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Paola Magnarelli

Vite separate delle donne di Belli

 

Le donne hanno avuto uno spazio ampio e privilegiato nella vita e nell'opera del grande poeta romano Giuseppe Gioachino Belli (Nota 1). Non sempre, nella vita reale, si trattò di relazioni completamente soddisfacenti, ma vi fu anzi campo aperto a delusioni inflitte al poeta da un buon numero delle donne più amate: dal secondo matrimonio della madre, che si risposò dopo una breve vedovanza con un giovane che a Belli non piacque mai, fino al garbato rifiuto (se si può usare un termine così esplicito per descrivere una relazione che non fu mai tale) dell'ultimo grande amore, l'attrice drammatica Amalia Bettini (Nota 2), conosciuta poco prima della morte della moglie. In fondo, anche la buona Maria, la moglie compiacente, gli giocò un brutto tiro morendo improvvisamente nel 1837 e lasciandolo praticamente privo di mezzi di sussistenza, così come lo aveva trovato sposandolo –  lui venticinquenne, lei agiata vedova trentottenne – venti anni prima.
Se nei rapporti con le donne "vere" Belli mostrò atteggiamenti complessi, che vanno dalla passione all'affetto e alla stima, con venature talvolta di amicizia paritaria e addirittura di cameratismo – tratti, questi ultimi, non certo comuni nel tempo e nell'ambiente in cui visse – diverso è il discorso che si deve fare per le plebee romane che costituiscono uno dei soggetti privilegiati nel grande corpus dei suoi oltre duemila Sonetti. La vita de le donne (è il titolo di un sonetto del 1832, che ha anche un omologo dedicato al genere maschile) fu innanzitutto, per Belli, il più veritiero specchio di tutto un mondo brulicante di azione, di detti e motti di spirito, di sofferenze e gioie semplici quanto effimere, di un vivere alla giornata che costituisce la materia stessa di quel «monumento» della plebe romana (Nota 3), che, come è noto, il poeta volle erigere.
Essenziale precisazione: la vita delle popolane romane raccontate da Belli è, sotto molti aspetti, simile, più che complementare, a quella degli uomini. È fatta di arrangiamenti, di furbizie, di soddisfazioni lievi e dolori temporanei, e soprattutto di mestieri precari, volatili come gli ornamenti e le stoffe delicate di cui si ammantano le signore. Mestieri, perciò, facilmente assimilabili al puro e semplice espediente, per sua natura poco rispettabile: ad esempio, in De tutto un po' (1832, n. 563), l'insistito elenco delle squisite competenze sartoriali di cui la protagonista si vanta finisce con l'esibizione – sia pure discreta – di una ulteriore abilità un po' meno spendibile socialmente e professionalmente (ma forse più redditizia), che consiste nella fabbricazione, «co 'na  certa pelletta trasparente», di delicati presidi contraccettivi utili a «quarche amico».
Solo a tratti il poeta fa emergere una misurata partecipazione alla sofferenza disuguale delle donne, sovrapponendola al suo consueto sguardo tanto acuto quanto ironico e mordace. Non nega, il poeta, che l’uomo potrebbe portare a casa la paga magra e saltuaria invece di spenderla all'osteria, o comunque affrettarsi a rincasare e non lasciare moglie e figli al buio, al freddo e alla fame: è la situazione descritta nel terribile La famija poverella (1835, n. 1677) (Nota 4). In quest'ambito di condivisione emotiva delle responsabilità familiari più propriamente femminili, che possono comportare vere e proprie tragedie, il capolavoro è però un pacifico quadro a mezzatinta, La bona famija (1831, n. 287), dove alla madre assente (forse morta) della narratrice si sostituisce in tutti i mestieri di casa, «povera vecchia», la nonna, che «sparecchia e arissetta la cucina» mentre il resto della famiglia di ambo i sessi, tornato a sera dalle sue giornaliere occupazioni, vuota tranquillamente un boccaletto di vino e si attarda a tavola, per poi andarsene a dormire: «'na pisciatina, 'na sarvereggina / e, in zanta pace, ce n'annàmo a letto».
Nella maggior parte dei casi, Belli fa risaltare uno spazio delle esistenze maschili e femminili sostanzialmente e impetuosamente condiviso. Niente «sfere separate» per gli uomini e le donne, insomma (su questo torneremo), e nessuna santificazione del ruolo femminile a custodia del focolare: il vero discrimine, morale oltre che sociale, tra mondo plebeo e mondo aristocratico-borghese è infatti costituito dal lavoro extradomestico cui, sia pure in modo precario, anche le donne devono largamente accedere. Serve, lavandaie, cucitrici, piccole rivendugliole, mammane; e poi mezzane, affittacamere, «mignotte», non possono certo trascorrere la loro vita chiuse in casa a presidio di un focolare che, senza il loro lavoro, resterebbe miseramente spento, ed è comunque sito in luogo squallido e angusto, che non invita certo alla domesticità; e dunque escono, guadagnandoci in più una reputazione pericolante. Le popolane di Belli non sono, in genere, "casalinghe": vanno all'osteria, alla fonte, a passeggio, per prati e per siepi, e in chiesa per onestissimo svago, come molto successivamente le loro pro-pronipoti andranno al cinema.
