nel Reich come manodopera circa 43.000 persone (Nota 17). Di fronte a risultati tanto deludenti i nazisti, che a inizio luglio avevano pensato di tornare al solo reclutamento su base volontaria per evitare un’opposizione troppo accesa al servizio del lavoro nel Reich, decisero di incrementare i rastrellamenti per procacciarsi la manodopera. Sia le forze di polizia, italiane e tedesche, sia i comandi di presidio in diverse località, sia le truppe operative nelle zone in prossimità del fronte furono impegnate in operazioni di rastrellamento volte al prelievo forzato di lavoratori, operazioni che si collegarono con l’attività di repressione indirizzata contro i partigiani e di cui spesso restarono vittime i civili. Inoltre gli occupanti fecero ricorso ai detenuti nelle carceri, selezionando i condannati per reati minori, e trasportandoli in Germania per impiegarli nelle fabbriche di guerra.
Alcune strutture sia italiane che tedesche si resero conto che tali misure repressive finivano per essere controproducenti e favorivano ulteriormente i fenomeni di opposizione e resistenza all’occupante e alla Rsi; per questo nel novembre del 1944 si pose fine ai rastrellamenti e alle azioni di raccolta di manodopera forzata, stabilendo il criterio dell’arruolamento volontario come unica forma di reclutamento di forza lavoro (Nota 18).

 

3. Il prelievo di manodopera da Fossoli prima dell’arrivo del GBA

Fossoli entrò nel circuito del reclutamento di manodopera per la Germania per i programmi di Sauckel e per quelli di altri organi tedeschi prima ancora che il GBA prendesse il controllo diretto del campo. Pertanto, volendo capire il funzionamento di Fossoli e come il campo fosse collegato al sistema di reclutamento di forza lavoro messo in piedi dai nazisti in Italia, è stato necessario tenere conto anche del periodo precedente, in particolare dei mesi di giugno e luglio del 1944.
In questo periodo le competenze sul Lager di Fossoli si sovrappongono e i percorsi di deportazione dei prigionieri si moltiplicano. È bene soffermarsi su questi momenti in maniera più approfondita essendo essi parte integrante del discorso sullo sfruttamento di Fossoli come riserva di forza lavoro per gli interessi nazisti.
Leopoldo Gasparotto – membro del Partito d’Azione e animatore della Resistenza milanese, arrestato a dicembre 1943 e trasferito a Fossoli da San Vittore nell’aprile 1944 – nel suo Diario di Fossoli registrò l’arrivo di «700 romani tutti pezzenti o quasi» alla data del 5 maggio 1944, dicendo che erano stati rastrellati in seguito all’uccisione di tre tedeschi a Roma (Nota 19). I prigionieri erano stati catturati il 17 aprile in un rastrellamento nel quartiere operaio romano del Quadraro, giudicato dai tedeschi un covo di comunisti; l’azione guidata da Herbert Kappler del comando SD della capitale era volta a catturare tutti gli uomini validi tra i 16 e i 60 anni (Nota 20) e ufficialmente venne presentata come una rappresaglia contro il quartiere in cui si erano rifugiati e nascosti gli uccisori di tre soldati tedeschi (Nota 21). Il rastrellamento va collegato all’incrudelirsi della repressione registratosi a Roma dopo l’esplosione di una bomba collocata dai partigiani in via Rasella, in seguito al quale Himmler aveva ordinato la deportazione degli elementi comunisti dalla città, intendendo con questo buona parte della popolazione. I propositi del Reichsführer delle SS non furono attuati e per ordine dei rappresentanti dell’esercito nazista si procedette invece alla fucilazione delle Fosse Ardeatine come atto punitivo per l’azione di via Rasella (Nota 22). Fu Kesselring ad ordinare il rastrellamento del Quadraro – la cosiddetta Operazione Walfisch – annullando un ordine di fucilazione di trenta persone come misura di rappresaglia per la morte dei soldati tedeschi impartito dal comandante della 14ª armata tedesca. Kesselring, come comandante in capo delle truppe operanti in Italia al momento dell’azione del Quadraro aveva già preso a diramare norme più severe rispetto alle precedenti per contrastare la Resistenza e i fenomeni di opposizione e, come si è detto, si era già verificata la fucilazione di massa delle Ardeatine; la logica avrebbe probabilmente richiesto un’esecuzione, come stabilito dal vertice della 14ª armata, e il fatto che ci troviamo invece davanti ad una retata di vaste proporzioni ci fa supporre che dietro il rastrellamento del Quadraro ci fosse sin da subito il tentativo tedesco di procacciarsi manodopera forzata (Nota 23). Non a caso la documentazione nazista elenca nei risultati dell’azione «707 comunisti e elementi sospetti arrestati e inoltrati all’Arbeitseinsatz» (Nota 24). I rastrellati furono concentrati inizialmente al cinema Quadraro, poi trasferiti a Cinecittà dove restarono un paio di giorni. Le successive tappe del percorso furono Terni, il carcere di Firenze, con una permanenza di circa dieci giorni, e infine Fossoli, dove i catturati giunsero il 2 maggio 1944. Nel campo i romani, inquadrati fra i politici, vivevano in misere condizioni, poiché a differenza di altri internati non ricevevano dai familiari pacchi di alimenti e vestiario, né potevano cercare di acquistare ciò di cui avevano bisogno, appartenendo a ceti popolari e poveri (Nota 25).
A metà giugno ai rastrellati del Quadraro, ad alcuni ostaggi provenienti da Frosinone – ricordati ancora da Gasparotto (Nota 26) – e ad altri prigionieri rinchiusi a Fossoli non per motivi politici, o considerati meno pericolosi, fu “chiesto di scegliere” – in realtà si trattò di una decisione obbligata – tra un contratto di lavoro in Germania e la deportazione in campo di concentramento. Secondo Gasparotto, che scrive «da diverso tempo si parlava dell’invio in Germania dei romani» (Nota 27), l’“offerta” fu presentata agli internati in seguito ad una visita al campo di alcuni ufficiali della Wehrmacht e del servizio del lavoro che avevano «compiuto una scelta, sulla scorta degli schedari» (Nota 28). Si trattava forse di inviati del rappresentante di Sauckel in Italia, o di esponenti di altri organismi interessati a reclutare manodopera.
Dei 700 rastrellati a Roma circa 500 firmarono la ricevuta di ingaggio degli uffici del lavoro tedesco e furono destinati alla partenza per la Germania. Il 24 giugno fu loro consegnato un foglio in cui si attestava il rilascio dal campo di Fossoli «a condizione di presentarsi immediatamente agli uffici del GBA di Modena» (Nota 29). Probabilmente lasciarono Carpi lo stesso 24 giugno o due giorni dopo, data di partenza di un convoglio di ebrei destinati ad Auschwitz (Nota 30).
Prima di loro partirono però altri internati di Fossoli che entrarono nel circuito del GBA.
Gasparotto, dopo aver detto della selezione e della riunione in cui fu prospettata la possibilità di presentarsi per il servizio del lavoro, aggiunge che a tutti i prigionieri del campo abili al lavoro fu avanzata la stessa proposta fatta ai romani e infatti, pochi giorni dopo, il 17 giugno, il capo campo e rappresentante degli internati Armando Maltagliati chiamò, in uno speciale appello, i nomi di oltre 500 persone, fra cui «operai, tecnici, ingegneri specialisti», divise in 11 gruppi e destinate al lavoro nel Reich (Nota 31). Il 21 giugno 1944 il convoglio partito per Mauthausen da Carpi trasportò nel Reich sia politici destinati ad entrare nel sistema concentrazionario gestito dalle SS, sia internati a Fossoli da impiegare al lavoro per lo più nell’industria bellica come Fremdarbeiter, cioè lavoratori stranieri, ufficialmente “liberi” (Nota 32).
Fra di loro si trovavano alcuni operai dell’area di Sesto San Giovanni, arrestati in seguito agli scioperi del marzo 1944 unitamente ad altri manifestanti e tradotti a Fossoli dal carcere milanese di San Vittore. Non è questa la sede per ripercorrere il significato degli scioperi nel quadro dell’opposizione all’occupazione tedesca e alla guerra né i motivi e i caratteri della risposta nazista; il caso è noto (Nota 33). Basti qui dire che l’arresto degli operai fu un mezzo per reprimere l’opposizione manifestata negli scioperi e perciò può essere qualificato come arresto “politico”, ma non tutti i fermati in seguito alle manifestazioni lombarde seguirono il percorso della deportazione politica. Almeno dieci operai di Sesto presenti sul convoglio del 21 giugno, perlopiù della Breda, arrivarono infatti a Mauthausen, ma furono poi inviati al campo per lavoratori di Wels o ad altri campi per manodopera.
Laura Danese, nel suo studio sulla deportazione degli operai dall’area di Sesto San Giovanni, ipotizza che questi lavoratori abbiano «usufruito della “sospensione condizionata della pena”» prevista per i detenuti che “prestavano servizio di lavoro”, in base a una legge emanata nell’aprile 1944, ma entrata in vigore solo nella prima metà di giugno» (Nota 34). Inoltre riporta le testimonianze di due di questi internati che cercano di spiegare, con motivazioni diverse, perché essi e i loro compagni non furono trattenuti nel campo di Mauthausen. Umberto Diegoli sostiene che l’ingegner Angelo Vallerani, direttore della Breda Aeronautica, anch’egli arrestato e portato a Fossoli avesse «preparato delle liste» «per salvarci tutti o il più possibile e farci mandare in un campo di lavoro» (Nota 35) e motiva la sua ipotesi con il fatto che molti degli operai che furono mandati al lavoro in fabbrica provenivano dalla Breda. Effettivamente Vallerani era il capo dell’ufficio lavoro nel consiglio formato dagli internati nel campo di Fossoli e si può supporre che avesse contatti particolari con i comandanti tedeschi o, almeno, con il capo campo Armando Maltagliati che aveva la funzione di rappresentare gli internati davanti al comandante tedesco Karl Titho (Nota 36).
L’ingegner Angelo Prati crede invece che il motivo sia da ricercarsi nel fatto che il campo era prossimo alla chiusura. Entrambi comunque parlano di una selezione in base al mestiere, avvalorando in questo modo la testimonianza che Gasparotto ci ha lasciato nel suo diario. Prati dichiara: «hanno preso due treni di internati di Fossoli, avevano fatto un po’ di domande a diversi su quello che facevano, come lavoro»; e Diegoli, riferendosi a Vallerani e alle presunte liste compilate dall’ingegnere, dice: «non sarà riuscito a dirottarli tutti nei campi di lavoro, magari quelli che non avevano un lavoro manuale, tipo impiegato o altro. Io ero ribattitore, ma anche un po’ attrezzista. A Wels avevo in mano una fresa, un tornietto con cui preparavo delle specie di stampi» (Nota 37).
La diversa destinazione dei deportati a fine giugno si ricava sia dalle testimonianze di alcuni operai di Sesto San Giovanni, sia dall’esperienza dei fratelli Vilson e Tullio Neri e di Flavio Casarini, rastrellati in un gruppo di circa 70 uomini nel centro di Soliera l’8 giugno 1944 – giorno della festa del Corpus Domini durante la quale le strade del paese erano affollate – e giunti a Fossoli il 12 stando al diario di Gasparotto (Nota 38). Le testimonianze dei fratelli Neri risultano piuttosto confuse, tuttavia sembra di capire che entrambi giunsero a Mauthausen e mentre Vilson andò a lavorare in una cartiera fuori dal campo – sebbene dica che vi tornava ogni sera – e poté godere di una certa libertà di movimento, cosa che fa supporre che in realtà fosse stato rilasciato e impiegato come lavoratore – il fratello Tullio fu immatricolato a Mauthausen e poi trasferito a Ebensee. Casarini invece rimase a Mauthausen per pochi giorni, dopo i quali fu rilasciato «con l’occasione di rimettermi all’ufficio tedesco del lavoro» (Nota 39) e fu portato a Berlino. Come lui anche altri subirono lo stesso destino; ricorda Casarini: «Siamo stati lì alcuni giorni, nei quali ci hanno fatto i documenti, e con questi documenti qua ci hanno spedito, due-tre da una parte, cinque da un’altra parte» (Nota 40). È probabile quindi che Mauthausen in questa fase fungesse anche da luogo di raccolta e smistamento di persone che, ritenute abili al lavoro, particolarmente utili come operai specializzati o non pericolose, non venivano trattenute nel Lager e passavano dallo status di internati a quello di lavoratori “liberi”.
Ciò che preme rilevare di fronte a questi casi, e ad altri simili che vedremo, è la difficoltà che si pone per una classificazione certa degli internati di Fossoli e del loro destino come deportati. Chiaramente tale difficoltà non sussiste per gli ebrei, ma è invece problematico definire una volta per tutte se nel caso di questo o quel prigioniero ci troviamo di fronte ad un internato politico che verrà deportato in campo di concentramento o ad un futuro lavoratore forzato sulla base di distinzioni legate alla funzione primaria del campo di Fossoli in un certo arco temporale, alla data di ingresso del prigioniero nel Lager, alla sua immatricolazione come politico o alla struttura da cui dipende il campo. Questo discorso vale per alcuni dei politici rinchiusi a Fossoli nei mesi in cui il Lager fu gestito dal Comandante supremo della polizia di sicurezza e del SD in Italia (BdS) di Verona e anche per alcuni dei rastrellati avviati forzatamente al lavoro sotto il controllo del GBA dall’agosto in poi, nel caso dei quali si tratta di arrestati per sospetta o accertata attività di opposizione o resistenziale.
Quelli ricordati sino ad ora non furono i soli trasferimenti di internati nel Polizei und Durchgangslager di Fossoli alle strutture del servizio del lavoro. Nei giorni che precedettero la chiusura del campo vecchio gestito dai fascisti e il trasferimento del campo tedesco in Alto Adige, infatti, partirono per la Germania alcuni convogli di persone destinate al lavoro.
Franco Varini, entrato a Fossoli il 12 luglio, ricorda «un’adunata generale» verso il 20 del mese, durante la quale Titho comunicò ai prigionieri che avrebbero «avuto la possibilità di essere trasferiti in Germania come liberi lavoratori», fatta eccezione per i non idonei «per gravi malattie» (Nota 41). Varini decise di non partire, dichiarando una grave malattia ereditaria di cui era morta sua madre, e rimase a Fossoli per poi essere trasferito a Bolzano e da qui a Flossenbürg, prima, e a Dachau, poi. Ma nelle sue memorie scrive che «le partenze si susseguivano» (Nota 42).
Appare utile a chiarire la situazione del periodo giugno-luglio 1944 la vicenda dei prigionieri di Fossoli provenienti da Castel del Rio. In questo Comune dell’Appennino bolognese a fine maggio gli uomini fra i sedici e i trent’anni ricevettero una lettera dal podestà con la quale venivano «invitat[i]» su ordine del Comando militare tedesco a recarsi a Castel del Rio il 31 maggio portando la lettera stessa, i documenti personali e quelli militari in loro possesso; la lettera minacciava rappresaglie sui convocati e sulle loro famiglie in caso di mancata comparizione. Fra coloro che si presentarono circa 50 furono trattenuti presso la casa del fascio e nella notte trasferiti su camion tedeschi a Prato. Ufficialmente fu dichiarato che si recavano in Toscana per lavori di sgombero macerie, ma una volta arrivati a Prato furono rinchiusi nel castello insieme ad altri uomini rastrellati in diverse località, con i quali il 12 giugno 1944 furono trasferiti al campo di Fossoli. Liliano Alpi nei suoi ricordi parla di circa 40 camion con a bordo una dozzina di uomini ciascuno, per un totale di circa 450-500 persone. All’arrivo al campo, secondo le testimonianze, gli abitanti di Castel del Rio furono classificati come politici e fu loro assegnato il triangolo rosso anche se i più fra loro partirono poi come lavoratori per la Germania e non furono trasferiti nei campi di concentramento. È anzi probabile che la loro cattura fosse determinata proprio dal tentativo di reclutare forza lavoro, sebbene si lasciasse credere che ci fossero pendenze politiche e sospetti di attività partigiana a carico dei trattenuti. Alcuni uomini di Castel del Rio lasciarono Fossoli verso la fine di giugno, altri in luglio e inizio agosto: la loro destinazione fu scelta probabilmente sulla base del mestiere dichiarato e dell’accertamento dell’abilità al lavoro (Nota 43). Anche nel caso di questi prigionieri, dunque, ci troviamo a cavallo tra due “categorie” di internati a Fossoli: essi entrarono nel campo quando era ancora sotto il controllo delle SS, ma ne uscirono, prima ancora che il GBA ne prendesse l’effettivo controllo, come lavoratori. Come accadde ai rastrellati della provincia di Modena catturati l’8 giugno e partiti per il Reich alla fine del mese, alcuni degli abitanti di Castel del Rio furono trasportati in un primo momento a Mauthausen che lasciarono dopo una breve permanenza, necessaria a preparare i libretti di lavoro, per essere inviati a diverse fabbriche della zona. Altri alidosiani furono invece trasportati nell’area di Berlino, prima in un campo di smistamento e poi nei pressi di Guben, dove furono adibiti allo sgombero di macerie e alla costruzione di rifugi.
In luglio o inizio agosto partì alla volta del Brandeburgo anche un secondo gruppo di abitanti di Soliera rastrellati l’8 giugno. Ettore Malpighi, che era fra questi, cita nelle sue testimonianze il campo di Sachsenhausen come primo centro di smistamento, ma è probabile che si tratti di una sovrapposizione ai ricordi personali di fatti noti e nomi di Lager famigerati. Attorno a Berlino vi erano infatti numerosi Lager per lavoratori stranieri e alcuni grossi campi di raccolta e smistamento che funzionavano regolarmente; appare quindi dubbio che il convoglio partito da Fossoli con tappa a Verona e probabilmente già destinato a trasferire in Germania i prigionieri come lavoratori, visto che a metà luglio si preparavano già la chiusura e lo spostamento del Durchgangslager delle SS a Bolzano, fosse diretto a Sachsenhausen. È possibile che Malpighi sia stato portato in un grande campo di transito e smistamento per lavoratori presso Berlino di cui non ricordava il nome e poiché negli elenchi dei campi di concentramento compaiono in genere solo i nomi dei campi del sistema SS abbia associato Sachsenhausen, il più grande presso Berlino, alla sua esperienza personale (Nota 44). Un altro deportato partito da Fossoli attorno a fine luglio – probabilmente si tratta dello stesso trasporto – parla infatti semplicemente di un grande campo di smistamento fuori Berlino (Nota 45).
Esperienze simili a queste furono con ogni probabilità vissute da alcuni uomini rastrellati in provincia di Reggio Emilia e trasferiti a Fossoli a fine luglio del 1944 (Nota 46).

