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Daniela Geppert

Tra più fuochi. La storia degli internati militari italiani 1943-1945. La mostra permanente presso il Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit (Nota 1)

 

«Memoria anziché risarcimento», così recita il titolo dell’ultimo capitolo della nuova esposizione permanente nel Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit (Centro di documentazione sul lavoro forzato nella Germania nazista). E così si può anche descrivere il contesto in cui è stata ideata la mostra. Da anni le relazioni italo-tedesche erano gravate da richieste di risarcimento per gli ex internati militari italiani. Questi nel 2001 sono stati esclusi dai risarcimenti versati dalla Germania agli ex lavoratori forzati. Di conseguenza si è aperta una discussione continua tra Germania e Italia. Anche le associazioni delle vittime italiane, in particolare l’Associazione nazionale reduci dalla prigionia (Arnp), hanno fatto riferimento insistentemente ai mancati risarcimenti. In seguito a ciò nel marzo 2009 i ministri degli esteri della Repubblica federale tedesca e della Repubblica italiana hanno insediato una commissione storica italo-tedesca con il compito di studiare la storia della Germania e dell’Italia durante la guerra e di indicare percorsi per una memoria condivisa. A dicembre 2012 la commissione ha consegnato i risultati del proprio lavoro ai ministri degli esteri di Italia e Germania. Uno dei suggerimenti prevedeva una mostra sulla storia degli internati militari italiani da allestire presso il Centro di documentazione sul lavoro forzato nella Germania nazista di Berlino.
Ma chi erano gli internati militari italiani attorno ai quali negli anni 2000 si è creata così tanta agitazione nei rapporti fra Germania e Italia?
Durante la seconda guerra mondiale l’Italia fu alleata nel regime nazista, i soldati di entrambi i paesi combatterono fianco a fianco sui fronti di guerra. Entrambi i paesi perseguirono proprie strategie di conquista, l’Italia nel Mediterraneo, il Terzo Reich soprattutto con la guerra di sterminio sul fronte orientale. Dopo lo sbarco degli Alleati nel Sud dell’Italia e a causa di una certa stanchezza della guerra l’Italia uscì dall’alleanza e l’8 settembre 1943 firmò un armistizio con gli Alleati occidentali. I soldati e gli ufficiali italiani passarono improvvisamente dall’essere alleati a essere nemici dei tedeschi e la Wehrmacht ne prese prigionieri circa 800.000. Circa 650.000 furono trasportati nel territorio del Reich e nei paesi occupati per essere impiegati come lavoratori forzati per l’economia bellica tedesca. Sotto il regime nazista le loro condizioni di vita e di lavoro furono definite da interessi concorrenti quali la punizione per il “tradimento” commesso dall’Italia con l’uscita dalla guerra da un lato e il massimo sfruttamento del loro potenziale come forza lavoro dall’altro. Anche Mussolini, come capo della Repubblica sociale italiana (Rsi), fondata nel settembre 1943, avanzò pretese nei riguardi di questi uomini per rimpinguare i ranghi del suo nuovo esercito. Questi diversi interessi fecero sì che i militari italiani si trovarono stretti tra più fuochi.
Questo stato di cose descrive anche l’odierna situazione degli ex internati militari. Essi, a differenza dei lavoratori forzati civili, come abbiamo detto non sono stati risarciti. Nonostante il loro passaggio allo status di lavoratori civili a partire dall’estate del 1944, circa 90.000 ex internati in virtù di una perizia stesa nel 2001 dal giurista esperto di diritto internazionale Christian Tomuschat sono stati considerati come prigionieri di guerra e i prigionieri di guerra (eccetto i polacchi) sono stati esclusi dai risarcimenti individuali versati dalla Repubblica federale tedesca tra il 2000 e il 2007. Tale decisione è stata particolarmente amara per gli italiani colpiti. Se essi in Italia avevano sofferto per decenni a causa della mancata attenzione verso il loro destino, ora tale indifferenza riceveva un sigillo a livello statale dalla Germania. Ne è seguita una serie di contenziosi giudiziari tra tedeschi e italiani, finché la Corte internazionale dell’Aia il 3 febbraio 2012 ha emesso una sentenza di immunità della Germania rispetto a singole cause di richiesta di risarcimento. I risarcimenti “negati” hanno continuato a gravare sulle relazioni italo-tedesche. In questo contesto il governo federale nel 2014 ha istituito il Fondo italo-tedesco per il futuro presso il ministero degli Esteri, seguendo con ciò i suggerimenti della commissione storica e grazie al Fondo ha promosso e sostenuto progetti di memoria relativi agli avvenimenti intercorsi fra il 1943 e il 1945 in Germania e in Italia, tra cui la mostra Tra più fuochi.
I preparativi per la realizzazione della mostra sono iniziati nel 2013-2014 con l’elaborazione del progetto e la richiesta di finanziamenti. Dall’autunno 2014 un team di tre ricercatori e ricercatrici ha condotto le ricerche prevalentemente in Italia presso archivi, musei, associazioni di vittime, istituti storici e privati per reperire fotografie, testimonianze, documenti rilevanti per la mostra. Proprio presso le famiglie dei militari si trovavano e si trovano ancora numerosi tesori “nascosti” per la storia degli internati militari italiani. Negli archivi tedeschi invece è relativamente poco il materiale reperibile e sono pochi i privati, le istituzioni storiche o i memoriali che si sono occupati del tema e hanno raccolto informazioni biografiche o su situazioni locali. Il lavoro del team incaricato della mostra è stato, non da ultimo, sostenuto da un consiglio scientifico italo-tedesco composto dal professor Brunello Mantelli (Università della Calabria), dal professor Enzo Orlanducci (Anrp), dal dottor Lutz Klinkhammer (Istituto storico germanico di Roma) e dalla dottoressa Gabriele Hammermann (direttrice del memoriale di Dachau).
Il 28 novembre 2016 il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, il suo omologo italiano Paolo Gentiloni e, come ospite d’onore, l’ex internato militare Michele Montagnano hanno inaugurato la mostra presso il Centro di documentazione sul lavoro forzato nella Germania nazista alla presenza di numerosi familiari e rappresentanti delle associazioni delle vittime. Con l’esposizione il destino degli internati militari italiani è stato riconosciuto per la prima volta in Germania in una mostra permanente specifica e completa.