In questo spazio di esistenza condiviso, Belli ci restituisce una visione del femminile, più che tradizionale, antica. Secondando gli stereotipi più diffusi di una secolare misoginia, le sue donne romane sono infingarde, poco affidabili, pettegole, curiose, girandolone; e poi vogliose, prede e, allo stesso tempo, cacciatrici nel grande gioco della soddisfazione sessuale che prescinde largamente dal matrimonio. E pronte alla frode anche davanti al confessore, il quale peraltro, e si cita a titolo di esempio l'eloquente protagonista de Er bon padre spirituale (1832, n. 140), quanto a sollicitatio ad turpia potrebbe comparire come modello negativo in qualsiasi manuale della penitenza (Nota 5). Donne, insomma, la cui esistenza tanto industriosa quanto apparentemente inessenziale sembra ruotare soprattutto intorno alla loro funzione di oggetto sessuale. Ma questo è vero fino a un certo punto: perché in molte scene di vita riprodotte da Belli le donne, e non solamente le meretrici professioniste – spesso distinte dalle altre solo per l'ufficializzazione del mestiere – mostrano di godere la sessualità al pari degli uomini, facendone quasi il centro della propria esistenza. La stessa vita delle donne, per Belli, inizia col menarca e con le prime (e prontamente soddisfatte) curiosità sessuali; e termina non tanto e non solo con la morte, ma con le surrogatorie e stizzose pratiche devozionali che si infittiscono paurosamente a partire dal primo presentarsi della vecchiaia, quando «er cardinale o er monsignore/che j'allisciava er pelo a li cuniji/comincia a recità da confessore» (L'abbichino de le donne, 1832, n. 667). La vita de le donne coincide col loro ciclo biologico fecondo. Durante la breve fase intermedia tra l'adolescenza e la maturità, non è necessario essere quella macchina da sesso che è la celebre prostituta Santaccia di piazza Montanara (Santaccia de piazza Montanara I e II, scritti entrambi nello stesso giorno del 1832, nn. 597 e 598) – molto attenta all'ottimizzazione del lavoro, ma non per questo aliena dal prendersi le sue personali soddisfazioni – per rintracciare nella completa espansione  della corporeità il senso della vita: un senso a volte tragico, o coltivato in assenza di altre prospettive, ma pur sempre potente.
Anche in questo, la plebe romana non sembra distinguersi molto per la via del genere, se non per il carattere ridicolo e disdicevole che il desiderio femminile esplicitato assume all'occhio dell'osservatore: sono molte le vedove che il poeta sorprende nell'atto di sovrapporre all'ipocrita compianto per il defunto la speranzosa attesa di un successore, quando non si verifichi, come nel sonetto intitolato ironicamente La mojetta de bon core (1844, n. 2034), l'ammissione esplicita di un vero e proprio augurio di morte al marito ancora vivo («che me schiatti quer porco de Cammillo»), che la moglie desidera sostituire quanto prima col vicino di casa. Come abbiamo già osservato, e come sarà comune per molto tempo a venire – né si può dire che il giudizio sia completamente superato ai giorni nostri – le donne, così colme di difetti morali che ne determinano incapacità e ruolo subalterno nella gerarchia della vita (e della famiglia), sono percepite essenzialmente nella loro fisicità, e riassunte nella loro vita biologica. Non che, sia chiaro, quella incapacità e quella subalternità, del resto messe in discussione dalla fatica quotidiana condivisa con gli uomini, a sua volta moltiplicata dalle vicissitudini della maternità, siano accettate a cuor leggero dalle donne di Belli. Esse non rispondono tout court con la sottomissione, muovendosi anzi fra trasgressione dissimulata e  vera e propria ribellione; è in questo senso esemplare il sonetto L'omo e la donna (1834, n. 1261) del quale è utile citare le terzine finali, che, al netto delle allusioni e della cruda chiusa, ricordano da vicino – muovendosi esclusivamente sul terreno del corpo – la celebre «tirata» dello Shylock shakespeariano in difesa dell'umanità dell'ebreo:

Cos'ha, più de la donna, un galeotto
d'omaggio, pe protenne in ogni caso
de stà lui sopra e de tiené lei sotto?

Cos'ha de più? una mano, un piede, un stinco,
una bocca, un'orecchia, un occhio, un naso”?
Allora io: “Nu lo sapete? un pinco.

Le donne definite dunque, anche e soprattutto in negativo, dal loro corpo: le mestruazioni, le gravidanze, le malattie; e dalla mancanza dell'attributo maschile, simbolo incontestato di potere. Ma anche l'aspetto esteriore ha la sua (grande) importanza, con in più il senso incombente della sua caducità, sì che la perdita di freschezza, più ancora di quella della verginità, può determinare la caduta irrimediabile nello status di «zitella», nel senso negativo, e non in quello semplicemente descrittivo dello stato nubile allora annesso al termine; è passato in un lampo il momento buono per la protagonista di La zitella ammuffita (1835, n. 1640), la quale, da un giorno all'altro, si è trovata nella sgradevole situazione di attendere «si capitassi quarche scartarello», mentre le sue amiche si sono tutte sistemate. Non che poi il matrimonio rappresentasse il paradiso, anche se dava alla donna un ruolo sociale definito e la dotava (salvo prova contraria) di rispettabilità, e di una certa libertà di movimento. Era anche l'unica scelta – se così la si può definire – consentita a una giovane, come suggerisce amaramente la protagonista di La povera moje (1837, n. 1674), che in una notte da incubo attende invano il ritorno a casa del marito:

 Ah! Me l’aveva detto mamma mia:
“Fija, nu lo pijà, ché te ne penti.”

Ecco cosa vò dì la fernesia
de non volé dà retta a li parenti
pe sposà un omo e nun zapé chi sia.  

Abbiamo di fronte una donna tutta corpo e, tutt'al più, miope utilitarismo: ella appare eminentemente compartecipe di quella assenza di interiorità, di sentimenti profondi ed emozioni delicate (a parte l'amor materno, sacro quanto istintivo) secolarmente attribuita alle classi subalterne dalla cultura "alta" e dal senso comune. Di nuovo, uomini e donne sono accomunati dallo stesso stigma: la pura istintualità, una specie di ferinità ottusa e indistinta che non dà spazio alla riflessione e al sentimento.
Nell'epoca di redazione dei Sonetti si discuteva molto di passioni e soprattutto di amore, cercando di depurarlo dal vincolo del puro desiderio fisico non sublimato dalla santità del matrimonio e dal nuovo senso ottocentesco della famiglia (Nota 6). Una famiglia composta prima in cielo che in terra, e dunque sacra oltre che decorosa, rispettosa delle regole sociali e religiose; una comunità armoniosa, nella quale l'uomo, la donna e i figli avevano tutti il loro posto e si amavano teneramente. Erano i bei concetti che anche Belli metteva per scritto nelle sue composizioni in lingua italiana, e tuttavia notevolmente estranei al gran teatro della plebe romana, ribollente e di trasgressioni, di voglie molto terrene e di rudi seduzioni estemporanee, non sempre sanzionate dal sacro vincolo.
Un contemporaneo del poeta romano, ma da lui ben diverso per educazione, idee e scelte di vita – il protagonista del Risorgimento, pittore, scrittore e uomo politico Massimo d'Azeglio, che, vissuto a lungo a Roma nel primo Ottocento, frequentò senza alcuna albagia di casta artisti e intellettuali come i Ferretti (Nota 7), avviando una lunga e affettuosa corrispondenza con Chiara, poi sposa ad Alessandro Spada – poco dopo l'unificazione scrisse un libro di memorie nel quale sosteneva che erano stati gli intellettuali (da lui definiti «leggenti», vale a dire coloro che leggono e scrivono libri) a inventare l'amore, che, a suo avviso, non era che la traduzione letteraria dell'attrazione tra i sessi. Così d'Azeglio al suo lettore:

Leviamo le egloghe e gli idilli, ha mai veduto dei contadini innamorati? Ha mai veduto un villano scordarsi d'andar a giornata, od un altro passargli dalla mente di far la polenta perché fosse innamorato? E se quest'amore fosse una malattia de' signori propagata dai libri […], non si potrebbe finire col concludere che l'amore (sempre s’intende l’amore de' romanzi, non parlo delle tendenze vicendevoli de' sessi) è una minima reazione, una varietà inconcludente, un lusso da signori, da gente che non ha voglia di far niente e non sa come logorare le sue ventiquattr'ore? (Nota 8)

L'amore un'invenzione, insomma, di quelle di cui scrivere in punta di penna e in buon italiano (d'Azeglio era stato genero di Manzoni e aveva scritto due popolari romanzi storici); ma la vita vera, rappresentata sia pure inconsapevolmente ed istintivamente dalla gente del popolo, era un'altra cosa, da non confondere coi romanzi. La continuazione della storia dell'umanità dipendeva essenzialmente dalla soddisfazione delle «tendenze vicendevoli», non dall'espressione di sentimenti sublimi. È una visione di apparente buon senso, ma molto rigida e chiusa nel negare agli strati inferiori della società il diritto ai sentimenti, e dunque atta a ribadire la giustezza e l'opportunità delle gerarchie sociali – e, implicitamente, di quella tra i sessi – presentate come naturali, e sanamente contrapposte all'artificiosità dell'estetica (e della politica) romantica.
Se quello sin qui tratteggiato è un accettabile quadro di riferimenti culturali entro il quale possono essere lette le colorite vicende delle donne romane raccontate da Belli, non va lasciato inesplorato un essenziale versante: quello della loro possibile ricezione nel ristretto (ristrettissimo) gruppo delle prime lettrici, o ascoltatrici. Quelle popolane ascoltate, spiate, magistralmente riprodotte dal poeta, venivano infatti immesse in un circuito di comunicazione selezionato e molto riservato, di cui con ogni probabilità facevano parte donne molto differenti da loro, e tra loro diverse. Forse, in quel piccolo gruppo non ci fu Mariuccia, la moglie borghese e apparentemente molto paziente sulla cui immagine Belli costruì la propria versione della famiglia "in italiano"; la moglie-madre cui vanno le lodi un po' manierate del fortunato marito e che, almeno fino alla brutta sorpresa della morte, rappresentò il baluardo della rispettabilità e della solidità economica della coppia. Per contro, la sua indole bonaria, socievole e un poco superficiale potrebbe averlo indotto a saggiare su di lei, con prudenza, alcuni personaggi e situazioni.
Certamente, come attestano fonti d'epoca, i Sonetti, che circolavano in manoscritto e quasi clandestinamente, furono letti in casa Ferretti (Nota 9): una specie di salotto (Nota 10) artistico e letterario assai poco paludato e molto alla buona, ma ricercato anche dai viaggiatori stranieri per il livello della conversazione, oltre che per le qualità delle belle figlie e della loro madre Teresa Tempesta, prima del matrimonio virtuosa di canto e di pianoforte. Naturalmente, sia lei che, successivamente, le figlie anteposero la cura della famiglia e della casa a qualsiasi velleità di affermazione artistica: le loro rare e riservate esibizioni servivano soprattutto a sottolineare il piacere di ricevere gli amici. Uno dei fascini della casa Ferretti può anche essere consistito nell'esservi accolti da donne che erano, a un tempo, intellettuali e casalinghe, e – soprattutto – sapevano cogliere la naturale gerarchia esistente tra queste due qualità.