 

4. Dal “campo vecchio” di Fossoli al lavoro in Germania

Non solo il campo diretto da Titho cedeva internati al servizio del lavoro e ad altre istanze tedesche: alcuni prigionieri furono trasferiti dal campo vecchio al campo nuovo al momento della chiusura della struttura gestita dai fascisti. L’ispettore di Pubblica sicurezza Carlo Alberto Rossi, incaricato di sovrintendere alle procedure di chiusura del campo di competenza della Rsi, si recò a Fossoli più volte tra giugno e luglio avviando il rilascio degli internati anglo-maltesi e dando disposizioni anche per la liberazione o il trasferimento ad altri luoghi di detenzione o concentramento delle persone presenti nel campo vecchio (Nota 47).
Nella sua relazione sulla visita al campo del 13 luglio 1944 Rossi scrisse:

il comandante Tedesco del contiguo campo nuovo di Concentramento preannunziò che sarebbe venuto coi suoi sanitari a far passare la visita medica a tutti gli internati, uomini e donne, del campo vecchio il che fece nel pomeriggio. Dopo tale visita ne prelevò 58 (57 italiani del reparto politico e cioè 55 uomini italiani e 2 donne e, tra gli stranieri, solo un polacco) e li fece trasportare, con la nostra scorta, al campo nuovo per avviarli al lavoro in Germania [...]. La visita medica passata [...] dai sanitari tedeschi a tutti gli internati del campo vecchio è stata molto diligente, il che fa presumere che gli elementi non prelevati per l’avviamento al lavoro versino tutti in precarie condizioni di salute (Nota 48).

Angiolino Arletti, intervistato da Luciano Casali, ha parlato, al contrario, di una sommaria visita medica a cui seguì l’invio in Germania come lavoratori volontari di diversi internati, una buona parte dei quali riuscì a fuggire durante il trasporto (Nota 49). Arletti, che colloca la visita al 19 luglio anziché al 13, figura nell’elenco di 26 persone rilasciate dall’ispettore Rossi allegato alla sua relazione sulla chiusura del campo vecchio (Nota 50): si tratta quindi dello stesso avvenimento. Forse furono la partenza verso nord degli internati destinati al lavoro e la liberazione degli altri ad avvenire il 19. Non sappiamo quanti dei 58 partirono effettivamente verso il Reich, ma dall’elenco allegato alla relazione di Rossi firmato da un Oberscharführer risulta che «in base all’accordo col sig. Questore di Modena, i suddetti internati politici italiani vengono avviati al lavoro in Germania» (Nota 51) e da ciò sembra di capire che la partenza fosse una cosa decisa per tutti; sono ignoti al momento anche il numero di quanti riuscirono a fuggire e le destinazioni finali dei lavoratori. I loro nominativi non compaiono fra quelli dei deportati politici italiani e possiamo quindi presumere con un buon grado di ragionevolezza che siano stati destinati ai campi per Fremdarbeiter (Nota 52).
Sempre al momento della chiusura della porzione di Fossoli gestita dai fascisti, Rossi dispose l’avvio ai lavori agricoli dei greci e degli slavi presenti nel campo vecchio – circa 90 individui – che dovevano essere ripartiti fra le province dell’Emilia Romagna, del Veneto e della Lombardia; il comando tedesco del campo nuovo chiese però a Rossi di attendere le disposizioni del comando SD di Verona sui greci prima di avviare il loro trasferimento. Dalla documentazione risulta che gli internati di nazionalità greca e slava furono comunque trasferiti in altre province dell’Emilia Romagna per essere impiegati in agricoltura, salvo poi essere fermati da SS o da altre unità tedesche e deportati in Germania, non sappiamo se nei campi di concentramento o nelle fabbriche (Nota 53).
Non si può escludere che quello dei 58 internati passati dal campo vecchio al nuovo a metà luglio e poi inviati al lavoro non sia un caso isolato, ma allo stato attuale delle conoscenze è l’unico accertato.

  

5. Passaggi di status

A questo punto dobbiamo interrogarci sui motivi che portarono ad un cambiamento nello status degli internati di Fossoli, almeno di alcuni di loro, a partire dall’estate del 1944.
Una probabile spiegazione per il mutamento di condizione dei prigionieri da politici, presumibilmente destinati ai campi di concentramento SS, a deportati per lavoro è costituita dalla fame di braccia che assillava l’economia della Germania nel 1944. Una situazione che si complicò maggiormente in Italia con il fallimento del reclutamento volontario. È noto – lo si è accennato più sopra – che i nazisti fecero ricorso all’impiego come manodopera persino di detenuti comuni per far fronte alla penuria di forza lavoro.
Da questa situazione derivarono accordi fra diversi ministeri tedeschi, tra singole fabbriche o settori industriali e uffici centrali o locali e probabilmente anche fra strutture differenti del sistema di occupazione in Italia: per quanto riguarda Fossoli sappiamo che fra metà giugno e metà luglio 517 internati furono «messi in marcia per l’impiego nel Reich per il GB Chemie» (incaricato generale per industria chimica) «dopo lunghe trattative» (Nota 54); non siamo in grado di dire con esattezza come fosse composto il gruppo, ma le testimonianze reperibili dei rastrellati del Quadraro riferiscono di fabbriche di materiali chimici e si può quindi ipotizzare che si tratti dei “romani” (Nota 55). Un altro accordo riguardò invece la produzione di carri armati e anche in questo caso a metà luglio gli uffici del BdS in Italia si dichiararono disponibili a cedere altri 500 prigionieri del campo di Fossoli all’incaricato del ministero della produzione bellica tedesco (Nota 56). Pare che quest’ultimo al fine di ottenere parte dei lavoratori per la realizzazione di carri armati prendesse contatto anche con il generale Harlinghausen incaricato di “reclutare”, cioè di sfruttare, uomini rastrellati principalmente nel parmense all’inizio del luglio 1944, per il programma Göring per la contraerea (Nota 57).
Si può sostenere, dunque, che fra diversi uffici tedeschi si giunse ad accordi per smistare in qualche modo la forza lavoro disponibile in maniera tale da sfruttarla con il massimo vantaggio per il Reich e la guerra e ciò darebbe conto dei cambiamenti nella condizione degli internati di Fossoli, ma possiamo prendere in considerazione anche un’altra motivazione. È possibile ipotizzare che per qualche motivo gli internati avviati al lavoro fossero ritenuti meno pericolosi di quelli lasciati in consegna alle SS e ai campi di concentramento. A questo proposito risultano molto interessanti alcuni documenti degli uffici del SD in Italia, relativi ad un ciclo di operazioni contro i partigiani del comandante della polizia dell’ordine (BdO) von Kamptz. In un appunto del 30 maggio si distingue fra tre categorie di possibili prigionieri da catturare nelle operazioni: i “banditi” veri e propri per i quali sia certa l’appartenenza a formazioni resistenziali; i prigionieri, ossia persone sospettate di far parte di nuclei partigiani o che non sanno giustificare e dimostrare la loro presenza e attività in zone dove i agiscono i partigiani; e i rastrellati appartenenti alle classi di età tra il 1914 e il 1927. Gli appartenenti alla seconda categoria, i prigionieri, ricadono sotto il controllo del Sicherheitsdienst e possono essere rinchiusi in campi di concentramento tedeschi o italiani; quelli della terza, invece, «in base ad un accordo speciale sono raccolti dal comandante della polizia dell’Ordine per il plenipotenziario per l’impiego della manodopera» per essere poi avviati al lavoro in Germania essenzialmente per l’industria bellica (Nota 58). Nel secondo documento del 15 giugno 1944 inviato ai comandi militari territoriali dal capo dell’amministrazione militare tedesca si precisa che, sulla base di una disposizione emanata il 31 maggio dal comandante supremo delle SS in Italia, Karl Wolff, anche i prigionieri appartenenti al secondo gruppo possono essere ceduti dal BdS al servizio del lavoro se non sono considerati pericolosi per «la pace del lavoro» in Germania (Nota 59). Forse sulla base di questi accordi una parte dei deportati del trasporto che giunse a Mauthausen il 24 giugno fu immatricolata nel Lager, mentre un’altra restò nel campo per alcuni giorni e poi fu smistata in diverse fabbriche della zona.
Del resto va ricordato che anche l’altro Lager di transito in territorio italiano, Bolzano, erede del campo di Fossoli, assolveva a più funzioni: alla deportazione nei campi di concentramento di prigionieri politici ed ebrei si affiancavano il lavoro forzato nei sottocampi del Lager altoatesino, il trasferimento in Germania di manodopera, la detenzione di elementi pericolosi e ostaggi (Nota 60). Non deve dunque stupire la pluralità di funzioni nel caso di Fossoli.

 