 

fig. 1 Ingresso

 

La mostra, attraverso foto, disegni, oggetti, documenti, proiezioni e video, esposti su una superficie di 250 metri quadrati, descrive il destino di queste vittime del nazismo per lo più sconosciute in Germania. Il focus dell’esposizione sta nella rappresentazione delle condizioni di vita in prigionia e nel lavoro forzato. La mostra è allestita in una baracca dell’ex Lager 75/76 dell’Ispettore generale per le costruzioni della capitale del Reich (Generalbauinspektor für die Reichshauptstadt - GBI) a Berlino-Schöneweide. Anche in questo Lager, come in molti altri, furono reclusi militari italiani internati. La mostra, tuttavia, non si limita alla storia dei militari italiani internati in questo campo, ma offre informazioni sugli Imi nel complesso in una sequenza cronologica e tematica con esempi tratti da diverse regioni del Terzo Reich e dei territori occupati.

 

fig. 2 Modello della mostra 

 

I testi in tedesco, italiano e inglese sono brevi e si rivolgono a visitatori giovani e adulti che in genere non hanno preconoscenze sugli internati militari italiani prima della loro visita al Centro di documentazione.
La mostra si articola in otto capitoli e quattro focus tematici specifici. Questi ultimi offrono informazioni aggiuntive, al di là della struttura cronologica dell’esposizione, senza le quali non è possibile comprendere le particolari condizioni della prigionia degli internati militari italiani. Inoltre alcuni grafici forniscono informazioni statistiche come per esempio il numero dei militari internati in relazione ai prigionieri di guerra di altre nazionalità o note su settori e i campi di impiego dei militari internati italiani. Un aspetto straordinario della narrazione della mostra è la prospettiva del testimone: le esperienze degli internati militari sono integrate nell’esposizione attraverso installazioni video e audio, citazioni, proiezioni e biografie esemplificative. La rappresentazione è arricchita da biografie esemplari di colpevoli tedeschi.
Nel primo capitolo, mediante una proiezione di testo e immagini, viene rappresentata rapidamente la relazione tra l’Italia fascista e la Germania nazista: fotografie, cartine e titoli di giornale testimoniano degli accordi politici e militari tra i due paesi, passando per la guerra comune a partire dal 1940, e giungendo fino alla destituzione di Mussolini e all’armistizio dell’Italia con gli Alleati. La stanza è oscurata, in questo punto della mostra non si ha una veduta esterna sul Lager poiché esso non ha alcun ruolo negli antefatti.
Il secondo capitolo mostra la cattura dei soldati, dei sottufficiali e degli ufficiali italiani da parte della Wehrmacht. Una cartina dell’Europa meridionale consente di collocare gli avvenimenti in Grecia, Italia, Francia e nei Balcani. L’8 settembre 1943 i militari italiani restarono per lo più privi di ordini precisi da parte della dirigenza italiana e generalmente si arresero senza opporre resistenza. Alcuni esempi presentano i crimini commessi dalla Wehrmacht durante le fasi della cattura dei militari italiani in quei casi in cui ci furono atti di resistenza. Fra questi vi sono la fucilazione di poliziotti a Barletta come rappresaglia per la morte di due soldati della Wehrmacht o il massacro dei prigionieri di guerra italiani sull’isola greca di Cefalonia.