Cencia (Vincenza Roberti), la nobile provinciale conosciuta da Belli nel 1820 – dunque, già sposato – che fu la sua migliore amica, assidua corrispondente e fedele ospite nella casa di Morrovalle, e Amalia Bettini, due donne importanti nella vita di Belli quanto la moglie, ancor più probabilmente di lei lessero e/o ascoltarono alcuni dei componimenti romaneschi: forse non i più espliciti, che sono peraltro assai numerosi, sia sul versante sessuale – con accenti e situazioni a volte tanto realistici e crudi da poter essere affidati, in quella prima metà dell'Ottocento, solo all'ascolto di signore intime e fidatissime, oltre che ben navigate e, naturalmente, sposate – che su quello, altrettanto impervio, della critica agli ordinamenti e alla classe dirigente dello Stato pontificio. Del resto, le loro qualità in senso lato erano, nel medesimo tempo in cui sgorgava il fiume carsico dei Sonetti, di spunto a composizioni poetiche in italiano (per Amalia anche in dialetto, ma molto castigato), che appaiono al cultore belliano piuttosto fiacche e poco originali, specie se paragonate alla smagliante qualità della poesia romanesca; ma delle quali furono gelose e orgogliose custodi, specie Vincenza, la più gratificata, poiché Amalia era per la sua professione abituata a ricevere omaggi poetici.
Concentriamoci un poco su Vincenza ed Amalia. Queste donne borghesi – il termine può corrispondere bene sia all'aristocratica marchigiana che all'attrice, per motivi che saranno subito chiari – erano proprio diverse dalle romane dei Sonetti. Vissero, ciascuna a suo modo e secondo le sue possibilità, immerse in un humus di intellettualità e di fervore romantico che la nobile di provincia, la cui stessa esistenza sarebbe restata ignorata senza la sua affettuosa amicizia con Belli e l'imponente carteggio che ne consegue, canalizzò nelle letture e nella conversazione colta o politica (il che era largamente la stessa cosa): la famiglia del marito era di tendenze liberali, e poco o nulla si è riflettuto – indagare è materialmente impossibile – sulla piega che possono avere assunto certi colloqui privati con l'amico, all'apparenza papalino ortodosso. Invece Amalia – molto probabilmente anche lei "italianizzante", come i principali attori e cantanti dell'epoca (Nota 11) – si era realizzata nell'arte scenica fino all'incontro col futuro marito, il medico bolognese Raffaele Minardi, cui avrebbe dato due figli. Tanto risultò sostanziale e definitiva la sua trasformazione in rispettabile matrona, che anche il modo di rivolgersi all'amico romano mutò: nella corrispondenza, infatti, si era a un certo punto passati dal formale «voi» ad un cameratesco e  suggestivo «tu»; ma il fidanzamento con Minardi fece immediatamente retrocedere la confidenza col ritorno al «voi» (Nota 12).
Sia Vincenza che Amalia furono creature complicate ed esigenti, certo non istintive come si voleva fossero le popolane. Erano donne, anzi, molto raziocinanti, in bilico su quel fatale crinale tra amour-passion (che, per molte, costituì una scoperta post-matrimoniale, e dunque la premessa di un adulterio (Nota 13)) e amore coniugale (Nota 14) che fu una grande invenzione del Romanticismo, e quasi una ragion d'essere della sua proposta culturale. Si trattava di una distinzione (e di una scelta) ben radicata nella vita quotidiana delle donne colte o anche semplicemente consapevoli di sé stesse; ma, al tempo stesso, di una scelta fragile e cerebrale, la cui urgenza poneva Vincenza ed Amalia agli antipodi dalle loro "selvagge" sorelle dimoranti nei rioni romani. Entrambe, poi, sempre partendo da presupposti individuali molto diversi, ma motivate dallo stesso clima culturale, scelsero l'amore coniugale come porto sicuro. Scelta ragionata, per la quale Amalia rinunciò ad una luminosa carriera di attrice che le aveva dato autonomia economica, fama, protagonismo: e tuttavia la pubblica scena, l'esibizione in pubblico, rappresentavano proprio il contrario di quello che, al