6. Il campo del GBA

Dopo la partenza del presidio SS per Bolzano con il trasferimento dei prigionieri destinati ai campi di concentramento Fossoli passò sotto gli uffici del plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera che disponeva di diversi luoghi in Italia dove venivano concentrati sia i volontari per il servizio del lavoro nel Reich sia i rastrellati nel corso di azioni di forza (Nota 61). Secondo la documentazione, il comandante Bruno Zimmermann e gli uomini del GBA presero possesso del campo nei primi giorni di agosto – il 6 secondo l’interprete in servizio presso il centro raccolta di Fossoli – e diedero avvio ad alcuni lavori di ristrutturazione, ordinando legname, vernice, calce e cemento per gli alloggi delle guardie (Nota 62). Non è del tutto chiaro se i tedeschi dell’Arbeitseinsatz utilizzarono solo il cosiddetto campo nuovo o anche il vecchio abbandonato dai fascisti il 14 luglio, ma è probabile che sfruttassero l’intera area anche perché il settore del campo vecchio con «tutto il materiale ivi esistente [era] stato rilevato coattivamente dal Comando Germanico del Campo nuovo» (Nota 63) a metà luglio e quindi possiamo supporre che il campo di Fossoli fosse ormai uno solo.
Lo spostamento a Fossoli del centro di raccolta del GBA seguì di pochi giorni l’ordine, impartito alle truppe della 10ª e della 14ª armata della Wehrmacht che si spostavano verso nord con l’arretramento del fronte, di trasferire in Italia settentrionale i civili maschi per selezionare coloro che avrebbero dovuto essere impiegati in Germania come lavoratori. L’esercito tedesco venne in questo modo direttamente coinvolto nei programmi per il reclutamento della manodopera e l’ordine del Comando supremo dell’esercito del 19 luglio 1944 costituì l’avvio di una serie di «rastrellamenti sistematici» (Nota 64) nell’area appenninica fra Toscana ed Emilia che univano all’esigenza militare di sgombrare le zone interessate dalle operazioni quella di inviare nel Reich un cospicuo numero di lavoratori.
Il campo di Fossoli, trovandosi nelle immediate vicinanze delle retrovie, in prossimità della linea ferroviaria e della strada statale per il Veneto e il Brennero, con strutture già attrezzate e funzionanti per il concentramento di prigionieri, fu considerato idoneo a raccogliere i civili catturati dalle truppe tedesche in ritirata.
Lutz Klinkhammer ci ha fornito i primi dati sui rastrellamenti effettuati dalle truppe operanti. Le unità della Wehrmacht, in particolare quelle della 14ª armata, nei mesi da agosto a ottobre del 1944 catturarono un ingente numero di civili, circa 60.000, di cui circa 12.000 furono trasferiti nel Reich (Nota 65). Nella sola provincia di Bologna nel mese di agosto del 1944 circa 7.000 persone furono avviate al servizio del lavoro e ben 5.600 furono trasferite in Germania; fra queste l’1% era costituito da volontari, il 10% da persone arrestate come partigiani o sospetti o per reati minori e ben l’89% da civili rastrellati in prossimità del fronte dalle unità della Wehrmacht (Nota 66).
La divisione tedesca che più contribuì all’opera di “raccolta” di potenziali lavoratori fu la 16ª divisione SS Reichsführer-SS, responsabile di molte delle principali stragi di civili perpetrate dai nazisti in Italia, fra cui quelle di Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole (Nota 67). La 16ª SS, come vedremo, fu anche l’artefice di alcuni dei rastrellamenti che ebbero come destinazione dei catturati il campo di Fossoli.
Le cifre indicano che i rastrellamenti furono il principale mezzo di raccolta di possibile forza lavoro e la prima fonte di prigionieri per Fossoli nella fase di controllo del GBA, ma accanto ai civili catturati in queste grandi operazioni esplicitamente indirizzate al prelievo di braccia, al campo giunsero anche persone fermate in altri tipi di rastrellamenti effettuati in città e pianura, arrestate in piccole azioni di polizia fasciste e/o naziste o in operazioni antipartigiane; e probabilmente il reclutamento di  manodopera riguardò anche i civili coinvolti negli spostamenti di grandi quantità di popolazione seguiti agli ordini di evacuazione e sfollamento impartiti dalle autorità militari e amministrative sia italiane che tedesche. Le aree che via via venivano a coincidere con il fronte furono infatti interessate dagli ordini di Kesselring sull’evacuazione della popolazione, ordini in cui rientrava la raccolta degli uomini dai 18 ai 45 anni e il loro concentramento, così da reperire manodopera e sottrarre possibili forze alla Resistenza (Nota 68).
Se dalla provincia di Modena e da parte del Reggiano i catturati venivano convogliati direttamente a Fossoli, quelli rastrellati in altre province della regione o fuori regione seguivano spesso altri percorsi. Il campo di Fossoli era infatti inserito in un sistema e si alimentava di rastrellati provenienti da altri centri di raccolta, come le Caserme Rosse di Bologna, il campo di Bibbiano fra Reggio e Parma, o i centri di raccolta di Massa e Lucca (Nota 69).
Questi luoghi erano utilizzati dai tedeschi per il concentramento dei possibili lavoratori già prima che il GBA giungesse a Fossoli: le Caserme Rosse, per esempio, avevano iniziato la loro attività nel febbraio 1944 come centro di smistamento per i volontari che si presentavano per il servizio del lavoro nel Reich, ma dal giugno 1944 avevano accolto in misura crescente rastrellati provenienti dal Bolognese, dalla Toscana e dalle Marche. Con l’apertura del centro del GBA a Fossoli i due campi vennero collegati e quasi quotidianamente camion e autobus trasferivano prigionieri dalle Caserme Rosse a Fossoli (Nota 70). Il centro raccolta di Bibbiano, invece, era stato ricavato nel campo sportivo locale per raccogliere una parte dei rastrellati nel corso dell’Operazione Wallenstein che nell’estate del 1944 investì l’Appennino modenese, reggiano, parmense, piacentino, ligure e toscano in tre ondate successive volte a «bonificare la zona ormai di retrofronte, garantendo la sicurezza delle linee di comunicazione, e rastrellare il massimo di popolazione maschile attiva destinata allo sforzo bellico del Reich» (Nota 71). Il campo di Bibbiano non rimase aperto a lungo e sembra che non fosse collegato a Fossoli in maniera diretta come quello bolognese delle Caserme Rosse, tuttavia nell’agosto del 1944 si verificò almeno un trasporto di rastrellati da Bibbiano a Fossoli (Nota 72).
Nel campo i rastrellati erano sistemati nelle baracche che avevano ospitato ebrei, politici, internati civili prima di loro. Ricaviamo alcune informazioni sulle condizioni ambientali del campo da una lettera della delegazione del Consolato svizzero che visitò Fossoli il 30 maggio 1944 per accertarsi dello stato di salute degli internati di nazionalità britannica, dove si legge: «il campo di Fossoli di Carpi è stato eretto in una zona di bonifica, non certo saluberrima, sprovvista, sull’area del campo stesso, non solo di alberi, ma di qualsiasi vegetazione. La temperatura d’inverno vi è gelida e d’estate insopportabilmente torrida; la minima pioggia trasforma il suolo in un pantano». La lettera prosegue denunciando l’inadeguatezza delle strutture delle baracche, dei bagni e dell’infermeria, presumiamo del campo vecchio, carenze già evidenziate dagli ispettori generali di polizia Rossi e Lotti nelle loro relazioni (Nota 73). Se consideriamo che già da fine luglio il campo fu in parte smantellato si può immaginare in che condizione di abbandono fosse nei mesi da agosto a novembre (Nota 74).
Secondo l’interprete, a Fossoli all’inizio di agosto non vi erano «viveri», ma «fango da sprofondare fino alle ginocchia, sudiciume a cumuli nelle baracche! [...] L’incuria dei tedeschi dell’S.D. verso gli internati era stata talmente bestiale [che] mancava non solo un dottore, ma non vi era traccia di infermeria onde separare i malati dai sani» (Nota 75). Ricorda un prigioniero: «lì non si poteva dormire, se no venivi pelato dalle cimici, dalle bestie che c’erano in ‘ste baracche sporche. Guai se uno si addormentava veniva assalito mentre dormiva e ti mangiavano la pelle addosso» (Nota 76). Fu proprio l’interprete del GBA, stando alla sua testimonianza, ad organizzare con laureandi e laureati in medicina, e poi con medici di professione, un servizio sanitario, oltre che i servizi amministrativi all’interno del campo per i quali fece assumere alcuni prigionieri. Il segretario del vescovo, don Tonino Gualdi, prestava invece l’assistenza religiosa ai rastrellati, recandosi al campo di domenica e nei giorni di festa e, talvolta, anche durante la settimana (Nota 77).
I rastrellati rinchiusi a Fossoli erano civili, quasi tutti uomini – a riprova del fatto che lo scopo principale dei rastrellamenti era l’incetta di manodopera soprattutto per l’industria bellica – e restavano al campo nella maggior parte dei casi 24 o 48 ore per essere sottoposti ad una selezione (Nota 78). Dalla testimonianza di un rastrellato in provincia di Bologna, catturato il 7 ottobre del 1944, trasferito a Fossoli dalle Caserme Rosse l’8 ottobre e rimasto a Fossoli fino all’11 quando fu portato a Peschiera del Garda e da qui, in carro bestiame, fino in Germania, risulta che a Fossoli i prigionieri erano suddivisi sulla base di una sommaria visita medica in tre categorie: una per l’impiego nel Reich, una per il lavoro in Italia e una per gli inabili al lavoro. Nel campo gli idonei firmavano una sorta di contratto e ricevano una tuta da lavoro e un paio di scarpe (Nota 79).
Da altre testimonianze emerge che la selezione era effettuata per alcuni già prima di arrivare a Fossoli, oppure, in seguito al trasferimento, in un’altra tappa del percorso dei deportati. Alcuni studi e testimonianze sostengono che anche alle Caserme Rosse i rastrellati venivano divisi in abili al lavoro in Italia e abili al lavoro in Germania: mentre i primi erano trasferiti in altre località per lavori di sterro, costruzione di trincee e fortificazioni, oppure venivano impiegati per scortare le mandrie che i tedeschi avevano razziato e trasferivano oltre il Po, i secondi erano condotti a Fossoli da dove si proseguiva per la Germania (Nota 80). Da altre fonti sappiamo però che anche alcuni dei rastrellati trasferiti da Fossoli a Peschiera del Garda restarono a lavorare in Italia (Nota 81).
Peschiera, quasi certamente il carcere militare, era la principale tappa dei lavoratori partiti dal campo di Fossoli: a causa del cattivo stato delle vie di comunicazione per i bombardamenti, si raggiungeva il Garda mediante corriere e altri mezzi e, poi, il trasferimento in Germania avveniva in treno via Verona, Bolzano, Innsbruck.
Un’ulteriore selezione poteva avvenire oltre confine, in Austria o direttamente in Germania, dove i deportati per lavoro erano smistati fra le diverse fabbriche o erano avviati ai lavori agricoli (Nota 82).
Le destinazioni nel Reich erano le più svariate sebbene la maggior parte dei lavoratori forzati italiani transitati per Fossoli di cui abbiamo potuto seguire le sorti nel corso della ricerca fu inserita nelle fabbriche attive nella produzione bellica nelle zone di Berlino, Monaco, Amburgo, Colonia, Dresda, Regensburg, Kahla, Linz. Una parte più piccola fu impiegata in agricoltura e, specie nel 1945, con l’approssimarsi al cuore del Reich dell’armata sovietica da est e delle forze Alleate da ovest alcuni ex prigionieri di Fossoli furono impiegati nello sgombero macerie o nello scavo di nuove trincee e fosse anticarro che impedissero l’avanzata degli angloamericani e dei russi. I lavoratori italiani erano alloggiati per lo più nei cosiddetti Fremdarbeiterlager, campi per lavoratori stranieri, direttamente annessi alle fabbriche o costruiti nei pressi degli stabilimenti in varie località tedesche, nei quali le condizioni peggiorarono via via nel corso dell’inverno 1944.
Nel mese di novembre del 1944 l’aviazione angloamericana attaccò il campo di Fossoli, prima con una serie di mitragliamenti che causarono lievi danni alle strutture, ma provocarono il ferimento di alcune delle internate addette alla cucina (Nota 83); poi, il giorno 20, con un vero e proprio bombardamento. I danni principali riguardarono gli alloggi della Gnr e la baracca degli impiegati italiani del campo e vi furono anche delle vittime: mentre le carte conservate all’Archivio comunale di Carpi attestano la morte di sette militi fascisti, un brigadiere della Guardia e due civili, secondo l’interprete del campo decedettero immediatamente o per le ferite riportate «12 militi della G.N.R., un’ausiliaria, un russo della guardia tedesca, 2 impiegati liberi e tre internati (uno dei quali fu letteralmente volatilizzato dall’esplosione di una bomba, perché malgrado le ricerche fatte non fu più possibile trovarlo)» (Nota 84). Pare che in questa occasione alcuni degli internati riuscirono a fuggire (Nota 85). Dopo il bombardamento, precisamente il 29 novembre, il centro di raccolta, con il comando, le guardie e i materiali utilizzabili, fu trasferito a Gonzaga, in provincia di Mantova, ma i tedeschi mantennero il controllo sull’area del campo anche in seguito (Nota 86). A Gonzaga il centro raccolta, collocato in un edificio scolastico, restò attivo per circa un mese, fino all’attacco partigiano del 19-20 dicembre ai presidi militari della zona (Nota 87).

 

7. Rastrellati e altri prigionieri

La maggior parte degli internati a Fossoli da agosto in avanti entrò nel campo in seguito a operazioni di rastrellamento indiscriminato della popolazione maschile di intere aree e località. In questa sede non è possibile elencare tutti i rastrellamenti, né dare conto esaustivamente di singole vicende, per cui ci limiteremo a considerare alcuni casi significativi.
A inizio agosto il campo accolse numerosi civili catturati durante la terza fase dell’Operazione Wallenstein svolta nell’area della zona libera di Montefiorino nel Modenese e nel territorio contiguo comprendente alcuni Comuni della provincia di Reggio Emilia. A Riolunato, Pievepelago, Gombola, Frassinoro, Cerredolo, Castellarano, Viano, Villaminozzo – per citare solo alcune delle località interessate – furono rastrellati gli uomini e una parte di essi fu portata a Fossoli e da qui in Germania (Nota 88). Inoltre altri catturati nel Parmense e in Toscana furono portati al campo in seguito dal centro raccolta di Bibbiano (Nota 89).
A settembre giunsero a Fossoli numerosi rastrellati civili dalla Toscana. Di questi faceva parte un gruppo di 16 frati certosini e almeno 24 civili arrestati presso la Certosa di Farneta nella notte fra l’1 e il 2 settembre. Nel rastrellamento, operato dagli uomini della 16ª divisione delle Waffen-SS, furono fatti prigionieri più di cento civili e 34 religiosi. Essi furono rinchiusi in un primo momento a Nocchi dove giunsero via via altre centinaia di rastrellati. 29 uomini concentrati a Nocchi vennero fucilati a Pioppetti di Camaiore per vendicare la morte di alcuni soldati tedeschi. La maggior parte dei catturati fu poi avviata al centro raccolta manodopera di Carrara, dove nazisti e fascisti avevano fatto confluire i rastrellati a Farneta e nelle aree limitrofe ritenuti idonei al lavoro; i non idonei furono invece convogliati a Massa nelle carceri, da dove alcuni vennero prelevati e fucilati con altri prigionieri in diversi luoghi della periferia della città: le vittime furono in totale 37 (Nota 90). L’8 settembre i rastrellati alla Certosa rinchiusi nel centro di raccolta per manodopera di Carrara furono tradotti a Fossoli e qui sei religiosi riuscirono ad entrare in contatto con il segretario del vescovo di Carpi, don Gualdi, che si adoperò per la loro liberazione. Anche alcuni civili, fra cui tre ragazzi molto giovani e un uomo, furono liberati. Altri dieci certosini, conversi e donati, e circa 15 civili il 18 settembre furono invece deportati nel Reich via Peschiera, giungendo in parte a Berlino (Nota 91). Quasi certamente dal centro di raccolta di Carrara giunsero a Fossoli altri rastrellati con quelli della Certosa di Farneta ed è probabile che anche questi siano stati trasferiti nel Reich per lavoro, ma per ora non è stato possibile quantificarli.
Nei mesi di settembre e ottobre entrarono a Fossoli anche molti uomini catturati in una serie di rastrellamenti attuati nella provincia di Bologna. In settembre giunsero al campo uomini rastrellati a Medicina in due occasioni: dopo la manifestazione popolare del 10 settembre, organizzata e appoggiata dai partigiani locali, e alla fine del mese; dei fermati – il cui totale è imprecisato, ma si aggira secondo le testimonianze sul centinaio – oltre 30 risultano deportati in Germania come lavoratori (Nota 92). Più di mille civili, stando alle fonti della Wehrmacht, furono rastrellati nei Comuni attorno a Casalecchio di Reno nei giorni dal 7 al 10 ottobre 1944 quando un’operazione tedesca, condotta ancora una volta dagli uomini della 16ª divisione SS, investì l’area di insediamento della 63ª brigata Garibaldi. Nel corso dell’azione furono uccisi un religioso e almeno sei civili, ebbe luogo lo scontro di Rasiglio con i partigiani e fu compiuta la strage del cavalcavia di Casalecchio, in cui persero la vita orrendamente trucidati 11 partigiani e due civili. I rastrellati vennero scortati a piedi fino a Bologna, concentrati alle Caserme Rosse e poi in parte trasportati a Fossoli (Nota 93).
Altri uomini giunsero da Sesto Imolese più o meno negli stessi giorni, dopo essere stati detenuti a Medicina e alle Caserme Rosse; e un secondo rastrellamento, questa volta condotto a Imola città, vide pochi giorni dopo il trasporto a Fossoli di alcuni dei fermati considerati abili al lavoro (Nota 94).
Il 12 ottobre furono rastrellati il territorio di San Lazzaro di Savena, quello di Ozzano e l’estrema periferia di Bologna: i tedeschi catturarono diversi uomini rinchiudendoli dapprima in una villa di San Lazzaro per poi trasferirli a Fossoli (Nota 95).
Un gruppo di uomini arrivò a Fossoli a seguito del rastrellamento attuato nella pianura a est di Bologna nell’area di Castenaso e Budrio il 21 ottobre 1944 (Nota 96). I rastrellati in quella occasione furono alcune centinaia: oltre 300 secondo le fonti e la bibliografia locali (Nota 97); quasi 200 secondo la documentazione nazista (Nota 98) e una parte di questi, cospicua a detta dei tedeschi, fu consegnata agli uffici del lavoro per il trasferimento nel Reich. Dalle testimonianze di alcuni di questi rastrellati, sia civili che partigiani – forse non riconosciuti come tali – veniamo a sapere che i rastrellati, concentrati a Medicina nella sede della Feldgendarmerie, dove si trovavano anche altri rastrellati, furono portati in corriera a Fossoli, dove giunsero attorno al 25 ottobre, e da qui a Peschiera del Garda. Alcuni di loro furono poi deportati al lavoro forzato in Germania, mentre altri restarono in Italia (Nota 99). Altri partigiani catturati nel corso del rastrellamento e degli scontri del 21 ottobre vennero in parte uccisi – furono 8 i fucilati del 22 ottobre – in parte reclusi nelle carceri di San Giovanni in Monte a Bologna (Nota 100).
Sempre in ottobre altri uomini furono rastrellati sull’Appennino reggiano nuovamente investito dall’azione tedesca: molti dei catturati in queste operazioni provenivano dall’area di Castelnovo ne’ Monti e transitarono per Fossoli prima di essere trasportati nel Reich (Nota 101).
Si può notare quanto queste azioni siano connesse con la guerra ai civili scatenata in Italia nell’estate-autunno del 1944 dai nazisti e dai fascisti e quale sia il legame fra i rastrellamenti e le operazioni condotte contro i partigiani, cosa che mostra chiaramente come la vicenda di Fossoli sia calata a pieno nel contesto di guerra totale combattuta sul suolo della Penisola nello scorcio finale del secondo conflitto mondiale.
Come si è accennato, oltre a essere un bacino di raccolta per coloro che venivano catturati in questi grandi rastrellamenti, Fossoli fu anche luogo di concentramento e smistamento per il lavoro in Germania di piccoli gruppi di prigionieri o di singoli, arrestati da fascisti o tedeschi e detenuti nelle carceri o presso diversi comandi. È questo il caso dei medici dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, Armando Businco, Teodoro Posteli e Alessandro Novaro e dell’infermeria Imelde Rosetti. Mentre il primo fu arrestato dai fascisti e poi passato in consegna alle SS, gli altri furono fermati dai tedeschi in seguito all’azione di trafugamento di un quantitativo di radium dall’ospedale organizzato dalla Resistenza bolognese per evitare che i nazisti potessero impossessarsene e utilizzarlo a scopi militari; tutti loro erano vicini ai partiti antifascisti, in particolare al Partito d’Azione, ed erano coinvolti nell’attività di sostegno alla Resistenza armata svolta all’interno del Sant’Orsola (Nota 102). Dopo un periodo di detenzione nella sede del comando del Sicherheitsdienst di Bologna in via Santa Chiara e nel carcere di San Giovanni in Monte a disposizione delle SS, Rosetti, Businco, Posteli e Novaro furono trasferiti prima alle Caserme Rosse di Bologna e poi al campo di Fossoli. Businco e Posteli furono in seguito trasportati a Peschiera, tappa verso un campo di lavoro in Austria, ma un mitragliamento del convoglio su cui viaggiavano diede loro l’occasione per fuggire (Nota 103). Novaro e la Rosetti lavorarono nel campo come personale medico e secondo la testimonianza dell’interprete di Fossoli aiutarono quest’ultimo nel “boicotaggio” delle visite mediche con cui i prigionieri erano scelti per il lavoro in Germania, un’opera che a detta dell’interprete salvò numerosi rastrellati dalla deportazione (Nota 104). Imelde Rosetti, che era già stata destinata ad un campo di lavoro in Austria, riuscì a fuggire in seguito al bombardamento del 20 novembre 1944. Non conosciamo invece il destino di Alessadro Novaro: sappiamo solo che la moglie si recò a Fossoli per vederlo e fu internata con lui (Nota 105). I medici e l’infermiera del Sant’Orsola, pur essendo stati arrestati per sospetta attività partigiana, furono portati a Caserme Rosse e poi a Fossoli in quanto «forze specializzate nel campo della medicina straordinariamente preziose» (Nota 106), ma nel loro come in altri casi il trasferimento a Fossoli e l’inserimento nel sistema dei lavoratori forzati non può essere visto unicamente come forma di reclutamento di braccia per l’impiego nel Reich. Non è un caso se il capitano delle SS del comando SD di Bologna concludeva la sua lettera al centro di raccolta delle Caserme Rosse in merito a Businco e ai suoi compagni scrivendo: «Per motivi di polizia è esclusa una permanenza in territorio italiano» (Nota 107); evidentemente questi prigionieri erano considerati in qualche misura pericolosi, ma il loro mestiere li rendeva utili per il Reich ed era sufficiente a risparmiare loro la deportazione politica, sebbene essa fosse più indicata nella loro situazione.
Nel periodo in cui Fossoli fu controllato dal GBA altre persone vicine alla Resistenza o membri di formazioni partigiane fecero il loro ingresso nel campo. La partigiana Laura Guazzaloca fu catturata dai nazisti con i compagni feriti che assisteva, come infermiera, dopo la battaglia di Purocielo dell’11 ottobre 1944 sostenuta dalla 36ª brigata Garibaldi contro truppe tedesche; in un primo tempo i nazisti decisero di lasciare il gruppo all’ospedale di Brisighella, ma dopo pochi giorni la Brigata Nera di Faenza fece irruzione nell’ospedale e arrestò i partigiani e gli infermieri che erano con loro, facendoli trasferire a Bologna. Qui gli uomini furono fucilati il 20 ottobre e Laura Guazzaloca fu invece portata a Fossoli, dove morì il 23 novembre 1944 (Nota 108). Lo stesso vale per altri casi tratti dall’esperienza bolognese e per alcune testimonianze provenienti dal Modenese e dal Ferrarese: per esempio Ernesto Silvestri che abitava ai Mulini Nuovi nei pressi di Modena ricorda di non essere stato catturato in un rastrellamento, ma di essere stato prelevato dalla sua abitazione dai tedeschi che lo interrogarono presso il loro comando, accusandolo di «favorire i partigiani e anche gli americani» perché probabilmente qualcuno lo aveva denunciato per aver consegnato alcuni fucili ad un falegname in contatto con la Resistenza. Fu prima incarcerato a Sant’Eufemia per una quindicina di giorni, poi, anziché restare in carcere come sospetto antifascista, fu mandato a Fossoli, di qui a Peschiera e poi in Germania al lavoro (Nota 109).

