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Enza Pelleriti, «Italy in transition». La vicenda degli Allied Military Professors negli Atenei siciliani fra emergenza e defascistizzazione, Bonanno editore, Catania 2013, pp. 439

(Simona Salustri)

 

Il libro di Enza Pelleriti affronta per la prima volta in maniera articolata il tema della defascistizzazione delle università siciliane dopo la caduta del fascismo. Come già ricordava Mariuccia Salvati in un suo saggio del 2001 dal titolo Amnistia e amnesia nell’Italia del 1946, in Italia la storiografia ha trattato a fasi alterne le vicende connesse al processo di transizione intercorso tra il fascismo e il periodo repubblicano, a volte travolta dalla contingenza politica, altre stimolata dall’accesso a nuove fonti. Solo nell’ultimo ventennio si è però allargato il campo, come suggeriva Claudio Pavone, allo studio della continuità degli individui più che ai processi normativi e istituzionali. Tale aspetto risulta anche il più interessante per approfondire la reale portata dell’irreggimentazione impressa dal fascismo.
È in quest’ottica che deve essere letto il lavoro di Pelleriti, ricco di spunti interpretativi e di suggerimenti di analisi, fondato su un’ampia ricerca archivistica in fondi locali e nazionali e su documenti in larga parte inediti riportati nell’utile appendice che occupa la seconda parte del volume. Di fatto l’Autrice avvalora una tesi già nota, ovvero quella della continuità dello Stato e della mancata epurazione italiana sia per ciò che concerne gli aspetti burocratico-normativi, sia per quanto riguarda un’auspicata riforma dell’assetto universitario ereditato dal regime fascista, senza dimenticare i protagonisti dell’alta cultura e la loro capacità di rimanere nei rispettivi ruoli, muovendosi tra le falle legislative. Nel testo si trova anche conferma dell’azione degli americani e degli inglesi, entrambi impegnati, sia pure con modalità diverse e con risultati limitati al tempo della gestione diretta del territorio italiano, ad imprimere un cambiamento all’assetto burocratico e al settore educativo della Penisola.
L’utilità del libro è ben altra e la si può cogliere sin dall’articolazione del volume. È infatti importante come Pelleriti scelga di dedicare il primo capitolo alla ricostruzione della fascistizzazione degli Atenei siciliani per fornire al lettore tutti gli elementi utili ad inquadrare la situazione accademica e per valutare al meglio l’attività svolta dai governi alleati, attraverso la costituzione dell’Education Subcommision prima e la creazione degli Allied Military Professors poi, temi al centro rispettavemente del secondo e del terzo capitolo. Senza allargare l’indagine agli anni Trenta sarebbe di fatto più complicato comprendere le difficoltà che si frapposero tra la complessa realtà accademica italiana e gli intendimenti alleati, e come i tanti compromessi raggiunti fossero l’unica strada per evitare il completo collasso del paese. Gli anglo-americani avevano alla base della loro azione un concetto ben preciso di educazione intesa come fine ultimo dell’istruzione, sostanzialmente agli antipodi del modello mussoliniano perfettamente rappresentato dal cambio del nome del Ministero della Pubblica istruzione in Ministero dell’Educazione nazionale nel momento in cui il regime impresse una evidente accelerazione alla costruzione dell’uomo nuovo fascista. La pedagogia anglosassone, incarnata nel momento della liberazione da uomini quali il colonnello George Robert Gayre, antropologo a Oxford, doveva essere il fondamento sul quale educare gli italiani in modo da eliminare il fascismo ed importare in Italia principi democratici sui quali sarebbero cresciuti i cittadini post-fascisti.
Alla luce di ciò che era stata la dittatura e di quale era stato il reale consenso degli italiani al regime, in campo strettamente educativo l’idea alleata sembrava quanto mai inappropriata e inapplicabile al paese; nel settore specifico dell’epurazione universitaria l’impossibilità di introdurre tout court un modello alternativo era ancor più evidente. Come sottolinea Pelleriti, gli anglo-americani si resero ben presto conto di dover fare i conti con una macchina complessa, quella gestita dagli accademici siciliani e fondata su relazioni consolidate. Un ingranaggio con il quale avrebbero necessariamente dovuto “negoziare” attraverso accordi singoli, anche in attesa di una generale evoluzione normativa. Questo elemento ci porta ad evidenziare un ulteriore aspetto che rende interessante il volume: l’Autrice ci mostra come la Sicilia sia stata una sorta di laboratorio nel quale sperimentare pratiche inedite, ma anche una regione dove con il passare del tempo queste pratiche passarono dall’essere emergenziali a costituire la norma utile alla salvaguardia dei poteri preesistenti. È il caso qui ricostruito degli AM Professors (docenti chiamati a sostituire i colleghi sottoposti a giudizio epurativo), unici nella realtà peninsulare ed esempio evidente di un processo di cooptazione universitaria che molto risentì delle interferenze locali e della successiva incapacità dei governi italiani di stabilire norme certe per la loro stabilizzazione.
Le stesse interferenze, sul piano opposto, si ritrovano nei procedimenti di defascistizzazione. Questo aspetto emerge quando l’Autrice affronta il tema dell’epurazione dei tre Atenei partendo dalla rimozione dei rettori e dei presidi fino ad arrivare agli ordinari e agli altri ruoli. Le indagini che portarono alla sospensione scandagliarono tutti gli aspetti della vita dei sospettati, non solo quelli relativi all’attività pubblica, ma anche quelli che potevano rientrare nella sfera privata per meglio individuare comportamenti che fossero il segnale di una vicinanza o, ancor peggio, di una condivisione dell’ideologia fascista. Vita privata e relazioni professionali furono dunque passate al setaccio, a comporre un quadro sui singoli docenti che basava le sue fondamenta non solo sulla autocertificazione compilata dai singoli e su indagini specifiche, ma anche su denunce in larga parte anonime e dichiarazioni a favore dei docenti compromessi. Un simile approccio all’indagine, con il peso assunto al suo interno dalle reti di relazione, determinò una certa discrezionalità nell’allontanamento dei professori da parte degli alleati che non fu certamente eliminata dai governi italiani, segnati nella loro attività dal rapido cambiamento dello scenario politico internazionale, oltre che dall’incapacità, e in alcuni casi dalla non volontà, di fare i conti con il passato regime.
Le singoli commissioni epurative in sede nazionale, così come l’Alto commissariato per l’epurazione, finirono per preferire la via più semplice del collocamento a riposo, salvo poi, nel giro di pochi anni, assistere al reintegro in servizio di alcuni dei personaggi più compromessi con il regime fascista.
In conclusione il volume di Pelleriti è senza dubbio un tassello importante per la storiografia dedicata alla defascistizzazione universitaria, ancora in larga parte da approfondire, e più in generale ci offre uno spaccato sulla transizione dal fascismo all’età repubblicana, segnata dalla continuità dello Stato e della rapida rimozione del passato.

 

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