 

fig. 3 Il capitolo 2 della mostra

 

Di fronte al capitolo 2 si trova il primo focus tematico. Esso è dedicato all’uscita dell’Italia dal conflitto, definita dal regime nazista come un “tradimento”. La propaganda tedesca rispolverò vecchi pregiudizi sugli italiani “falsi” e “traditori”. Molti tedeschi, fossero essi sorveglianti nei Lager, capisquadra o passanti, ripresero questi pregiudizi e picchiarono, sputarono addosso o insultarono i militari internati italiani come “traditori”. Anche ai vertici del partito e della Wehrmacht il pensiero della vendetta per l’uscita dalla guerra determinò a lungo le decisioni relative agli internati militari. Tale atteggiamento ostile fu decisivo nel definire le condizioni di vita e di lavoro di questi uomini.
Le condizioni catastrofiche durante i trasporti durati più giorni dei circa 650.000 italiani nei campi di prigionia tedeschi – nella maggior parte dei casi in vagoni bestiame e senza viveri sufficienti – sono descritte nel capitolo 3 per mezzo di fotografie, citazioni e disegni. Poiché i disegni degli internati militari entrano in gioco per la prima volta con questa mostra come fonte particolare per la trasmissione della memoria, essi sono accompagnati da una classificazione didattica come fonti testimoniali. Allo stesso tempo i disegni sono esposti come controrappresentazione rispetto alle immagini della propaganda tedesca relative ai trasporti. In chiusura del capitolo troviamo la prima postazione video tematica con testimonianze degli ex internati militari sulla loro cattura, i trasporti e l’arrivo nei campi di prigionia. I contenuti occupano solo una parete del corridoio, mentre l’altra è lasciata libera. Ciò consente al visitatore di orientarsi agevolmente e permette di vedere il muro originale della baracca.

 

fig. 4 Corridoio

 

All’inizio del capitolo 4 due ulteriori approfondimenti tematici illustrano le differenze esistenti tra la condizione dei prigionieri di guerra italiani e quella degli altri prigionieri di guerra.
Il 20 settembre 1943 Hitler ordinò il mutamento di status degli italiani da prigionieri di guerra a internati militari. In questo modo aggirò il divieto di impiegare prigionieri di guerra come forza lavoro nella produzione bellica stabilito dal diritto internazionale. Gli ufficiali furono esclusi da questa regolamentazione fino all’inizio del 1945. Il cambiamento di status era necessario però anche perché proprio nel settembre 1943 nell’Italia settentrionale fu creata la Repubblica sociale italiana (Rsi) sotto la guida di Mussolini. Essa restò alleata del Terzo Reich fino alla conclusione del conflitto. I membri delle forze armate di uno Stato alleato non potevano essere prigionieri di guerra. Per questo Hitler ordinò il cambiamento di status.
Nel secondo focus tematico viene spiegata una conseguenza fondamentale del particolare status degli italiani. A differenza di quanto accaduto ad altri gruppi di prigionieri di guerra e ai lavoratori forzati civili, agli internati militari fu chiesto se volessero arruolarsi “volontariamente” nella Wehrmacht o continuare a combattere sotto le insegne del nuovo esercito della Rsi. La minaccia in caso di rifiuto alla collaborazione consisteva nella prigionia e nel lavoro forzato. I presupposti per la decisione erano molteplici: in alcuni Lager gli italiani furono spinti ad accettare con appelli punitivi e riduzione delle razioni alimentari. Alcuni speravano, dando la loro adesione, di poter rientrare presto in Italia, altri volevano continuare a combattere in un esercito fascista per convinzione. Circa 190.000 accettarono la collaborazione, 650.0000 rifiutarono di collaborare e restarono in prigionia.