 

8. Conclusioni  

In conclusione sembra opportuno trarre le fila del discorso partendo da alcune ipotesi relative al numero complessivo degli internati a Fossoli nel periodo agosto-novembre 1944.
Enzo Collotti ha parlato di 10-15.000 prigionieri che sarebbero stati rinchiusi a Fossoli tra l’agosto e il novembre del 1944 e anche Luciano Casali, mettendo in relazione la storia di Fossoli con i rastrellamenti effettuati sull’Appennino, ha ipotizzato che un cospicuo numero di persone sia transitato per il campo in questo periodo. Una relazione quella fra i rastrellamenti e il campo che si verificò realmente come abbiamo visto, complici gli ordini ricevuti dalla Wehrmacht ricordati in precedenza (Nota 110).
Secondo l’interprete in servizio presso il centro di raccolta quando gli uomini del GBA arrivarono a Fossoli nel campo si trovavano ancora degli internati ed egli indica come cifra circa 2.000 persone: probabilmente un numero troppo elevato, anche se è possibile che a Fossoli fossero rimasti coloro che nel periodo precedente la chiusura del campo vecchio e il trasferimento del campo SS a Bolzano erano già stati scelti per il servizio del lavoro in Germania, ma non erano ancora partiti (Nota 111). Sempre in base alla testimonianza dell’interprete in agosto e settembre «si susseguirono con ritmo accelerato arrivi e partenze di deportati con una media di 800-1000 al giorno», ingressi e uscite che diminuirono progressivamente in ottobre e novembre per ridursi quasi a zero poco prima del trasferimento a Gonzaga: gli internati a fine novembre sarebbero stati una cinquantina (Nota 112). Partendo da queste cifre e facendo una semplice operazione di calcolo si giungerebbe a sovrastimare il fenomeno, ma d’altra parte cifre molto elevate sono indicate anche per altri centri di raccolta più o meno improvvisati e temporanei utilizzati dai tedeschi per avviare i rastrellati al lavoro nel Reich o in Italia. Per il campo di Bibbiano presso Reggio Emilia si è parlato di «25.000 uomini rastrellati sulle montagne di Massa, Pontremoli e Parma» (Nota 113); per le Caserme Rosse di Corticella a Bologna don Giulio Salmi, che curava l’assistenza religiosa e non dei rastrellati, ha parlato di oltre 30.000 persone da giugno a ottobre 1944 (Nota 114); una cifra simile è quella ipotizzata per il campo di Lucca allestito nella locale Pia Casa di Beneficenza sempre nel torno di tempo giugno-ottobre (Nota 115). Anche per il campo di Gonzaga, successore diretto di quello di Fossoli, che pure fu attivo solo un mese, si parla di «molte migliaia di deportati» (Nota 116).
Se consideriamo poi le fonti tedesche notiamo che anche queste indicano contingenti cospicui di rastrellati in singole operazioni o in brevi periodi di tempo; basti pensare ai risultati dichiarati per le azioni antipartigiane condotte in provincia di Perugia nel maggio 1944 o per l’Operazione Wallenstein I: rispettivamente 1.350 partigiani arrestati, di cui 551 inviati al lavoro nel Reich, e 2.500 prigionieri inviati a Bibbiano, di cui un migliaio vennero deportati in Germania come manodopera (Nota 117). Per il periodo di tempo considerato in questa ricerca su Fossoli va ricordato ancora una volta che solo in provincia di Bologna e solo ad agosto del 1944 più di 5.000 persone, la stragrande maggioranza delle quali catturata in rastrellamenti nei pressi della linea del fronte, furono destinate al lavoro nel Reich (Nota 118). Considerate la posizione geografica e la funzione di Fossoli in questa fase è molto probabile che diversi fra questi lavoratori siano transitati per il campo e questo vale in generale per i rastrellati nelle zone del fronte e del retrofronte da metà luglio in avanti destinati alla deportazione in Germania che Klinkhammer ha quantificato in oltre 10.000 persone. Infine si deve tenere conto dei collegamenti esistenti tra Fossoli e altri campi e centri di raccolta e del fatto che molti dei catturati conobbero più luoghi di prigionia, incluso Fossoli, per cui, almeno in parte, siamo di fronte ad un solo quantitativo di persone che viene spostato da un luogo all’altro. Ciò significa anche che le cifre indicate per i diversi campi non sono da sommare fra loro, o lo sono solo parzialmente.
Per quanto riguarda l’effettiva deportazione in Germania dei prigionieri di Fossoli nel periodo di competenza del GBA si deve ricordare che non tutti furono effettivamente trasportati nel Reich: vi fu infatti chi restò in Italia, chi riuscì a fuggire, chi, avviato al trasferimento, non giunse a destinazione per diversi motivi.
Infine, a proposito di coloro che furono realmente impiegati come manodopera nel Reich partendo da Fossoli, nei conteggi va tenuto conto anche dei passaggi di status degli internati politici che lasciarono il campo come lavoratori.
È piuttosto difficile arrivare a stime precise anche a causa del tipo di documentazione, testimonianze e notizie reperibili sui rastrellamenti e gli arresti di persone portate a Fossoli: raramente le informazioni sul campo e sui potenziali deportati per lavoro costituiscono l’oggetto della documentazione coeva o il nucleo centrale delle vicende descritte nei testi, più attenti a narrare la storia delle formazioni partigiane o ad inquadrare gli aspetti più truci della repressione, come le stragi o la deportazione nei campi di concentramento gestiti dalle SS, che non le vicende di chi tutto sommato non ha conosciuto gli orrori di Auschwitz. È inoltre piuttosto difficile trovare riferimenti precisi nelle fonti e nella bibliografia e spesso le uniche notizie disponibili compaiono sotto formule come queste: “dopo il rastrellamento una ventina di uomini fu portata a Fossoli”, oppure “fu deportata”, o ancora “115 uomini catturati e avviati al servizio del lavoro”. Nel caso in cui compaiano dei nomi sono in genere quelli dei deceduti.
Nonostante ciò è stato possibile ricostruire le linee principali di un quadro, certamente ancora parziale, della vicenda di Fossoli relativamente al suo utilizzo come centro per la raccolta della manodopera.
Volendo trarre alcune somme e indicare i risultati del lavoro in senso quantitativo, al momento possiamo parlare di oltre 2.000 persone transitate a Fossoli per entrare nel circuito dell’Arbeitseinsatz, di cui una metà giunta al campo da agosto in avanti. Si tratta di stime prudenziali, data l’incertezza su alcuni dati, laddove si riscontrano riferimenti generici a “centinaia di rastrellati”. Su questo totale sono noti i nominativi e particolari sulla cattura, la permanenza a Fossoli e l’eventuale trasferimento in Germania di un migliaio di persone, la cui parte più cospicua è costituita dagli oltre 600 nomi dei rastrellati del Quadraro.
Inoltre va segnalato che restano ancora da chiarire alcuni casi e che altri dati potrebbero emergere da una parte della ricerca che è ancora in corso: le cifre qui indicate sono pertanto suscettibili di variazioni.
In conclusione vorremmo evidenziare quello che ci pare restare un nodo ancora da sciogliere. Se per i rastrellati in seguito a operazioni partigiane, il legame con la Resistenza – che è accertabile in base alle testimonianze e alle biografie – poteva essere e restare ignoto ai tedeschi, il trasferimento a Fossoli e l’inserimento nel sistema dei lavoratori forzati di persone arrestate proprio perché sospettate di sostenere o appartenere alla Resistenza, o perché evidentemente membri di formazioni partigiane, non può essere visto unicamente come forma di reclutamento di forza lavoro da sfruttare nel Reich. I molteplici obiettivi perseguiti dai tedeschi con i rastrellamenti sembrano avvalorare questa ipotesi:

la necessità di manodopera è certo un’esigenza prioritaria per l’economia di guerra tedesca, ma non è da meno l’esigenza di fare terra bruciata intorno ad un movimento resistenziale che gode di un vasto appoggio e supporto popolare [...] e quindi di rendere sicure le retrovie della Linea Gotica e le vie di comunicazione; inoltre è presente la volontà di colpire duramente i renitenti alla leva, in un groviglio di casi personali nei quali è difficile soppesare quali siano le ragioni principali che poi conducono al lavoro coatto in Germania (Nota 119).

Non è dunque possibile escludere che il campo di Fossoli abbia continuato a funzionare come Lager di transito verso il Reich per oppositori, anche dopo che la struttura effettivamente preposta alla deportazione politica dall’Italia – ossia il Dulag gestito dalle SS – si era ormai trasferito a Bolzano e nonostante il fatto che questi oppositori siano stati avviati al servizio del lavoro, piuttosto che essere rinchiusi nei campi di concentramento propriamente detti. Probabilmente non è un caso che alcuni prigionieri di Fossoli in questa fase vi siano stati trasferiti direttamente dalle carceri dove si trovavano sotto controllo delle SS.
Questi passaggi di status dei prigionieri, inversi in un certo senso rispetto a quelli ricordati in precedenza per i cosiddetti politici che diventarono lavoratori, devono condurci a riflettere ulteriormente sulla natura e sul ruolo assunto da Fossoli nel sistema repressivo fascista e nazista in Italia al fine di giungere ad una più profonda comprensione della sua storia.

 

NOTE

Nota 1 Prima di passare sotto il controllo del BdS Fossoli fu utilizzato dalla Rsi da dicembre 1943 a febbraio del 1944 come campo di concentramento per ebrei. E. Biondi, C. Liotti, P. Romagnoli, Il Campo di Fossoli: evoluzione d’uso e trasformazioni, in G. Leoni (a cura di), Trentacinque progetti per Fossoli, Electa, Milano 1990; A. M. Ori, Il Campo di Fossoli. Da campo di prigionia e deportazione a luogo di memoria 1942-2004, Fondazione Ex Campo Fossoli, Carpi 2004; L. Picciotto, L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli 1943-1944, Mondadori, Milano 2010; G. D’Amico, Sulla strada per il Reich. Fossoli, marzo-luglio 1944, Mursia, Milano, 2015. Torna al testo

Nota 2 Si vedano la rassegna bibliografica di S. Duranti in S. Duranti, L. Ferri Caselli (a cura di), Leggere Fossoli. Una bibliografia, introduzione di L. Casali ed E. Collotti, Edizioni Giacché, La Spezia 2000 e dello stesso Duranti, Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi: percezione, ricordo e significato attraverso la sistemazione degli scritti raccolti nella bibliografia, in G. Procacci, Lorenzo Bertucelli (a cura di), Deportazione e internamento militare in Germania. La provincia di Modena, Edizioni Unicopli, Milano 2001. Torna al testo

Nota 3 Cfr. L. Casali, La deportazione dall’Italia. Fossoli di Carpi, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa. 1939-1945, Cappelli, Bologna 1987; E. Collotti, Introduzione, in G. Leoni (a cura di), Trentacinque progetti per Fossoli, cit., p. 13; G. Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. Militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, introduzione di N. Tranfaglia, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 161-165 e 232-233. B. Mantelli, Deportazione dall’Italia (aspetti generali), in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, Einaudi, Torino 2000, pp. 134-136; I. Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I «trasporti» dei deportati 1943-1945, prefazione di D. Jalla, Consiglio Regionale del Piemonte – ANED, Franco Angeli, Milano 1994; L. Picciotto, L’alba ci colse come un tradimento, cit; G. D’Amico, Sulla strada per il Reich, cit. Torna al testo

Nota 4 L. Casali, La deportazione dall’Italia, cit., pp. 390-391; E. Biondi, C. Liotti, P. Romagnoli, Il Campo di Fossoli, cit., p. 45; R. Gibertoni, A. Melodi, Il Campo di Fossoli e il Museo Monumento al deportato di Carpi, in T. Matta (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Electa, Milano 1996, pp. 103-104; A. M. Ori, Il Campo di Fossoli, cit., pp. 45-46. Torna al testo

Nota 5 Il lavoro di cui qui si dà conto fa parte di una più ampia ricerca sui rastrellamenti di manodopera da parte delle forze di occupazione naziste nell’estate-autunno 1944 nelle regioni italiane attraversate dal passaggio del fronte condotta da chi scrive presso l’Università di Bologna. Torna al testo

Nota 6 Rinviamo a R. Mira, Razzie di uomini per il lavoro nella Germania nazista. Una messa a punto sul caso italiano, in «Italia contemporanea», 266 (2012). Torna al testo

Nota 7 Per la deportazione politica e razziale cfr. F. Cereja, B. Mantelli (a cura di), La deportazione nei campi di sterminio nazisti. Studi e testimonianze, Franco Angeli, Milano 1986; A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Franco Angeli, Milano 1986; A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, Franco Angeli, Milano 1994; B. Mantelli, Deportazione dall’Italia, cit. e L. Picciotto, Deportazione razziale: la persecuzione antiebraica in Italia, 1943-45, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, cit.; G. Mayda, Storia della deportazione dall’Italia; L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945, Mursia, Milano 2002 (nuova ed. rivista e accresciuta); G. D’Amico, B. Mantelli (a cura di), I campi di sterminio nazisti. Storia, memoria, storiografia, Franco Angeli, Milano 2003; B. Maida, B. Mantelli (a cura di), Otto lezioni sulla deportazione. Dall’Italia ai Lager, Aned, Milano 2007; Il libro dei deportati, Ricerca del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino diretta da B. Mantelli e N. Tranfaglia, promossa da Aned-Associazione nazionale ex deportati, 3 voll., Mursia, Milano 2009-2010. Sono a disposizione degli studiosi anche diversi lavori su singole aree. Sugli internati militari, Istituto storico della Resistenza in Piemonte (a cura di), Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Franco Angeli, Milano 1989, N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), Le Lettere, Firenze 1992; G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945). Traditi disprezzati dimenticati, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, Roma 1992; G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, il Mulino, Bologna 2004. Torna al testo