momento, doveva essere l'habitat di una donna perbene, quali che fossero le sue personali inclinazioni e il suo privato comportamento. Scelta che, soprattutto, le poneva entrambe allo zenith del sublime femminile, donando loro la maternità. Una maternità, va detto, del tutto aliena dall'indulgere – perlomeno nella sua rappresentazione epistolare, l'unica che conosciamo – anche alla sola allusione a quelle carnali sofferenze che fanno desiderare alla protagonista del sonetto La partoriente (1834, n. 1069) di non partorire mai più; ed è una delle non poche occasioni in cui le popolane di Belli rimpiangono di essersi sposate: «E co tutto sto tibbi de dolore/ c'è tanta rabbia de pijà marito?/E ammalappena avemo partorito/ce la famo arifà?/ Ce vo un gran core». Ciononostante, mentre le romane di Belli continuavano a partorire con non sorprendente regolarità, come fa notare La mammana in faccenne (1837, n. 1847), mettendo in collegamento l'infittirsi della nascite al principio dell'inverno con la spensieratezza e la voglia di festeggiamenti del precedente carnevale, le sublimi mamme borghesi posero certamente un limite al dispiegarsi della naturale fecondità (non ci è dato sapere quale), specialmente Vincenza, che ebbe un'unica figlia.
E dunque: quel mondo nuovo, ottocentesco e borghese, che proponeva le «sfere separate» – alle donne la tutela della casa, agli uomini il resto del mondo – assente o quasi dai Sonetti, torna nella possibile realtà dello scambio comunicativo tra protagoniste e lettrici, e mostra dal vivo la lotta tra il vecchio e il nuovo modello di donna che divampava, conquistando al nuovo i ceti medio-alti, mentre quelli bassi avrebbero atteso ancora qualche decennio per esserne coinvolti. Ne derivava  anche una diversa sensibilità per la natura del femminile: da un lato, gli angeli del focolare, le compagne amorose e discrete e le madri sante, pronte a divenire, di lì a poco, anche madri della patria (Nota 15); dall'altro, le "solite" donne chiacchierone, lascive e bugiarde, così adatte a una vivace teatralizzazione delle loro modeste imprese.
Cencia, Amalia, ma anche la cugina Orsola Mazio e l'intelligente e disgraziata nuora di Belli, Cristina Ferretti – e tutte le donne di casa Ferretti, tra cui la già nominata Chiara amica di Massimo d'Azeglio – si trovarono di fronte quel conflitto tra due diverse interpretazioni della femminilità, e lo interpretarono cercando di conciliare il fascino del nuovo con l'incombenza del ruolo antico: anche a costo della vita, perché la sensibile e fragile Cristina, certo intellettualmente e culturalmente superiore al marito e vero angelo del focolare dei Belli, avrebbe dovuto rapidamente soccombere, insieme ai suoi bambini, al supplizio dei continui parti, cui nonostante, o forse a motivo, del grande amore che il marito Ciro le portava, la concezione tradizionale della donna regolare fattrice, e della gravidanza come unico sbocco lecito alla sessualità coniugale la condannava, sebbene assai cagionevole di salute. Cristina morì poco dopo aver dato alla luce una bambina, e solo tre dei sei figli generati in dieci anni di matrimonio tra lei e Ciro Belli, che ella aveva sposato dopo mille dubbi per salvarlo dalla possibile coscrizione della Repubblica Romana, superarono l'infanzia.
In questo destino di donna definita essenzialmente dal suo ciclo biologico e dalle disavventure del corpo, forse non del tutto mansuetamente accettato se si leggono con attenzione gli straziati resoconti epistolari del suocero che la vedeva ribellarsi alla morte, Cristina si trovò allora ad assomigliare alle vicine di casa da lui immortalate: quelle donne del popolo sboccate e imprevidenti dalle quali la sua figura gentile e riservata si distingueva, per il resto, così radicalmente.