 

fig. 5 Focus tematico              

 

Il capitolo 4 descrive le condizioni di vita dei soldati italiani nei campi di prigionia e nelle aziende sulla base di esempi tratti da diverse regioni del territorio del Reich. La maggior parte dei soldati e dei sottufficiali fu registrata e rapidamente assegnata agli Arbeitskommando. Fino all’estate del 1944 la Wehrmacht fu responsabile per l’amministrazione dei prigionieri, la loro sorveglianza, la punizione e il trattamento dei malati. Al centro della rappresentazione sta la descrizione dell’impiego, delle condizioni sui luoghi di lavoro e negli alloggi. Le aziende sfruttarono gli internati militari come forza lavoro “a basso costo” di cui c’era urgente bisogno e estesero la propria influenza sulle condizioni di vita e di lavoro in misura crescente. Oltre che in agricoltura, gli italiani furono impiegati soprattutto nel settore minerario, nell’industria e in lavori di costruzione. L’impiego rischioso nello sgombero delle macerie o nel recupero di cadaveri crebbe di intensità nel corso della guerra. A causa del trattamento brutale degli italiani in prigionia non si raggiunse l’aumento della produzione desiderato dai vertici nazisti e dalle aziende.
Chiude il capitolo la descrizione dell’assistenza ai malati e delle cause di morte. In totale morirono circa 50.000 militari internati italiani durante la cattura o in prigionia, in quest’ultimo caso spesso a causa di debolezza e malattia. Durante le ricerche gli ex internati o i loro familiari hanno raccontato più volte che i sopravvissuti erano fortemente denutriti. Nei documenti tedeschi sono annotati pesi di 48 kg, o meno, per uomini di 1,72 m di altezza. La fame, la paura della morte durante gli attacchi aerei, il duro lavoro e il disprezzo dei tedeschi contrassegnarono le condizioni di vita dei militari internati italiani.

 

   fig. 6 Il capitolo 4 della mostra

 

L’inattività obbligata degli ufficiali nei campi di prigionia è illustrata nel capitolo 5. Essi furono alloggiati in Lager per ufficiali o in settori separati dei campi per la truppa. A differenza dei soldati, gli ufficiali non dovettero lavorare fino all’inizio del 1945. Alcuni opposero resistenza, per esempio costruendo di nascosto radio per ascoltare le “trasmissioni nemiche” sull’andamento del conflitto. In questo, come negli altri capitoli della mostra, si dà accesso al tema mediante biografie esemplificative, oggetti e fotografie.
Il capitolo 6 è dedicato ad un ulteriore cambiamento di status degli internati. Per poter pretendere migliori prestazioni sul lavoro, nell’estate del 1944 gli internati militari furono passati allo status di civili. Da quel momento più istituzioni divennero responsabili per l’amministrazione, l’alimentazione e l’alloggiamento dei lavoratori forzati italiani. La persecuzione di violazioni vere o presunte era ora compito della Gestapo e non più della Wehrmacht. Le condizioni di vita degli ex internati migliorarono solo temporaneamente: grazie specialmente alla maggiore libertà di movimento essi riuscirono a trovare razioni di viveri supplementari sul mercato nero. Verso la fine della guerra la loro situazione di approvvigionamento peggiorò nuovamente. Inoltre aumentarono le fucilazioni di massa e le esecuzioni di lavoratori forzati da parte della Wehrmacht e della Gestapo, e ciò riguardò anche gli ex internati: per esempio sono documentate fucilazioni di ex internati a Treuenbrietzen, Hildesheim e Kassel.
Sempre nel capitolo 6 un altro focus tematico affronta il rapporto tra gli internati militari e la Rsi di Mussolini dipendente dalla Germania nazista. La Rsi fu dichiarata ufficialmente potenza protettrice degli internati al posto della Croce Rossa internazionale. La Repubblica sociale era dunque responsabile per l’assistenza dei prigionieri italiani, ma sotto il profilo organizzativo  non era nelle condizioni di assolvere a tale funzione. A muovere la Rsi ad impegnarsi sul tema degli internati militari furono soprattutto obiettivi politici. Misure come la spedizione di pacchi ai prigionieri servivano, infatti, soprattutto a guadagnare alla Rsi il consenso della popolazione o a tranquillizzare i parenti dei militari.
Il capitolo 7 mostra la liberazione, l’attesa del rimpatrio per mesi nei campi per Displaced Persons e il ritorno a casa. Gli Alleati organizzarono il rimpatrio prima di Displaced Persons originarie di paesi diversi dall’Italia. Molti ex internati dunque presero autonomamente la via di casa, ma la maggior parte di loro attese i trasporti ufficiali attraverso il Brennero.