Nota 8 Fanno eccezione E. Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945. Studio e documenti, Lerici, Milano 1963; L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993; Id., Il trasferimento coatto di civili al lavoro forzato in Germania: alcune considerazioni, in «Storia e problemi contemporanei», 32 (2003); dello stesso Klinkhammer alcuni interventi su singole zone. Fra i contributi di B. Mantelli ricordiamo: L’arruolamento di civili italiani come manodopera per il Terzo Reich dopo l’8 settembre 1943, in N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento, cit.; I lavoratori italiani trasferiti in Germania dal 1938 al 1945: un tema dimenticato, in A. L. Carlotti (a cura di), Italia 1939-1945. Storia e memoria, prefazione di F. Della Peruta, Vita e Pensiero, Milano 1996; Gli italiani in Germania 1938-1945. Un universo complesso e ricco di sfumature, in G. Procacci, L. Bertucelli (a cura di), Deportazione e internamento militare, cit. Cfr. anche F. Wiesemann, Italienische Arbeitskräfte im nationalsozialistischen Deutschland, in «Annali della facoltà di lettere dell’Università di Napoli», 25 (1984). In precedenza si era occupato della questione anche A. Gibelli, Les travailleurs italiens et l’économie de guerre allemande dans le programme du «Nouvel ordre européen» de Hitler (1939-1945), in «Studia historiae œconomicæ», VIII (1973); Id., Il reclutamento di manodopera nella provincia di Genova per il lavoro in Germania (1940-1945), in «Il Movimento di Liberazione in Italia», 99-100 (1970). Torna al testo

Nota 9 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., p. 387. Torna al testo

Nota 10 Stiftung Archiv der Parteien und Massenorganisationen der DDR im Bundesarchiv, RD 89/28, Der Arbeitseinsatz im Großdeutschen Reich, Nr. 11-12, 30.12.1944. Torna al testo

Nota 11 U. Herbert, Einleitung des Herausgebers, in Id. (Hrsg.), Europa und der “Reichseinsatz”. Ausländische Zivilarbeiter, Kriegsgefangene und KZ-Häftlinge in Deutschland 1938-1945, Klartext, Essen 1991, p. 7. M. Spoerer, Zwangsarbeit unter dem Hakenkreuz. Ausländische Zivilarbeiter, Kriegsgefangene und Häftlinge im Deutschen Reich und im besetzten Europa 1939-1945, DVA, Stuttgart-München 2001 pp. 219-225 e 253. Sia Herbert che Spoerer ipotizzano che le cifre complessive di coloro che furono reclutati dai nazisti a vario titolo e in diversi luoghi siano più elevate, considerando che nei totali mancano i lavoratori impiegati nei territori occupati al servizio del Reich e delle sue truppe, coloro che furono costretti a seguire i movimenti di ritirata delle unità militari e chi fu solo avviato al trasferimento senza giungere nel Reich: cfr. U. Herbert, Zwangsarbeit in Deutschland: Sowjetische Zivilarbeiter und Kriegsgefangene 1941-1945, in P. Jahn, R. Rürup (Hrsg.), Erobern und Vernichten. Der Krieg gegen die Sowjetunion 1941-1945, Argon, Berlin 1991, p. 119, dove l’ipotesi è avanzata a proposito dei civili e dei soldati russi, ma può essere estesa a lavoratori di altre nazionalità. Sullo sfruttamento del lavoro dei prigionieri dei campi di concentramento si vedano R. Fröbe, Der Arbeitseinsatz von KZ-Häftlingen und die Perspektive der Industrie 1943-1945 in U. Herbert, (Hrsg.), Europa und der “Reicheinsatz”, cit.; B. Mantelli, «Untermenschen» e industria di guerra. Il lavoro nelle fabbriche dei Lager, in F. Cereja, B. Mantelli (a cura di), La deportazione nei campi di sterminio nazisti, cit. e B. Mantelli, Il lavoro forzato nel sistema concentrazionario nazionalsocialista, in Lager, totalitarismo e modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, Bruno Mondadori, Milano 2002. Torna al testo

Nota 12 D. Eichholtz, La deportazione di manodopera in Germania, 1939-1945, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa, cit. e dello stesso autore i voll. 2 e 3 di Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft, Akademie-Verlag, Berlin 1969-1996; E. L. Homze, Foreign Labor in Nazi Germany, Princeton Uiversity Press, Princeton-New Jersey 1967; U. Herbert, Fremdarbeiter. Politik und Praxis des “Ausländer-Einsatzes” in der Kriegswirtschaft des Dritten Reiches, Dietz, Bonn 1999 (I ed. 1985); M. Spoerer, Zwangsarbeit unter dem Hakenkreuz, cit. Torna al testo

Nota 13 Ci limitiamo a ricordare E. Collotti, La Germania nazista. Dalla repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, Einaudi, Torino 1962; W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, 2 voll., Einaudi, Torino 1962 (ed. or. 1959); D. Eichholtz, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft 1939-1945, 3 voll., cit.; Militärgeschichtlisches Forschungsamt (Hrsg.), Das Deutsche Reich und der Zweite Werltkrieg, 9 voll., DVA, Stuttgart 1979-2005. Torna al testo

Nota 14 B. Mantelli, I lavoratori italiani trasferiti in Germania, cit., pp. 487-488 e per uno studio più esaustivo su questo tema Id., «Camerati del lavoro». I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, La Nuova Italia, Firenze 1992. Torna al testo

Nota 15 La sorte toccata all’Italia meridionale, dove venne applicata senza diaframmi la legislazione di guerra nazista, essendo il territorio prossimo al fronte e zona di operazioni militari, è esemplificativa delle durissime misure impiegate allo scopo di sfruttare nel modo più utile ai tedeschi il potenziale umano italiano: cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., pp. 131-138. Sulle conseguenze dell’occupazione tedesca nel Sud Italia vedere G. Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003. Torna al testo

Nota 16 Sull’attività dell’organizzazione Sauckel in Italia cfr. E. Collotti, L’amministrazione tedesca, cit., in particolare cap. 6 e L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., soprattutto cap. 5. Torna al testo

Nota 17 Ivi, pp. 176-177. Torna al testo

Nota 18 Ivi, pp. 373-399. Torna al testo

Nota 19 L. Gasparotto, Diario di Fossoli, a cura di M. Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 32. Per una biografia di Gasparotto vedere ivi M. Franzinelli, PostfazioneTorna al testo

Nota 20 W. De Cesaris, La borgata ribelle. Il rastrellamento nazista del Quadraro e la resistenza popolare a Roma, prefazione di S. Medici, Odradek, Roma 2004. Sulla vicenda del Quadraro si veda anche A. Pavia, A. Tiburzi, I giorni del sole nero. Da Roma ai Lager nazisti, Aned Roma, Roma 2010. Torna al testo

Nota 21 Cfr. in W. De Cesaris, La borgata ribelle, cit., p. 71 l’Avvertimento alla popolazione romana pubblicato su «Il giornale d’Italia», 18 aprile 1944. Torna al testo

Nota 22 Cfr. L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997 e nuova edizione 2006. Sulle Ardeatine cfr. il testo di Klinkhammer, la bibliografia ivi citata e A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999. Torna al testo

Nota 23 Cfr. L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia, cit., pp. 10, 91-92 e W. De Cesaris, La borgata ribelle, cit., pp. 109-119. Quest’ultimo cita un testo anonimo del 1945 che avanza esplicitamente l’ipotesi che dietro al rastrellamento vi fosse il GBA Fritz Sauckel. Torna al testo

Nota 24 Cfr. ivi p. 149, riproduzione scheda di C. Gentile sull’Operazione Walfisch. Torna al testo

Nota 25 Cfr. le testimonianze di G. Giovannini, P. De Angelis e G. Caprari in W. De Cesaris, La borgata ribelle, cit., pp. 48-51. Inoltre S. Bartolai, Da Fossoli a Mauthausen. Memorie di un sacerdote nei campi di concentremento nazisti, Istituto storico della Resistenza di Modena, Modena 1966, pp. 37-38. Torna al testo

Nota 26 Cfr. L. Gasparotto, Diario, cit., p. 21. Torna al testo

Nota 27 Ivi, p. 83. Torna al testo

Nota 28 IbidemTorna al testo

Nota 29 Foglio di rilascio riprodotto in W. De Cesaris, La borgata ribelle, cit., p. 98. Torna al testo

Nota 30 Cfr. L. Casali, La deportazione dall’Italia, cit., pp. 390-391; A. M. Ori, Il campo di Fossoli, cit., p. 42 e lettera di E. Di Matteo al podestà di Carpi riprodotta ivi, p. 43; L. Picciotto, L’alba ci colse come un tradimento, cit., pp. 130-131. Il 26 giugno partì però anche un convoglio di 466 detenuti nelle carceri di Castelfranco Emilia destinati al lavoro in Germania probabilmente nell’ambito dell’Azione carceri, con cui il governo della Rsi e i nazisti si accordavano sull’invio in Germania come forza lavoro dei detenuti, anche se il decreto ufficiale italiano che dava via libera a tale azione è del 29 giugno, ma non è chiaro se il convoglio fosse lo stesso; in questo caso si spiegherebbe la discrepanza fra la data ricordata dai romani (24 giugno) e il fatto che il convoglio partito il 26 giugno avesse a bordo oltre 500 ebrei e altre 450-500 persone. È forse anche possibile che i romani siano partiti tutti, cioè oltre 700, ma a scaglioni. Sui detenuti a Castelfranco cfr. Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Ministero dell’interno (d’ora in poi MI), Direzione generale pubblica sicurezza (d’ora in poi DGPS), Divisione affari generali e riservati (d’ora in poi DAGR), A5G II Guerra mondiale, b. 152, fasc. 240, Prefettura di Modena, Gab. N. 05284, 5 luglio 1944, Invio condannati definitivi ed internati ai laboratori carcerari germanici e G. Guerzoni, Il forte urbano di Castelfranco Emilia, Castelfranco Emilia 1998. Sull’operazione di svuotamento delle carceri italiane per raccogliere forza lavoro cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., pp. 373-380. Torna al testo

Nota 31 L. Gasparotto, Diario, cit., p. 86. Torna al testo

Nota 32 Sul viaggio e l’arrivo a Mauthausen cfr. S. Bartolai, Da Fossoli a Mauthausen, cit, pp. 41-57. Inoltre P. Passarin, Da Verona a Mauthausen via Fossoli e ritorno, Cierre Edizioni, Verona 1995, pp. 12-17, sebbene l’autore collochi il viaggio fra il 14 e il 17 giugno 1944. Torna al testo

Nota 33 Sugli scioperi del marzo 1944 e le loro conseguenze cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, cit., pp. 200-226 e per una lettura che dà un maggiore peso alla deportazione come misura punitiva E. Collotti, L’occupazione tedesca in Italia con particolare riguardo ai compiti delle forze di polizia, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Franco Angeli, Milano 2001, pp. 265-266. Sul caso di Sesto San Giovanni, cfr. L. Danese, M. P. Del Rossi, E. Montali, La deportazione operaia nella Germania nazista. Il caso di Sesto San Giovanni, introduzione di P. Iuso, Ediesse, Roma 2005 e G. Valota, Streikertransport. La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945, Guerini e Associati, Milano 2007. Torna al testo

Nota 34 L. Danese, I deportati delle fabbriche di Sesto San Giovanni, in L. Danese, M. P. Del Rossi, E. Montali, La deportazione operaia nella Germania nazista, cit., p. 134. Torna al testo

Nota 35 Ivi, p. 133. Torna al testo

Nota 36 Su Vallerani cfr. L. Gasparotto, Diario, cit., pp. 17-18, nota 19 e pp. 47 e 60: su Maltagliati ivi, p. 33, nota 51 e passim. Entrambi furono trasferiti da Fossoli al campo di Bolzano e liberati nell’autunno 1944: cfr. le note biografiche riportate nelle note al DiarioTorna al testo

Nota 37 L. Danese, I deportati delle fabbriche di Sesto San Giovanni, p. 134. Torna al testo

Nota 38 L. Gasparotto, Diario, cit., p. 79. Torna al testo

Nota 39 R. Clarelli, Violenza e memoria. Limidi tra guerra e Resistenza (1943-1945), Edizioni Artestampa, Modena 2001, p. 170. Torna al testo

Nota 40 Ivi, pp. 272-273. Un caso simile è quello di Umberto Righini trasferito a Fossoli dal carcere delle Murate di Firenze l’11 giugno insieme ad altri 90 detenuti e poi inserito nel trasporto del 21 giugno ma impiegato come lavoratore forzato a Laakirchen presso Linz e non immatricolato a Mauthausen. Gabriella Nocentini e Camilla Brunelli ipotizzano che anche altri 55 uomini giunti a Fossoli da Firenze e non risultanti negli elenchi ufficiali degli internati redatti nei campi di concentramento abbiano condiviso il destino di Righini: cfr. C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area di Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati, vol. II, B. Mantelli (a cura di), Deportati, deportatori, tempi, luoghi, Mursia, Milano 2010, p. 627. Torna al testo

Nota 41 F. Varini, Un numero un uomo, Fondazione Ex Campo Fossoli, Carpi 2001 (I. ed. 1982), p. 48. Torna al testo

Nota 42 Ivi, pp. 48-49. Da rilevare che Varini fa però riferimento anche alle prime partenze per Bolzano; infatti afferma che fra coloro che lasciarono Fossoli vi era Armando Maltagliati che fu trasferito a nel campo altoatesino. Torna al testo

Nota 43 Sulla vicenda dei rastrellati di Castel del Rio cfr. L. Raspanti, Castel del Rio 1944: storia di una deportazione in massa, estratto da «Pagine di vita e storia imolesi», 1 (1990), pp. 201-217. Inoltre Archivio Aned Imola. Torna al testo

Nota 44 Memoria scritta di E. Malpighi in Archivio Fondazione Fossoli (d’ora in poi AFFossoli), b. Testimonianze e ricordi, fasc. 17 e sue testimonianze in L. Bertucelli (a cura di), Deportati e rastrellati. Quindici interviste, in G. Procacci, L. Bertucelli (a cura di), Deportazione e internamento militare, cit., pp. 319-325 e in R. Clarelli, Violenza e memoria, cit., pp. 274-278, dove Malpighi chiama il campo di smistamento Salsenauer. Torna al testo

Nota 45 Testimonianza di R. Tintorri in L. Bertucelli (a cura di), Deportati e rastrellati, cit., pp. 339-340. Torna al testo

Nota 46 Cfr. i fascicoli personali contenuti nei fondi Baraldi e Associazione nazionale combattenti e reduci in Archivio Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Reggio Emilia (d’ora in poi AISTORECO). Torna al testo

Nota 47 Si veda il lavoro di R. Ropa svolto per la Fondazione Fossoli. Torna al testo

Nota 48 Cfr. ACS, MI, DGPS, Divisione affari riservati (d’ora in poi DAR), Massime, M4 Campi di concentramento 1944-1967, b. 15, fasc. Modena Campi di concentramento, sfasc. 5, relazione dell’ispettore di Ps Carlo Alberto Rossi, n. 143, 14 luglio 1944, Campo vecchio di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena). Scioglimento, all. 1, Internati prelevati il 13/7/44 dal comando tedesco al campo vecchio di concentramento di Fossoli di Carpi per avviarli al lavoro in Germania. Cfr. anche ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G IIGM, b. 66 (in copia presso AFFossoli), dove gli internati inviati in Germania risultano essere 41. Torna al testo

Nota 49 L. Casali, Deportazione dall’Italia, cit., pp. 392-393. Torna al testo

Nota 50 Cfr. ACS, MI, DGPS, DAR, Massime, M4 Campi di concentramento 1944-1967, b. 15, fasc. Modena Campi di concentramento, sfasc. 5, relazione dell’ispettore di Ps Carlo Alberto Rossi, n. 143, 14 luglio 1944, cit., all. 2, Internati italiani, reparto politici, del campo vecchio di concentramento di Fossoli di Carpi da rimettere in libertàTorna al testo