 

NOTE: 

Nota 1 Si veda per ogni particolare biografico l'indispensabile M. Teodonio, Vita di Belli, Laterza, Roma-Bari 1993. L'epistolario del poeta è fra i più vivaci e interessanti dell'Italia ottocentesca: G. G. Belli, Le lettere, a cura di G. Spagnoletti, Cino del Duca editore, Milano 1961, 2 voll. Di grande interesse per comprendere la complessa personalità di Belli e l'influenza che su di essa ebbe la sua infelice e sfortunata giovinezza, si veda poi la lunga lettera autobiografica (Mia vita), che il poeta scrisse nel 1811 – e dunque ad appena venti anni – all'amico Filippo Ricci, pubblicata in G. G. Belli, Lettere Giornali Zibaldone, a cura di G. Orioli, Introduzione di C. Muscetta, Einaudi, Torino 1962, pp. 9-22.  Per mettere a fuoco la figura della moglie, Maria Conti, si legga “Caro Peppe mio…tua Cicia”. L'epistolario di Maria Conti Belli al marito e al figlio. Edizione critica, commento linguistico e glossario, a cura di R. Fresu, Aracne editrice, Roma 2006. Alcune lettere inedite di Belli alla moglie in G. G. Belli, Lettere inedite a Mariuccia, a cura di M. Vignali, Aracne editrice, Roma 2003. Torna al testo

Nota 2 Sulla quale si tornerà più avanti. Su colei che fu certamente una delle più celebri dive del teatro drammatico italiano nella prima metà dell'Ottocento, stimata (non solo come attrice) e citata anche da Stendhal, si veda almeno la voce biografica di A. Zapperi, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 9, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1967. Torna al testo

Nota 3 L'espressione esatta è: «[…] un monumento di quella che è oggi la plebe di Roma». La si trova nella Introduzione ai Sonetti che il poeta stesso aveva scritto e che sottopose alla lettura di amici fidati quali Francesco Spada e Iacopo Ferretti, riportata in G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini e con il commento di G. Vigolo, Mondadori, Milano 1990, pp. 3-15. Torna al testo

Nota 4 Per i testi dei Sonetti si è tenuto conto dell'edizione completa in due volumi curata da M. Teodonio nel 1998 (e successive edizioni) per l'editore Newton Compton, una delle più recenti anche se certamente non l'unica. I Sonetti hanno una numerazione progressiva data dallo stesso autore e dai primi commentatori, che si riporta oltre alla data per facilitarne la consultazione. Torna al testo

Nota 5 Sul formarsi del carattere a un tempo di controllo e di morbosa sollecitazione alle attività sessuali acquisito dalla confessione (soprattutto se praticata da penitenti donne e giovani), mano a mano che diveniva routine e obbligo e si allontanava dalla sfera dell'interiorità per entrare in quella della norma sociale – tema ben presente nei Sonetti insieme a quello della assoluta inadeguatezza, fino alle più alte sfere, della maggior parte del clero – si veda A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, e in esso particolarmente la parte seconda, La confessione, pp. 211-548. Torna al testo

Nota 6 Opera fondamentale per esaltare e diffondere il nuovo senso della famiglia fu S. Pellico, Dei doveri degli uomini: discorso ad un giovane, in Id., Opere scelte, a cura di C. Curto, UTET, Torino 1964, pp. 613-685 (pubblicata per la prima volta nel 1834). Torna al testo

Nota 7 Il poeta e librettista (tra l'altro, della Cenerentola di Rossini) Iacopo Ferretti e la sua famiglia, nella quale spiccavano le tre colte e intelligenti figlie Cristina (poi nuora di Belli), Chiara e Barbara, furono forse i migliori amici del poeta. Si veda almeno la voce biografica dedicata a Iacopo da F. D’Intino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 47,   stituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1997. Torna al testo