 

fig. 7 La parete dei ritratti in chiusura della mostra

 

Il capitolo 8 presenta la situazione degli ex internati nei decenni seguiti al loro rientro in Italia. Inizialmente il destino degli internati militari non riscosse attenzione: la società postbellica italiana a lungo non li riconobbe come vittime. Solo negli anni Ottanta il “No” degli internati alla collaborazione con la Wehrmacht o il nuovo esercito di Mussolini fu riconosciuto come “Resistenza senza armi”. Da parte tedesca fino ad oggi non c’è stato alcun risarcimento per la maggior parte degli internati militari e, sino all’apertura di questa mostra, e neppure è stato creato un luogo di memoria specifico. A conclusione della presentazione si trovano alcune postazioni con testimonianze di ex internati militari sulla vita dopo la guerra e sui risarcimenti negati, così come interviste di volontari e storici sul significato di questo tema nella contemporaneità.
All’allestimento della mostra hanno contribuito in molti. Senza l’aiuto degli ex internati militari e dei loro familiari questa esposizione non sarebbe stata possibile. Hanno messo a disposizione volontariamente la propria storia, o quella dei loro padri e nonni, sotto forma di resoconti, fotografie, documenti e oggetti. Anche gli istituti storici italiani, le associazioni (di vittime e non), i musei e i centri di studio hanno contribuito fornendo informazioni, oggetti e interviste. La maggior parte ha messo a disposizione il materiale gratuitamente o dietro il pagamento di una piccola somma, nonostante la carenza di finanziamenti. Anche da parte tedesca si è registrato l’aiuto di centri per lo studio della storia, privati, storici e memoriali. In questo modo nel Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit ha preso forma una esposizione che intende rendere noto il destino dei militari italiani internati ai visitatori tedeschi e a quelli provenienti dall’estero.
Accompagna la mostra un catalogo di circa 300 pagine in tedesco e in italiano (ISBN 978-3-941772-36-6).

 

NOTE:

Nota 1 L’autrice è vice direttrice del Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit e curatrice della mostra sugli internati militari italiani.
Traduzione dal tedesco di Roberta Mira. Torna al testo

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Tito Menzani, Salvatore Tagliaverga, Un'impresa in porto. Storia della Sapir (1957-2017), Longo, Ravenna 2017, pp. 160

(Daniele D'Alterio)

 

La Sapir è un’impresa a capitale pubblico e privato, fondata nel 1957 per gestire lo sviluppo del porto di Ravenna. Il primo Presidente fu Enrico Mattei, che con Luciano Cavalcoli ed altri aveva compreso la necessità di coniugare risorse statali ed imprenditoriali per creare un più moderno scalo industriale. Nei primi anni Settanta, completate le principali opere infrastrutturali, la Sapir ha ampliato la propria attività, inserendosi con profitto nel settore terminalistico. Quest’ultimo è poi diventato il core-businessdell’azienda.
Questa, in estrema sintesi, è la storia di un’azienda che ha attraversato gli ultimi sessant’anni di storia del porto di Ravenna. Come è in parte intuibile, si tratta d’un caso di studio interessante per più ragioni. Possiamo concentrarle in tre ordini di motivi, così come fanno i due autori del libro: Tito Menzani, docente a contratto di storia economica all’Università di Bologna, e Salvatore Tagliaverga, dottore magistrale in Scienze storiche e cultore di business history.
Il primo motivo è che la storia della Sapir rappresenta un mirabile esempio di sinergie fra pubblico e privato. Enti locali, aziende di Stato, società cooperative e imprese private portuali, insieme, hanno condiviso le risorse per un progetto comune. Non sono mancate le frizioni, così come le inefficienze e le difficoltà, ma in generale si può dire che l’operazione ha dato i risultati sperati.