Nota 51 ACS, MI, DGPS, DAR, Massime, M4 Campi di concentramento 1944-1967, b. 15, fasc. Modena Campi di concentramento, sfasc. 5, relazione dell’ispettore di Ps Carlo Alberto Rossi, n. 143, 14 luglio 1944, Campo vecchio di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena). Scioglimento, all. 1, Internati prelevati il 13/7/44, cit. Torna al testo

Nota 52 I nominativi sono stati confrontati con l’anagrafe dei deportati politici in Il libro dei deportati, vol. I, G. D’Amico, G. Villari, F. Cassata (a cura di), I deportati politici 1943-1945, Mursia, Milano 2009. Torna al testo

Nota 53 Cfr. ACS, MI, DGPS, DAR, Massime, M4 Campi di concentramento 1944-1967, b. 15, fasc. Modena Campi di concentramento, sfasc. 5, relazione dell’ispettore di Ps Carlo Alberto Rossi, n. 143, Campo vecchio di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena). Scioglimento 14.7.1944 e Questura di Ferrara, Gab. N. 03499, Internati nemici del Campo vecchio di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena), 29.9.1944. Inoltre M. Minardi, Invisibili. Internati civili nella provincia di Parma 1940-1945, Clueb, Bologna 2010, pp. 192-193. Torna al testo

Nota 54 Archivio Istituto storico Parri Emilia Romagna (d’ora in poi AISPER), Fondo Collotti, b. 1, fasc. 2, Militärkommandantur 1012, Lagebericht 13.7.1944. Torna al testo

Nota 55 Cfr. le testimonianze in W. De Cesaris, La borgata ribelle, cit. e in A. Pavia, A. Tiburzi, I giorni del sole nero, cit., pp. 172-184. Anche il numero dei prigionieri è piuttosto vicino alla cifra solitamente citata per i deportati romani di 450 persone. Torna al testo

Nota 56 AISPER, Fondo Collotti, Leitkommandantur Bologna Militärverwaltungsgruppe Az. IB Tgb. Nr 124/44 geh., Lagebericht, 13 luglio 1944; ACS, Uffici e comandi militari tedeschi in Italia, Der Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD in Italien Leiter IV, Sofortaktion Dr. Schmelter, 22 luglio 1944; Fernschreiben Nr. 11975 a Gruppe Oberitalien West SS Standartenführer Rauff e AK Genua SS-Stubaf. Dr. Engel, 24 luglio 1944. Il trasporto dei prigionieri – circa 100 al giorno – doveva avvenire a carico del RuK e attraverso il Lager di Bolzano. Torna al testo

Nota 57 ACS, Uffici e comandi militari tedeschi in Italia, Fernschreiben Nr. 11975 a Gruppe Oberitalien West SS Standartenführer Rauff e AK Genua SS-Stubaf. Dr. Engel, 24 luglio 1944; su Harlinghausen cfr. L. Klinkhammer Una città sotto l’occupazione tedesca: il caso di Parma, in «Storia e documenti», 5 (1999) e i rapporti della MK di Parma in AISPER, Fondo Collotti. Torna al testo

Nota 58 ACS, Uffici militari e comandi tedeschi in Italia, b. 5, fasc. 6, sfasc. 9, Der BdS, Vermerk, 30 maggio 1944. Torna al testo

Nota 59 ACS, Uffici militari e comandi tedeschi in Italia, b. 5, fasc. 6, sfasc. 9, Bevollmächtigter General der Deutsche Wehrmacht in Italien, Chef der Militärverwaltung, Az. 5190A, Rundschreiben Nr. 246, 15 giugno 1944. Torna al testo

Nota 60 Memoriale avv. L. Elmo, marzo 1945 in AFFossoli, b. Testimonianze e racconti, fasc. 12. Sul campo di Bolzano cfr. L. Happacher, Il Lager di Bolzano, Comitato provinciale per il 30° anniversario della Resistenza e della Liberazione, Trento 1979; L. Steurer, La deportazione dall’Italia. Bolzano, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa, cit.; D. Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7982 storie individuali, Mimesis, Milano 2004; C. Villani, Il Durchgangslager di Bolzano (1944-1945), in Il libro dei deportati, vol. II, B. Mantelli (a cura di), Deportati, deportatori, tempi, luoghi, cit. Torna al testo

Nota 61 Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit. p. 390. Torna al testo

Nota 62 Cfr. Archivio curia vescovile di Carpi (d’ora in poi ACVCarpi), sezione IV, filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio Marassi; Archivio storico comunale di Carpi (d’ora in poi ASCCarpi), Campo di concentramento di Fossoli, b. 2, fasc. 18, sfasc. 1, ordinativi del Comune del 17-19.8.1944 e del Dulag 152, 19.8.1944. Torna al testo

Nota 63 ACS, MI, DGPS, DAR, Massime M4 Campi di concentramento 1944-1967, b. 15, fasc. Modena Campi di concentramento, sfasc. 5, Prefettura di Modena, n. 015286 Gab. PS, Campo di Concentramento di Fossoli di Carpi, 21.7.1944. Torna al testo

Nota 64 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., p. 384. Torna al testo

Nota 65 Ivi, pp. 384-386. Torna al testo

Nota 66 L. Klinkhammer, L’occupazione nazista e la società tosco-emiliana a cavallo della Linea Gotica secondo le fonti tedesche, in L. Arbizzani (a cura di), Al di qua e al di là della Linea Gotica. Aspetti sociali, politici e militari in Toscana e in Emilia Romagna, Regioni Emilia-Romagna e Toscana, Bologna-Firenze 1993, p. 292 e Id., L’amministrazione tedesca di Bologna e il crollo della Linea Gotica, in B. Dalla Casa, A. Preti (a cura di), Bologna in guerra 1940-1945, Franco Angeli, Milano 1995, p. 142. L’originale in ACS, Comandi militari e uffici tedeschi in Italia, b. 5, fasc. 6, sfasc. 1, BdS Italien, AK Bologna III D 5, rapporto del capitano delle SS Wetjen, 14.9.1944. Torna al testo

Nota 67 L. Klinkhammer, L’amministrazione tedesca di Bologna, cit., p. 143. Per il percorso della 16ª in Italia, la sua composizione e le stragi cfr. C. Gentile, Le SS di Sant’Anna di Stazzema: azioni, motivazioni e profilo di una unità nazista, in M. Palla (a cura di), Tra storia e memoria. 12 agosto 1944: la strage di Sant’Anna di Stazzema, Carocci, Roma 2003 e C. Gentile, Un’operazione di annientamento, in L. Casali, D. Gagliani (a cura di), La politica del terrore. Stragi e violenze naziste e fasciste in Emilia Romagna, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2008. Torna al testo

Nota 68 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., pp. 380-384. Le relazioni dell’amministrazione militare tedesca segnalano sempre anche il movimento dei profughi e danno indicazioni sulla loro dislocazione nelle città e nelle province. Cfr. per l’Emilia Romagna AISPER, Fondo Collotti. Torna al testo

Nota 69 L. Aquilano, 1944 - Vengono i tedeschi...ci prendono in casa”. I rastrellamenti, i campi di concentramento nell’area toscana, romagnola, bolognese. Prima ricognizione, Comitato regionale per le celebrazioni del 50° anniversario della Resistenza e della Liberazione Emilia-Romagna,Bologna 1995; C. Faietti, Un campo di concentramento a Bibbiano 1944, Tecnostampa, Reggio Emilia 1978. Torna al testo

Nota 70 L. Aquilano, 1944 - “Vengono i tedeschi ci prendono in casa...”, cit., pp. 29-30 e 39-40; L. Klinkhammer, L’amministrazione tedesca di Bologna, cit., p. 142; G. Salmi, Testimone dello spirito, Fondazione Gesù divino operaio, Bologna 2003, ripreso in Caserme rosse via di Corticella 147. Il Lager di Bologna 8 settembre 1943 – 12 ottobre 1944, Assemblea Legislativa dell’Emilia Romagna, Comune di Bologna, Quartiere Navile di Bologna, Provincia di Bologna, Anpi Bolognina, Comitato Unitario Democratico ed Antifascista della Bolognina e del Navile Comitato Pro-Rastrellati, Comunità Ebraica di Bologna, Bologna 2007. Torna al testo

Nota 71 C. Silingardi, M. Storchi, La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia, in G. Procacci, L. Bertucelli (a cura di), Deportazione e internamento militare in Germania, cit., p. 480 e G. Caroli, La deportazione dalla montagna reggiana, ivi, p. 509; C. Faietti, Un campo di concentramento, cit. Torna al testo

Nota 72 Ivi, pp. 34-36. Torna al testo

Nota 73 ACS, MI, DGPS, DAR, Massime M4 Campi di concentramento 1944-1967, b. 15, fasc. Modena Campi di concentramento, sfasc. 5, Ministero dell’Interno, Gabinetto alla Direzione generale di PS, 7.6.1944; ACS, MI, DGPS, DAR, Massime M4 Campi di concentramento 1944-1967, b. 15, fasc. Modena Campi di concentramento, sfasc. 5, l’ispettore generale di PS Lotti al Ministero dell’Interno, Vecchio Campo di concentramento di Fossoli di Carpi in Provincia di Modena, 13.4.1944 e l’ispettore generale di PS Rossi al Ministero dell’Interno, Campo di concentramento di Fossoli di Carpi,5.7.1944. La relazione di Lotti si trova in copia in ASCCarpi, Campo di concentramento di Fossoli, b. 1, fasc. 2. Torna al testo

Nota 74 L. Cavazzoli, La battaglia partigiana di Gonzaga, introduzione di L. Casali, Comune di Gonzaga, Gonzaga 1990 (I ed. Venezia, Marsilio, 1984), p. 64. Torna al testo

Nota 75 ACVCarpi, sezione IV, filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio Marassi. Torna al testo

Nota 76 Testimonianza di E. Silvestri in L. Bertucelli (a cura di), Deportati e rastrellati, cit., pp. 332-334, citazione a p. 332. Torna al testo

Nota 77 ACVCarpi, sez. IV filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio Marassi e sfasc. Relazione dell’opera caritativa a favore degli internati nel campo di Fossoli esercitata durante il periodo di guerra dal M.R. Prof. D. Tonino M. Gualdi segretario vescovile di Carpi, 27 aprile 1945. Torna al testo

Nota 78 Il diario di don Venturelli conferma che la permanenza dei rastrellati a Fossoli era breve; alla data del 1° agosto si legge: «Il Campo è ormai vuoto di Ebrei e di Internati politici funziona solo come passaggio o concentramento di poche ore per rastrellati». AFFossoli, b. Testimonianze e ricordi, fasc. 1. Torna al testo

Nota 79 Cfr. testimonianza rilasciata da Anonimo a R. Mira il 6 dicembre 2009. Altri testimoni intervistati nel corso della ricerca e memorie edite o presenti in archivi confermano le circostanze della selezione. Torna al testo

Nota 80 L. Aquilano, 1944 - Vengono i tedeschi...ci prendono in casa”, cit., pp. 26 e 29. Torna al testo

Nota 81 Cfr. testimonianza di U. Magli, in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. V, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1980, pp. 649-650 e testimonianza di M. Rossi (pseud.) rilasciata a chi scrive il 23 giugno 2004. Torna al testo

Nota 82 Le testimonianze raccolte concordano sulla modalità del trasferimento e sulla presenza di centri di smistamento in territorio austriaco o tedesco. Torna al testo

Nota 83 Cfr. ACVCarpi, sezione IV, filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio MarassiTorna al testo

Nota 84 Cfr. ASCCarpi, Fossoli, b. 1, fasc. 8, sfasc. 1, Comune di Carpi, prot. n. 10035, Consegna di denaro e carte varie, 20.11.1944 e sfasc. 2, Comune di Carpi, prot. n. 10099, Assistenza alle famiglie dei militi caduti il 20.11.u.s., 22.11.1944; ACVCarpi, sezione IV, filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio MarassiTorna al testo

Nota 85 Cfr. la testimonianza di I. Rosetti, in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. III, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1970, p. 618, dove però Rosetti afferma di essere entrata a Fossoli all’inizio di ottobre del 1944 e di esservi rimasta per tre mesi, quindi fino al gennaio 1945. Secondo l’interprete invece nessuno degli internati fuggì dal campo: cfr. ACVCarpi, sezione IV, filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio MarassiTorna al testo

Nota 86 ASCCarpi, Fossoli, b. 1, fasc. 9, sfasc. 2, copia della comunicazione trasmessa agli abitanti di Carpi; L. Cavazzoli, La battaglia partigiana di Gonzaga, cit., p. 62 e testimonianza di F. Rubini, comandante del presidio Gnr del centro di raccolta di Gonzaga ivi riportata, nota 84, pp. 62-63; Rubini era comandante del presidio della Guardia anche a Fossoli: cfr. ASCCarpi, Fossoli, b. 1, fasc. 8, sfasc. 2, Comune di Carpi, prot. n. 10099, Assistenza alle famiglie dei militi caduti il 20.11.u.s., 22.11.1944. Torna al testo

Nota 87 L. Casali, La deportazione dall’Italia, cit., p. 383 e nota 15; L. Cavazzoli, La battaglia partigiana di Gonzaga, cit. Torna al testo

Nota 88 Per Modena si vedano C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Franco Angeli, Milano 1998, p. 289 e E. Gorrieri, La repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, edizione a cura dell’Alpi, 1975 (I ed. il Mulino, Bologna 1966), pp. 437-442. Per Reggio Emilia cfr. A. Zambonelli, I 1170 civili deportati in Germania dalla provincia di Reggio Emilia, in «RS-Ricerche storiche», n. 94, 2002, pp. 103-106; G. Caroli, La deportazione dalla montagna reggiana, cit. e testimonianza di O. Ori ivi, pp. 513-517; F. Paolella, G. Caroli – C. Pignedoli, Tra le memorie del territorio reggiano, in Il libro dei deportati, vol. II, B. Mantelli (a cura di), Deportati, deportatori, tempi, luoghi, cit., pp. 508-516. Inoltre AISTORECO, Fondo Baraldi e Fondo Associazione Combattenti e reduci. Torna al testo

Nota 89 C. Faietti, Un campo di concentramento a Bibbiano, cit., pp. 34-36. Torna al testo

Nota 90 G. Fulvetti, Anche contro il clero? La strage della certosa di Farneta, in G. Fulvetti, F. Pelini (a cura di), La politica del massacro. Per un atlante delle stragi naziste in Toscana, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, pp. 194-200; Id. Una comunità in guerra. La certosa di Farneta tra resistenza civile e violenza nazista, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006 e N. Laganà, «Purtroppo sul nido d’implumi il nibbio fece la sua preda». Le tragiche conseguenze della notte tra l’1 ed il 2 settembre 1944 nella Certosa di Farneta (Lucca) secondo varie testimonianze, Edizioni S. Marco Litotipo, Lucca 2007, pp. 136-137 e 234-236. 21 sui 29 uccisi a Pioppetti e 17 su 37 uccisi a Massa erano stati fatti prigionieri alla Certosa. Torna al testo

Nota 91 Cfr. N. Laganà, «Purtroppo sul nido d’implumi il nibbio fece la sua preda», cit. pp. 137-139 e 234-236 e G. Fulvetti, Anche contro il clero?, cit., p. 202. Sulla permanenza a Fossoli e sulla liberazione di alcuni dei rastrellati cfr. ACVCarpi, sez. IV filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione dell’opera caritativa a favore degli internati nel campo di Fossoli esercitata durante il periodo di guerra dal M.R. Prof. D. Tonino M. Gualdi segretario vescovile di Carpi, 27 aprile 1945 e Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio MarassiTorna al testo

Nota 92 G. Parini, Medicina: 1919-1945. Fascismo, antifascismo e guerra di liberazione, Comune di Medicina, Medicina 1995, pp. 108 e 112-115. L’autore ricorda anche i nominativi di 19 donne arrestate e rapate sulla pubblica piazza dopo la manifestazione del 10 settembre e poi portate da Medicina alle Caserme Rosse. Torna al testo