Nota 8 M. d'Azeglio, I miei ricordi, a cura di A. M. Ghisalberti, Einaudi, Torino 1971, p. 148. Che l'amour-passion, o amore romantico, fosse una costruzione culturale era certamente un'idea non nuova, via via rielaborata nel tempo, e ripresa ad esempio, nel secolo scorso, da H. M. Enzensberger, Requiem per una donna romantica. La storia di Auguste Bussmann e Clemens Brentano tramandata da Hans Magnus Enzensberger, Sellerio, Palermo 1994. Torna al testo

Nota 9 Di letture nelle case Spada e Ferretti si riferisce in D. Silvagni, La Corte e la società romana nei secoli XVIII e XIX, Tipografia della Gazzetta d'Italia, Firenze 1885, vol. III, p. 420. Il ricordo proveniva dalla memoria del duca Michelangelo Caetani, che ne aveva parlato alla figlia, a sua volta titolare di un celebre salotto romano di fine Ottocento: P. Ghione, Il salotto di Ersilia Caetani Lovatelli a Roma, in Salotti e ruolo femminile in Italia tra fine Seicento e primo Novecento, a cura di M. L. Betri e E. Brambilla, Marsilio, Venezia 2004, pp. 487-508. Torna al testo

Nota 10 Di salotti attivi in una importante città dello Stato Pontificio, incentrati sul dibattito culturale (poi divenuto politico) e socialmente eterogenei come quello in casa Ferretti (dove però non era rappresentata l'aristocrazia), si parla in F. Tarozzi, E. Musiani, Le donne nei salotti bolognesi del primo Ottocento tra politica e loisir, ivi, pp. 343-364. Torna al testo

Nota 11 Si pensi, ad esempio, al ruolo svolto da Tommaso Salvini nella Repubblica Romana del 1849. Non poche furono poi le artiste che seguirono la stessa strada di Amalia Bettini, scegliendo risolutamente il matrimonio borghese e interrompendo la carriera. Anche in questo caso, può bastare l'esempio di Adelaide Ristori, sposa al marchese romano Capranica del Grillo. Per penetrare la complessità di questa scelta, nella quale al compiacimento si mescolava il rimpianto, è utile seguire il percorso di una illustre mezzosoprano della seconda metà dell'Ottocento, Maria Waldmann, per la quale Giuseppe Verdi aveva scritto il ruolo di Amneris nell'Aida e la parte mezzosopranile della Messa di Requiem, che nel 1876 sposò il conte, poi duca, Galeazzo Massari di Ferrara: Carteggio Verdi-Waldmann, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma 2014. Torna al testo

Nota 12 Sull'alternanza delle formule allocutive come sintomo di partecipazione emotiva, è ancora utile leggere M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XVIII secolo, il Mulino, Bologna 1984, in particolare il capitolo quinto, Lo studio delle relazioni familiari, pp. 265-291, che, nonostante il titolo, si occupa anche di relazioni non familiari. Torna al testo

Nota 13 Ho sviluppato questo spunto in P. Magnarelli, Tra il dovere e il piacere. Matrimonio e mésalliance nelle lettere della piccola nobiltà marchigiana, in «Dolce dono graditissimo»: la lettera privata tra Settecento e Novecento, a cura di M. L. Betri e D. Maldini Chiarito, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 57-185. Torna al testo

Nota 14 Sempre in ambito pontificio, P. Magnarelli, Amore romantico e amore coniugale in una vita piccolo borghese, in Amori e trasgressioni. Rapporti di coppia tra Otto e Novecento, a cura di A. Pasi e P. Sorcinelli, Dedalo, Bari 1995, pp. 83-110. L'amour-passion come possibile grimaldello contro la stabilità del matrimonio nella società occidentale è stato acutamente analizzato da D. de Rougemont in L'amour et l'Occident, libro pensato negli anni Trenta del Novecento e pubblicato definitivamente nei Settanta. Torna al testo

Nota 15 Sul nesso tra espansione dell'amore romantico e amor di patria colto in dimensione europea, si veda A. M. Banti, L'onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra,  Einaudi, Torino 2005. Torna al testo

 

Questo contributo si cita: P. Magnarelli, Vite separate delle donne di Belli, in «Percorsi Storici», 5 (2017) [http://www.percorsistorici.it/numeri/]

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