Il secondo motivo è che la Sapir ha rappresentato un pezzo dell’identità ravennate, nella misura in cui ha fatto del porto una delle dimensioni più importanti dell’economia locale. Sebbene Ravenna non sia affacciata sul mare, come Genova o Ancona, il suo scalo è una sorta di polmone che ossigena il tessuto produttivo e commerciale dell’entroterra. E fino alla metà degli anni Cinquanta il porto di Ravenna era ben poca cosa, relegato ai margini dei traffici adriatici. Il suo potenziamento ad opera della Sapir è stato quindi un fattore determinante.
Il terzo motivo è che le vicende raccontate nel libro intersecano personaggi di elevato spessore. Oltre ai già citati Mattei e Cavalcoli, possiamo menzionare Eugenio Cefis, Giuseppe Medici, Benigno Zaccagnini e Serafino Ferruzzi. Si comprenderà, quindi, che si tratta d’un libro di storia locale ma con un interesse di caratura nazionale.
Il volume è aperto da una prefazione di Riccardo Sabadini, Presidente della Sapir, che ci offre anche belle riflessioni sul futuro di questa società, alla quale segue una presentazione di Riccardo Ceroni – Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Ravenna e Provincia – che rileva come la ricerca metta a fuoco alcuni snodi della storia del Novecento ravennate. Un inserto fotografico, inoltre, abbellisce la pubblicazione: una trentina di fotografie ci offrono infatti la possibilità di ripercorrere visivamente le trasformazioni del porto e del mondo del lavoro ivi imperniato.
Il testo vero e proprio si compone di quattro capitoli, relativi ad altrettante scansioni cronologiche. Il primo ripercorre il dibattito che dal secondo dopoguerra portò alla decisione di costituire la Sapir, dopo la scoperta d’importanti giacimenti nel sottosuolo romagnolo, tra il 1948 e il 1956; il secondo capitolo rimanda alla fase di realizzazione del porto di Ravenna, particolarmente delicata per le difficoltà burocratiche ed infrastrutturali, fra il 1957 ed il 1971; il terzo racconta lo sviluppo dell’attività terminalistica, inizialmente in coabitazione con un ruolo istituzionale della Sapir, tra il 1972 ed il 1994; il quarto capitolo, infine, ricostruisce le svolte più recenti – 1995-2017 – e come tale dismette in parte le caratteristiche dell’approccio storiografico, per assumere le vesti d’una narrazione più agile e “contemporanea”. Molto utile è anche l’appendice finale, che ripropone la trascrizione integrale di quattro documenti, dei quali alcuni stralci sono citati nel testo del libro, e soprattutto la composizione dei Consigli di amministrazione, dalla fondazione della Sapir ad oggi.
Nel merito delle fonti, il corpo principale è costituito dalla documentazione contenuta nell’Archivio aziendale: risultano particolarmente utilizzati i verbali del Consiglio di amministrazione ed i verbali delle assemblee degli azionisti. In secondo luogo, Menzani e Tagliaverga hanno consultato la documentazione contenuta nell’Archivio della Camera di Commercio di Ravenna, a partire dallo spoglio del «Bollettino economico», che periodicamente riportava informazioni sulla Sapir e sul porto di Ravenna. Infine gli autori hanno scandagliato l’Archivio di Stato di Ravenna, gli Archivi del Novecento di Ravenna e l’Archivio Eni di Pomezia, rinvenendo documenti utili.
La ricerca, inoltre, si è avvalsa di alcune interviste, raccolte tra coloro che hanno avuto un ruolo apicale nella Sapir o che ne hanno comunque intersecato la storia. Si tratta di testimonianze che, a detta degli autori, hanno aiutato a comprendere alcuni aspetti che i documenti d’archivio e gli scritti non consentivano di cogliere.
In conclusione, pertanto, possiamo dire che questo volume rappresenta un ottimo contributo storiografico, relativo alla storia d’una società che ha “cambiato pelle” più volte nella seconda metà del Novecento. Questa narrazione, peraltro, appare ben calata nel contesto economico ed istituzionale – locale e nazionale – riuscendo così nell’intento d’offrire una interpretazione efficace e convincente dello sviluppo d’una infrastruttura molto importante e, come tale, molto chiacchierata come il porto di Ravenna.

 

Questa recensione è coperta da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia 

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Angelo Varni

Giovanbattista Ercolani: il "Risorgimento" di uno scienziato (Nota 1)

 