Nota 93 G. Zappi “Mirco”, Antifascismo e Resistenza a Casalecchio di Reno, Anpi Casalecchio, Bologna 1988, pp. 199-239; S. Salustri, L’autunno nella Resistenza. 10 ottobre 1944, Casalecchio di Reno. La strage, il processo, la memoria, il Mulino, Bologna 2011. L’azione seguì la strage di Monte Sole, durante la quale, peraltro, furono catturati circa 450 uomini abili che furono consegnati agli uffici del servizio del lavoro di Bologna per essere trasportati in Germania a lavorare, probabilmente transitando per Fossoli. Cfr. BA-MA, RH 20-14/121, bollettino giornaliero Ic, 2.10.1944; L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, cit., p. 364; L. Baldissara, P. Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna 2009, pp. 234-245. Torna al testo

Nota 94 N. Galassi, Imola dal fascismo alla liberazione 1930-1945, Bologna University Press, Imola 1995, pp. 339 e 373; i rastrellamenti sono menzionati anche in BA-MA, RH 24-51/114 cfr. C. Gentile, Operazioni antipartigiane, rappresaglie, stragi in Italia 1943-1945, cit.; qui i tedeschi indicano in 120 gli uomini inviati all’Arbeitseinsatzstab di Bologna su 269 arrestati e in BA-MA, RH 2/669, rapporto Ic del 14 ottobre 44 dove notiamo che la cifra degli arrestati è di 500 persone, mentre secondo Galassi è di 2000. Torna al testo

Nota 95 Testimonianze raccolte in W. Romani, M. Maggiorani, Guerra e Resistenza a San Lazzaro di Savena, Aspasia, Bologna 2000, passimTorna al testo

Nota 96 Sulla vicenda cfr. R. Mira, S. Salustri, 21 ottobre 1944 – 21 ottobre 2004. Vigorso: la storia e la memoria, Comune di Budrio – Comune di Castenaso, 2004. Torna al testo

Nota 97 L. Broccoli, Il contadino e il partigiano. Antifascismo e guerra di liberazione a Castenaso, Anpi Castenaso, Castenaso 1990, pp. 143-144; A. Benetti, L. Broccoli, G. Ognibene, Castenaso: un contributo per la conquista della libertà e della democrazia (1900-1975), Edizioni APE, Bologna 1975, p. 161; A. Broccoli, La resa dei conti, Vangelista, Milano 1975, p. 200; G. Parini, Medicina, cit., p. 123 parla di due autocarri carichi di rastrellati. Torna al testo

Nota 98 BA-MA, RH 20-10/199, Frontaufklärungstrupp 373, Br. B. Nr. 115/44 gKdos., Tätigkeitsbericht für die Zeit v. 29.9. bis 27.10.44, all. 4 a Oberkommando der 10. Armee, Abt. Ic/AO (Abw.), Nr. 0120/44 gKdos., Tätigkeitsbericht des AO für Oktober, 8 novembre 1944. L’estensore della relazione parla di 193 civili arrestati di cui gran parte inviati al lavoro in Germania. Torna al testo

Nota 99 Testimonianza di U. Magli in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. V, cit., pp. 649-650; testimonianza di M. Rossi (pseud.) rilasciata a chi scrive il 23 giugno 2004. Torna al testo

Nota 100 Cfr. testimonianza di U. Magli in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. V, cit., pp. 648-649 e testimonianza di I. Dalle Donne, ivi, pp. 652-653. Torna al testo

Nota 101 G. Caroli, La deportazione dalla montagna reggiana, cit., p. 510. Torna al testo

Nota 102 Cfr. S. Salustri, La geografia del sostegno sanitario alla Resistenza e R. Mira, Il contributo di medici e paramedici, in M. Maggiorani (a cura di), Curare la Resistenza. Il servizio sanitario durante la lotta di Liberazione a Bologna 1943-1945, Anpi Bologna Editore, Bologna 2007. Torna al testo

Nota 103 Cfr. le testimonianze di T. Posteli, A. Businco, I. Rosetti, in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. I, Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1967 e vol. III, cit. Sul caso del radio vedere L. Bergonzini, La svastica a Bologna settembre 1943 – aprile 1945, il Mulino, Bologna 1998, pp. 121-127; N. S. Onofri, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), vol. I, Bologna dall’antifascismo alla Resistenza, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna “Luciano Bergonzini” (Isrebo) – Comune di Bologna, Bologna 2005, Operazione radio, pp. 189-194. Torna al testo

Nota 104 ACVCarpi, sezione IV, filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio MarassiTorna al testo

Nota 105 Testimonianza di I. Rosetti, in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, vol. III, cit., p. 618 e Archivio Aned Bologna, Documenti per indennizzi 1964. Torna al testo

Nota 106 Ordine di trasferimento da San Giovanni in Monte a Caserme Rosse riprodotto in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. I, cit., tavola fuori testo. Torna al testo

Nota 107 IbidemTorna al testo

Nota 108 N. Galassi, Partigiani nella Linea Gotica, Bologna University Press, Imola 1998, pp. 364-365. In A. Albertazzi, L. Arbizzani, N. S. Onofri, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), vol. III, Dizionario biografico D-L, Comune di Bologna – Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1986, ad nomen risulta che Laura Guazzaloca fu fucilata a Fossoli; secondo F. Montevecchi, La battaglia di Purocielo, Galeati, Imola 1987, p. 103, invece, ella morì a Fossoli di stenti. Forse fu ferita nel bombardamento del 20 novembre o nel mitragliamento che lo precedette, in cui a detta dell’interprete restarono ferite alcune donne internate, e decedette in seguito. Torna al testo

Nota 109 Testimonianza di E. Silvestri in L. Bertucelli (a cura di), Deportati e rastrellati, cit., pp. 332-334. È curiosa l’esperienza di Maria Volta, staffetta della 35ª brigata Rizzieri di Ferrara, arrestata in possesso di materiale, interrogata da un comando tedesco e trasferita con il marito e altri partigiani della brigata prima Fossoli, poi in Slesia al lavoro: cfr. documento riprodotto in A. M. Ori, Il Campo di Fossoli, cit., p. 44 con cui Maria Volta chiedeva il vitalizio all’Aned nel 1981. Nelle testimonianze rilasciate a Bergonzini negli anni Settanta del Novecento né Maria Volta né il marito menzionano il passaggio a Fossoli e parlano invece di deportazione politica in seguito a processo del tribunale tedesco: testimonianze di M. Volta e V. Sciabica in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, vol. V, cit., p. 813-816. I loro nominativi non compaiono ne Il libro dei deportati, vol. I, G. D’Amico, Giovanni Villari, Francesco Cassata (a cura di), I deportati politici, cit. Torna al testo

Nota 110 E. Collotti, Introduzione, cit., p. 13. L. Casali, La deportazione dall’Italia, cit., p. 390. A. M. Ori, dopo aver parlato di «800-1000 presenze al giorno, con permanenze tra le 24 e le 48 ore, un numero impressionante di passaggi» ha ridimensionato la cifra totale degli internati a 2000: cfr. A. M. Ori, Il Campo di Fossoli, cit., pp. 45-46 e Ead., Fossoli, dicembre 1943-agosto 1944, in Il libro dei deportati, vol. II, B. Mantelli (a cura di), Deportati, deportatori, tempi, luoghi, cit., p. 811. Torna al testo

Nota 111 Cfr. ACVCarpi, sezione IV, filza 55, fasc. Corrispondenza e informazioni tramite la S. Sede, sfasc. Relazione sul campo GBA (lavoratori coatti) anonima, ma di Antonio MarassiTorna al testo

Nota 112 IbidemTorna al testo

Nota 113 C. Faietti, Un campo di concentramento, cit.,p. 26. Torna al testo

Nota 114 G. Salmi, Testimone dello spirito, cit., ripreso in Caserme rosse, cit., p. 13. Torna al testo

Nota 115 L. Aquilano, 1944 – “Vengono i tedeschi ci prendono in casa...”, cit., p. 24. Torna al testo

Nota 116 Testimonianza di N. Viti in L. Cavazzoli, La battaglia partigiana di Gonzaga, cit., pp. 64-65, nota 88. Torna al testo

Nota 117 L. Klinkhammer, L’occupazione nazista e la società tosco-emiliana, cit., p. 288 e Id., Una città sotto l’occupazione tedesca, cit., pp. 54-55. Per la primavera del 1944 si vedano anche le cifre indicate da B. Bolognesi, Diari di un deportato (25 luglio 1943 – 26 luglio 1945), a cura di A. Cegna, Affinità elettive, Ancona 2004. Torna al testo

Nota 118 ACS, Comandi militari e uffici tedeschi in Italia, b. 5, fasc. 6, sfasc. 1, BdS Italien, AK Bologna III D 5, rapporto del capitano delle SS Wetjen, 14 settembre 1944. Torna al testo

Nota 119 L. Bertucelli, La deportazione in provincia di Modena, in G. Procacci, L. Bertucelli (a cura di), Deportazione e internamento militare, cit., p. 285-286. Torna al testo

 

 

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Sonia Residori, L’ultima valle. La Resistenza in val d’Astico e il massacro di Pedescala e Settecà (30 aprile-2 maggio 1945), Cierre Edizioni - Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea della provincia di Vicenza, Sommacampagna (VR) 2015, pp. XX-345

(Luciano Casali)

 

Una strage impunita, una memoria divisa



1. Pedescala e Settecà sono due paesi della val d’Astico, in provincia di Vicenza, che, durante gli ultimi giorni di guerra — fra il 30 aprile e il 2 maggio 1945, quando altrove si festeggiava già la Liberazione —, furono teatro di eventi sanguinosi. «In un feroce massacro furono uccise dalle truppe tedesche in ritirata 82 persone [più esattamente: 63 a Pedescala e 19 a Forni-Settecà, pp. 323-325], in maggioranza civili, comprese nove donne e il giovane parroco di Pedescala, don Fortunato Carlassare» (p. 5) (Nota 1).
Immediatamente dopo la liberazione, il 6 maggio, l’ufficiale britannico Christopher M. Woods inviava un rapporto alla commissione alleata per i crimini di guerra e il giorno 7 fu formalizzata la creazione di una commissione di indagine che iniziò a interrogare i testimoni per far luce sulle stragi. Il 2 maggio 1946 tutto il materiale raccolto fu inviato al governo italiano, ma il fascicolo finì — come tanti altri — nel cosiddetto “Armadio della vergogna” e dimenticato per decenni nei locali della Procura generale militare a Palazzo Cesi, a Roma.
La ferocia degli avvenimenti è facilmente deducibile dalle dichiarazioni agli inquirenti americani di don Emilio Campi, arciprete di Arsiero:

A Pedescala, giudicando dagli atti dei tedeschi, ogni segno d’umana decenza era scomparso. La scena non può essere descritta adeguatamente. La distruzione sembrava essere stata fatta senza alcuno scopo se non quello della distruzione fine a se stessa. Tutti i segni della civiltà umana erano scomparsi. Era pura bestialità. (p. 282).

Ma era stato lo stesso Christopher Woods a dare il segno dello sgomento che quegli avvenimenti provocavano:

Essi uccisero tutti quelli che trovavano per le strade, entrarono nelle case e costrinsero il rimanente della popolazione ad uscire e li obbligarono a portare i corpi nelle case. Dopo di ciò essi chiusero le porte e bruciarono le case (p. 6).

La val d’Astico era diventata, dopo la liberazione di Vicenza da parte degli Alleati, la strada obbligatoria, in pratica l’unica, lasciata ai tedeschi per tentare di fuggire verso il Brennero e il nord e, negli ultimi giorni dell’aprile 1945, fu un continuo passaggio di truppe, sia fascisti repubblicani che della Wehrmacht. Si trattava di unità a volte ancora in perfetta efficienza, organizzate e guidate dai loro ufficiali, ma anche di «reparti operativi logorati da lunghe ed estenuanti campagne di guerra», o gruppi eterogenei formatisi per aggregazione spontanea e casuale di uomini dispersi o sbandati. In ogni caso e per tutti era essenziale «il controllo del territorio, la messa in sicurezza della zona attraversata in una situazione di difficoltà militare com’è il ripiegamento» (p. 197).
Su ciò che accadde a Pedescala non ci troviamo di fronte a una memoria condivisa né a un racconto concorde da parte degli abitanti, sia dei pochi ancora viventi dopo settanta anni, sia delle generazioni successive.

A Pedescala si era formata una memoria orale, avallata anche da giornalisti del salotto buono televisivo, secondo la quale la strage sarebbe stata originata dall’uccisione di un certo numero di soldati tedeschi, in seguito a un agguato partigiano contro le truppe germaniche che si stavano ritirando, desiderose solamente di tornare a casa, dal momento che la guerra era già terminata. In modo arbitrario si faceva terminare prima del tempo un conflitto […], si trasformava il soldato tedesco da carnefice in vittima sacrificale (p. 9).
Identificarono un colpevole, un capro espiatorio… e non c’è dubbio che i partigiani […] si prestassero molto a incarnare quel ruolo, diventando la causa prima del massacro (p. 11).

Non andò tuttavia come parte dell’opinione pubblica ancora oggi racconta, quella parte che nei paesi ritiene i partigiani “responsabili” di quelle stragi. Ma, se «fosse stato ucciso un militare tedesco, i suoi commilitoni ne avrebbero raccolto il corpo, si sarebbero premurati di darne notizia alle famiglie e ai propri superiori […].  Il Deutsche Dienststelle di Berlino ne conserverebbe traccia, ma non avrebbe avuto molto importanza perché la rappresaglia, la ripulitura del territorio, era già stata decisa» (p. 230). I partigiani non avevano attaccato i militari in fuga, ma per questi era necessario potersi allontanare dagli Alleati, che avanzavano, quanto più rapidamente e “tranquillamente” che fosse possibile «proteggere e agevolare l’azione militare vera e propria […], la risalita sull’Altopiano di Asiago, mediante un’operazione di pulizia del territorio» (p. 305).

2. Quelle vicentine non furono le sole stragi compiute sul finire della guerra, le uniche “stragi dell’ultimo giorno“.
Fra il 24 e il 25 aprile 1945 nel Parmense almeno 59 persone furono massacrate dall’esercito tedesco in ritirata e costrette a seguire forzosamente l’unica via di fuga che era rimasta parzialmente aperta verso il nord e il fiume Po. Ma sul conto di queste stragi non esistono né inchieste né tantomeno processi. Anche in questo caso non ci furono azioni partigiane a determinare una “risposta” da parte nazista e dei militari in fuga, ormai consapevolmente sconfitti, ma che avevano «interiorizzato quella “mentalità stragista” imposta dai comandi». O, come la ha definita Lutz Klinkhammer, un «intreccio di istigazione dall’alto e disponibilità ad uccidere a livello subordinato» (Nota 2).
Anche in questo caso ci si trovò di fronte a

donne e bambini uccisi senza pietà e con crudele freddezza, bombe a mano lanciate a caso nelle abitazioni, contadini colpiti senza ragione, uccisi nelle loro case, nei campi e nelle stalle […], percossi con pugni e con i calci dei fucili; una violenza mai vista in quelle zone (Nota 3).

Anche per il Parmense la “ripulitura del territorio” era stata decisa previamente e anche nel Parmense — come, negli stessi giorni, nel Vicentino — l’esercito tedesco in ritirata avanzava «con i civili portati come ostaggi, costretti a camminare in una lunga processione davanti e dietro le truppe», come scrive  (p. 197) Sonia Residori e conferma Marco Minardi (p. 286), sottolineando così una particolare coincidenza di metodi nel comportamento terroristico portato avanti nelle due diverse regioni.
Esiste tuttavia una differenza di fondo, in quanto nel Parmense esiste «un tratto di intimità (…) tra la memoria di quegli eventi e la comunità» e i luoghi degli eccidi costituiscono  “luoghi della memoria”, di una memoria condivisa fra la popolazione (Nota 4). Nel Vicentino ci troviamo di fronte  a una querelle piuttosto astiosa, come ricorda Emilio Franzina, «a cui avevano dato la stura figure e comitati paesani di parenti o discendenti degli uccisi» che già nel 1983 avevano rifiutato la Medaglia d’argento al valor militare proposta a Pedescala dal presidente Pertini, «con la motivazione che i partigiani avrebbero “aizzato la rabbia dei tedeschi” prima sparando loro contro e poi sparendo, ossia dileguandosi dal teatro degli avvenimenti all’atto del massacro», dividendo così famiglie, quartieri, paesi (Nota 5). Aiutati in questo dall’orribile libro (privo di qualsiasi validità storiografica e di una seria ricerca documentaria) di Paolo Paoletti, che, nel 2002, egualmente accusava i partigiani di essere i “responsabili” degli avvenimenti di Pedescala (Nota 6).
A Parma, monumenti e lapidi, voluti dalle piccole comunità, si trovano anche nelle frazioni in cui si consumarono le stragi, mentre nei comuni della bassa sono i cippi posti sui luoghi degli eccidi a ricordare le vittime del 25 aprile e non c’è un “rifiuto” né della Resistenza né dei partigiani. Anzi: si tratta di zone in cui proprio l’influenza delle brigate partigiane aveva condotto a una decisa egemonia politica ed elettorale del partito comunista.