Seconda metà del 1862. L’unità italiana è stata proclamata da appena un anno e Giovan Battista Ercolani, fervido e partecipe sostenitore del, per tanti aspetti, miracoloso percorso risorgimentale scrive al ministro della Pubblica istruzione, il collega dell’università di Pisa Carlo Matteucci, nell’intento di esprimergli i suoi motivi di dissenso in merito al progetto di riforma dell’istruzione, certamente uno degli obbiettivi prioritari del ceto dirigente nazionale.
C’è in tali righe molto della personalità di questo scienziato, già noto a livello internazionale per la vastità e l’originalità degli studi, convinto lungo tutto il corso della sua vita che attraverso le ricerche sperimentali e l’osservazione dei fenomeni naturali fosse possibile il progresso dell’umanità.
Lui che ricevette per gli esiti felici delle sue scoperte le congratulazioni di Darwin, ma che comunque – come ebbe a dire nel commosso ricordo che gli dedicò l’amico Marco Minghetti il 23 novembre 1884 ad un anno dalla morte – sapeva bene arrestare il suo positivismo alle soglie dell’inconoscibile, di quanto riguardava il soprannaturale, l’anima, il destino dell’uomo: «Riconosco – riferiva Minghetti le parole dell’amico – che ci sono questi problemi […] parmi che l’umanità vi risponda col cuore e non colla mente […] [e] la legge morale a me si presenta così chiara, precisa, imperativa, che non arrivo neppure a concepire la possibilità di negarla, o di contraddirla» (Nota 2). Non restava a Minghetti che commentare con un «Felice natura […], nella quale i dettati della giustizia non trovavano alcun dubbio nella teorica, alcuno ostacolo nella pratica!» (Nota 3).
Aveva il tono, dunque, il suo rivolgersi al ministro di chi, pur senza iattanza ma neppure finta modestia, riteneva di aver il diritto per scienza e conoscenza di offrire consigli sugli assetti generali della cultura nel nostro paese, se non altro per la comune appartenenza alla ristretta cerchia di quanti avevano creduto nell’indipendenza della penisola. Intanto, lo rassicurava di essere convinto dell’onestà e della cultura del ministro e di credere nella sua volontà di elevare il livello dell’istruzione nel paese, la causa maggiore ai suoi occhi di decadenza della società. «L’ignoranza – precisava – è una fonte perenne le cui acque melmose e pestilenti s’infiltrano da per tutto e tutte le forze vive per quelle si fiaccano ed annientano onde è che la miseria solo cresca e rigoglia spaventosamente» (Nota 4). Certo di volere la stessa cosa del ministro, Ercolani, «onesto – afferma – quanto il Ministro» (Nota 5), gli esprime il suo pensiero difforme dalla strada che sembrava aver imboccato l’ipotesi di riforma.
Non era, infatti, opportuno ai suoi occhi rivolgere il maggior impegno ad allargare la base dell’istruzione per tutti, bensì dedicarsi a «piantare gli apici, e gli apici sono le scoperte che solo possono fare gli scienziati; l’umanità traduce e applica quelle scoperte nell’infinito campo delle industrie e così la base si allarga e tanto più si eleva la piramide quanto più quel tal apice o scoperta era feconda di applicazioni» (Nota 6).
Il procedere doveva essere, dunque, inverso, dall’alto al basso, perché anche se in un anno si dovesse cancellare – come scriveva – «la piaga dell’analfabetismo in Italia […] La base della piramide sarà larghissima, ma non avremo la piramide, o in altri termini non avremo analfabeti ma avremo l’ignoranza» (Nota 7). C’era certo in questo l’occhio di un ottimate impegnato in una costruzione nazionale pur sempre democratica e liberale, che non poteva non venire da uno sguardo dall’alto; ma nel contempo anche una ferma lezione di realismo e di rifiuto di ogni facile demagogia, tanto da porre il problema ancor oggi apertissimo nel nostro paese della massificazione della cultura livellata al basso e sfiorante, appunto, l’ignoranza.
Nella sua proposta di soluzione affrontava il tema, già allora dibattutissimo, della diffusione delle università periferiche ed anche in questo caso Ercolani si discostava dall’opinione più diffusa e dall’ipotesi ministeriale di chiudere i piccoli atenei ritenuti fonte di spesa improduttiva, convinto com’era che pure in questi luoghi di ricerca scientifica venisse un contributo a «quei sommi veri che fecondano le arti e le industrie umane da cui la grandezza e la prosperità del paese» (Nota 8). Senza mezzi termini avvertiva il ministro che «la via che avete cominciato a battere è sbagliata non solo ma grandemente dannosa». Per concludere con l’affermazione che «Le troppe università d’Italia non sono un male perché sono troppe, sono un male perché non sono buone. Volete voi migliorarle» (Nota 9).