3. Nel Vicentino regnò sin dall’inizio del post-liberazione una situazione non semplice, in continuazione di quanto era accaduto a lungo nelle formazioni partigiane locali che erano state fortemente infiltrate di spie, provocatori, agenti più o meno segreti: «Nel dopoguerra gli interrogatori degli uomini di Carità, resi alla magistratura delle Corti d’Assise straordinarie, fornirono un quadro dell’elevata penetrazione nelle file partigiane» e anche gli uomini legati alle Sd «furono in grado di infiltrarsi un po’ in tutte le brigate partigiane» (p. 164). Molto più e più profondamente — per quanto ne sappiamo — di quanto avvenne in altre zone del centro-nord.
Fu un clima generale che si ripeté al momento delle indagini che tentarono di ricostruire ciò che era avvenuto nei giorni delle stragi:

In realtà le indagini per la ricerca dei colpevoli del massacro furono caratterizzate fin dall’inizio da deviazioni e manipolazioni di indizi e sospetti. Troppi agenti dei servizi segreti erano presenti sulla scena dei massacri di Pedescala e Settecà: i fratelli Caneva con alcuni componenti della Banda Carità, Victor Piazza probabilmente assieme al gruppo di [fascisti] toscani di stanza a Rovereto aggregati al kommando Andorfer, Alberto Sartori sotto le spoglie di partigiano del quale nessuno o quasi dubitava… tutti impegnati a mettere in evidenza le proprie capacità di poter essere riutilizzati [come agenti e spie] una volta finita la guerra (p. 306).

Ciò che soprattutto ci ha meravigliato, leggendo il libro di Residori, è stata la moltiplicazione nel Vicentino di archivi personali, spesso composti di documenti falsi, falsificati o attentamente costruiti a posteriori, manipolando fotocopie e originali e tutti comunque tali da indurre in errori anche macroscopici aspiranti storici e studiosi locali, oltre che di apparire con titoli di scatola sui quotidiani che davano spazio enorme a presunti scoop. Ma in quelle trappole dei falsi documenti cadde anche «uno studioso pur non sprovveduto e dell’acribia, in altri frangenti sperimentata, del compianto don Pierantonio Gios» (Nota 7). E la presenza di personaggi che, con un eufemismo, possiamo definire ambigui non aiutò certo a comprendere fino in fondo gli avvenimenti.
Fra tutti spicca Alberto Sartori, sul quale crediamo che varrebbe la pena di condurre una attenta ricerca biografica per riuscire a comprendere quale fu veramente il suo ruolo non solo nel 1943-1945, ma anche e soprattutto negli anni successivi. Se leggiamo la sua biografia (1917-2015) che si incontra in Internet, ci viene raccontato di trovarci di fronte a un uomo fortemente impegnato nel partito comunista fin da giovanissimo, capo di una missionealleata paracadutata nell’agosto 1943 in Piemonte, comandante e commissario di brigate partigiane; una attività “eroica” che gli meritò la Medaglia d’argento al valor militare (Nota 8). Nulla o quasi nulla di tutto ciò è vero o è “completamente” vero, tranne la decorazione al valor militare. Non ci interessa particolarmente — anche se varrebbe la pena saperlo con più particolari— ciò che fece una volta finita la Seconda guerra mondiale, a partire dalle sue strette relazioni con Giovanni Ventura, il neofascista accusato di aver compiuto la strage di Piazza Fontana il 12 dicembre 1969, o l’essere stato probabilmente agente del servizio tedesco Bundesamt für Verfassungsschtz. Nell’agosto 1938 aveva ottenuto il passaporto grazie alle “amicizie” con dirigenti fascisti come Nino Dolfin e Filiberto di Savoia-Genova duca di Pistoia e si era recato a Parigi, dove — secondo quanto egli stesso affermava, ma non ne abbiamo le prove — entrò in contatto con esuli comunisti. Ciò che sappiamo è che si arruolò nella Legione straniera dove rimase fino al novembre 1940. Della Missione alleata Costa, di cui ha sempre affermato di aver fatto parte, non si trovano tracce negli archivi e il suo ingresso nella Resistenza quasi certamente avvenne dietro sollecitazione degli Alleati per potere riferire loro dall’interno. Un personaggio che definire “ambiguo” costituisce un eufemismo e al quale si dovettero non pochi dei dissapori che si crearono in val d’Astico dopo il 1945.
E non va dimenticato Gianni Marostegan, partigiano della Pasubiana, emigrato in Argentina nel 1947 e rientrato nel 1975, che, alla fine degli anni Novanta mostrò «una notevole capacità di manipolare le persone  e la stampa» attraverso una «voglia di protagonismo» esplosa in lui a tarda età assieme  al «rancore mai sopito nei confronti ai altri partigiani» (p. 308).
Anche se a Pedescala numerosi furono i partigiani, specialmente fra gli alpini reduci dalla campagna di Russia, e nel centro del paese un bunker sotterraneo (era stato costruito durante la Grande guerra) nascondeva il Comando della brigata Pasubiana, il magazzino viveri e le armi — segno evidente di una diffusa solidarietà popolare —; non mancarono le contraddizioni. Né va dimenticato che le brigate Garibaldi non riuscirono sempre ad avere una accoglienza favorevole per l’eccesso di segni esteriori comunisti che troppo spesso le caratterizzò, nonostante le sollecitazioni dei comandi ai combattenti a non sbandierare appartenenze di partito, ma a sottolineare la loro appartenenza agli organismi unitari della lotta di Liberazione.
Come scrive Sonia Residori,

il comunismo allora si presentava come ateo e sovversivo, ma soprattutto come un’altra dittatura, del proletariato ovvero delle frange più deboli della società, tesa a una più equa giustizia sociale, ma sempre di dittatura si trattava. A molti giovani, per preparazione culturale o per carattere, doveva apparire paradossale dover combattere contro un regime, che aveva arrecato tante ferite e danni alla società italiana come quello fascista, con il pericolo di subirne un altro non meno terribile. La svolta di Salerno di Togliatti non era riuscita — ma neanche poteva farlo — a tranquillizzare la coscienza di chi combatteva nelle fila della Resistenza per motivi diversi da quelli dell’idea comunista (pp. 110-111).

Si trattò di una serie di incertezze e di contraddizioni che si moltiplicarono nella Valle.
I sopravvissuti alla strage raccolsero accuratamente e conservarono tutte le tracce che gli assassini avevano lasciato durante la loro permanenza nei paesi che si era protratta per due giorni:

Era [stata] la gente di Pedescala, i sopravvissuti, a raccogliere tutto il materiale abbandonato dai massacratori che si erano installati nel paese per ben due giorni, mangiando e dormendo tra l’odore acre di fumo misto a quello di carne bruciata. Su quelle lettere e su quei documenti stavano scritti i nomi e i cognomi, talvolta anche l’indirizzo di casa, di coloro che avevano commesso un crimine così atroce […]. Eppure non sono mai stati perseguiti o ascoltati per una deposizione, nonostante le indagini svolte per anni dalla magistratura militare. Nessuno ha mai creduto che quel materiale fosse appartenuto ai massacratori, nessuno ha mai creduto alle vittime (p. 302).

Si diffuse così e si consolidò una «astiosa divisione» (come la definisce Franzina) (Nota 9) fra una parte di coloro che avevano perduto i loro cari nelle stragi e i protagonisti della Resistenza, dividendo in tal modo famiglie, quartieri e paesi.

4. La fatica di Sonia Residori per ricostruire le vicende partigiane della Valle e le realtà sulla strage è stata notevole e le è stato necessario attingere «robustamente» a fonti di prima mano raccolte in Italia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, misurandosi a più riprese «con la frequente aleatorietà di memorie, post-memorie e testimonianze» italiane delle quali è stato necessario diffidare il più delle volte «per fondate ragioni» (Nota 10).
Abbiamo già accennato alla falsificazione e costruzione di fonti che ha caratterizzato la val d’Astico e vanno ricordati le pubblicazioni e i libri che sono stati scritti basandosi su tali “fonti”. Non è necessario insistere particolarmente sulla moralità di tali operazioni, che hanno contribuito profondamente a dare vita a “memorie” non certo connesse con la realtà degli avvenimenti; va anche ricordata la assoluta mancanza di metodo storico in coloro che hanno usato “fonti” palesemente falsificate senza sottoporle al necessario vaglio critico. Tuttavia va anche tenuto presente che, recentemente, anche la Corte di Cassazione ha dettato una sentenza nella quale si prende in esame accuratamente la questione della “verità” nelle pubblicazioni e del metodo di “scrivere la storia”.
Vale la pena — anche se si tratta di una citazione abbastanza lunga — considerare che cosa è stato scritto:

La nozione di critica storica è stata oggetto di elaborazione soprattutto da parte delle sezioni penali di questa Corte di legittimità; ma può accettarsi anche ai fini civilistici che l’espressione di un giudizio di critica storica esige la ricorrenza di un metodo scientifico d’indagine, mediante l’accurata, se non esaustiva, raccolta del materiale utilizzabile e lo studio delle fonti dalle quali esso è stato prelevato, la correttezza od l’appropriatezza di linguaggio, l’esclusione di attacchi personali o polemici: affinché l’indagine storica assuma il carattere scientifico è necessario, tra l’altro, che le fonti siano esattamente individuate, che esse siano varie, che esse siano interpellabili o riscontrabili, che il fenomeno che si vuole studiare sia ampio e riguardato sotto le più varie sfaccettature e, in sostanza, che la ricerca, la raccolta e la selezione del materiale da sottoporre a giudizio, sia la più completa possibile (per tutte: Cass. Pen.,11 maggio/29 settembre 2005, n.34821, Lehner ed altro) […].
In altri termini (Cass. Pen., 8 gennaio/2 aprile 2015, n. 13941, Ciconte), nella ricostruzione “storica” la “verità” o la ragionevole e probabile verosimiglianza […] pretende una più attenta denunzia e una più accurata verifica delle fonti; è perciò lo stesso uso di una “fonte” singola o di fonti parziali, come “notizia” o fatto o perfino mera voce corrente, che, non rispondendo più ad alcun bisogno o interesse attuale, non può ritenersi consentito o comunque non sufficiente a scriminare la ricostruzione obiettivamente diffamatoria.
E se è vero che per nessuna “storia” raccontata può richiedersi che sia del tutto imparziale perché anche la semplice connessione dei dati è operazione eminentemente soggettiva, comunque requisito minimo di un resoconto “storico”, non soggetto all’impellenza della cronaca, è tuttavia la completezza e l’affidabilità dei dati che lo compongono (v. Cass. Pen. n.8042 del 15 dicembre 2005/7 marzo 2006, Perna ed aa.) e su cui esso si regge: affidabilità, con tutta evidenza, commisurata alla riscontrabilità obiettiva delle fonti utilizzate (Nota 11).

Ovviamente non possiamo pensare di fare ricorso alle aule dei tribunali per verificare se un libro o una ricostruzione sono tali da obbedire alle regole della ricerca e della scrittura storica: spetta agli studiosi e ai ricercatori giudicare, ma soprattutto spetta a chi vuole scrivere di storia attenersi alle “regole” che la scienza storica presume. Sono opportune le precisazioni di Giuseppe Palma: «Il giudice non può mai entrare nel merito dell’ipotesi scientifica avanzata dall’Autore [...]. Se lo facesse, minerebbe i fondamenti stessi dello Stato democratico». È quindi compito della «comunità scientifica di riferimento […] confutarne l’ipotesi scientifica con un lavoro di segno anche parzialmente opposto» (Nota 12).
Si tratta comunque di operazioni non sempre semplici e non sempre esistono le possibilità di discriminare nettamente le opere “scientifiche” da quelle “non scientifiche”. Spesso vengono considerate “storiche” anche le opere «di dilettanti senza né arte né parte» solo perché scrivono del passato e vantano l’uso, più o meno corretto, di qualche fonte, senza tuttavia per questo diventare «affidabili» (Nota 13).
Tutto ciò per troppe volte è accaduto nel Vicentino e questo ha lasciato tracce consistenti per quanto concerne la conoscenza diffusa degli avvenimenti e soprattutto nella memoria degli abitanti di val d’Astico. Così che il ricordo degli avvenimenti del 1943-1945 non sempre coincide con la realtà degli avvenimenti stessi.

Il lavoro di Sonia Residori, dunque, oltre che particolarmente complesso, di fronte alla necessità di analizzare e leggere criticamente “fonti” e testimonianze tutt’altro che affidabili, ha anche un altro merito, che non va sottovalutato né dimenticato. Giungendo infine a delineare con affidabilità e precisione ciò che accadde, è giunta ad una ricostruzione che mira a onorare «il vecchio mestiere di storico e la memoria stessa di tante vittime innocenti» (Nota 14).

 

NOTE:

Nota 1 Una puntuale ricostruzione in Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia:Pierluigi Dossi, Pedescala Valdastico, 30.4.1945-2.5.1945 [http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4680] e Id., Forni-Settecà, 30.4.1945-2.5.1945 [http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4683]. Torna al testo

Nota 2 Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-1944), Donzelli, Roma 1997, p. 140. Ma vedi anche Friedrich Andrae, La Wermacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma 1995. Utile la messa a punto sul dibattito relativo alla partecipazione alle stragi di tutti i reparti armati tedeschi in Massimo Storchi, Anche contro donne e bambini. Stragi naziste e fasciste nella terra dei fratelli Cervi, Imprimatur, Reggio Emilia 2016, pp. 7-39. Torna al testo

Nota 3 Marco Minardi, Stragi dell’ultimo giorno, in Luciano Casali, Dianella Gagliani (a cura), La politica del terrore. Stragi e violenze naziste e fasciste in Emilia Romagna, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2008, pp. 281, 285. Torna al testo

Nota 4 Ivi, p. 288. Torna al testo

Nota 5 Emilio Franzina, Prefazione, in S. Residori, L’ultima valle, cit., pp. IX-X. Torna al testo

Nota 6 L’ultima vittoria nazista. Le stragi impunite di Pedescala e Settecà 30 aprile 1945 – 2 maggio 1945, Menin, Schio (VI) 2002. A quanto pare il Paoletti si era specializzato in quegli anni a “ricostruire”, sempre in maniera provocatoria e scientificamente inaffidabile, alcune delle stragi nazifasciste in Italia; cfr. ad esempio La strage di Fossoli 12 luglio 1944, Mursia, Milano 2004. Torna al testo

Nota 7 E. Franzina, Prefazione, cit., p. XIII. Torna al testo

Nota 8 http://www.anpi.it/donne-e-uomini/1784/alberto-sartoriTorna al testo

Nota 9 E. Franzina, Prefazione, cit., p. X. Torna al testo

Nota 10 Ivi, p. XI. Torna al testo

Nota 11 Corte di Cassazione, Civile, Sez. 3,  Sentenza n. 6784 del 22 dicembre 2015, Anno 2016, Presidente Salmè Giuseppe, Relatore De Stefano Marco, Data di pubblicazione: 7 aprile 2016; leggibile e scaricabile in www.italgiure.giustizia.it. Torna al testo

Nota 12 Giuseppe Palma, Le principali differenze giuridiche tra le pubblicazioni di carattere scientifico (art. 33 comma I della Costituzione) e quelle strettamente attinenti all’espressione del libero pensiero (art. 21 comma I della Costituzione, in «Diritto Costituzionale», 11 giugno 2013. Torna al testo

Nota 13 Ivo Mattozzi, Il venditore di storie e lo storico, in Dianella Gagliani (a cura), Fascismo/i e Resistenza. Saggi e testimonianze per Luciano Casali, Viella, Roma 2015, pp. 225-226. Torna al testo

Nota 14 E. Franzina, Prefazione, cit., p. XVII. Torna al testo

 

 

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