Del resto, già tra luglio ed agosto Ercolani aveva lungamente scritto al neo ministro in merito all’esigenza di dare la meritata dignità scientifica agli studi di veterinaria, dimostrandone l’assoluta importanza per l’esistente connessione tra l’anatomia patologica umana e quella animale, l’urgenza di garantire ai giovani basi di conoscenza ad un tempo teoriche e pratiche, la capacità degli studi applicati agli animali di aiutare il progresso scientifico della clinica e delle connesse terapie, bastava pensare al caso dei vaccini. Ma non è mio compito entrare, in questa sede, nello specifico della sua attività di scienziato capace di aprire nuove vie in una molteplicità di campi legati alla natura umana ed animale, come pure in quella di organizzatore di istituzioni didattiche e di ricerca, fino alla segreteria perpetua dell’Accademia delle Scienze nel 1865, alla presidenza della Facoltà medico-chirurgica e di medicina veterinaria nel 1872, al rettorato tenuto dal 1878 al 1883.
Desidero, però, proseguire il filo ininterrotto del suo ragionare su questa esigenza di affrontare l’organizzazione della pubblica istruzione nell’Italia del post risorgimento ed ancora nel 1872, svolgendo il discorso inaugurale dell’anno accademico, ribadiva quanto scritto al Ministro dieci anni prima che, cioè, «L’istruzione salutare e feconda pei popoli, è come la luce del sole, che scende dall’alto e non dai bassi fondi del semplice alfabeto» (Nota 10). «Il tempio della Scienza è nelle Università: e sono queste che oggi [ricordo che siamo a quasi centocinquant’anni fa] sono in Italia più specialmente colpite, ed è per l’alto insegnamento che pubblicamente si afferma, che il contributo degli insegnanti alla scienza è così scarso nelle troppe Università d’Italia, da doverne sentire vergogna il paese» (Nota 11). La sua reazione era fermissima, bollando di calunniatori quanti disprezzavano il lavoro svolto negli Atenei «e sarà lecito a noi il dire che delle ripetute ed ingiuste accuse siamo stanchi, che la tolleranza fastidiosa concessa alle Università ci offende […] Dove sono in Italia le Biblioteche ed i Laboratori indispensabili per le ricerche degli studiosi? Quanto si fa è un miracolo di abnegazione, e chi ci accusa si provi e poi mantenga le accuse» (Nota 12).
E poi non mancava il richiamo al ruolo dell’Alma Mater, senza dubbio isterilitosi rispetto alle antiche glorie quando Bologna «non chiese mai all’insegnante, di dove vieni? ma solo, che cosa sai? Che cosa insegni? E se tutta Europa veniva qui ad apprendere è pur giusto dire che il fiore d’Europa veniva qui ad insegnare , ed il dotto straniero solo per questo diveniva concittadino» (Nota 13).
A questa tradizione doveva, dunque, riandare l’Ateneo bolognese, nel rispetto inoltre della libertà di coscienza conquistata con l’ingresso in Roma. Concludendo con la solenne affermazione che «Libertà assoluta e tolleranza piena sono la rugiada feconda della scienza che nella continua ricerca del vero, vuole spaziare sicura per giovare all’umanità» (Nota 14).
Ed ancora sei anni dopo, il 19 maggio 1878, parlando all’Associazione Costituzionale delle Romagne riprendeva queste tematiche formative che rappresentavano per lui – e senza dubbio per la gran parte del più avvertito ceto dirigente liberale – lo snodo cruciale per l’auspicata crescita civile e materiale della penisola. Tornava esplicita la difesa dell’esistenza di tutti i luoghi deputati al sapere, Atenei od Accademie che fossero, con un sottolineato richiamo al valore della locale Accademia delle Scienze. Ribadendo come non fosse rilevante il loro numero, bensì la qualità e per questa Ercolani precisava una serie di modalità sostanzialmente rivolte a premiare, anche economicamente, i docenti migliori nella didattica e nella ricerca, allontanando gli altri dalle cattedre.

Accorato il suo grido d’allarme che possiamo ancor oggi fare nostro:

Disgraziatamente in Italia la cultura scientifica non è diffusa; la lingua italiana è poco coltivata fuori, e questi due elementi congiunti fra loro, fanno sì, che le pubblicazioni scientifiche e che non hanno attinenza diretta col pratico esercizio o non solleticano i sensi, i librai naturalmente rifuggono e con maggior ragione non le intraprendono gli stessi scienziati ai quali in Italia manca il mercato per la loro merce che fuori non è richiesta (Nota 15).

Per questo Ercolani ironizzava con quanti avrebbero voluto un’università indirizzata solo a corsi pratici, dall’immediata dimostrabilità e fruibilità e non rivolta a «ritemprare la mente dei giovani nelle alte sfere del pensiero» (Nota 16).
È quindi significativo che fra le carte della corrispondenza Ercolani sia conservato il lunghissimo scritto dedicato alla commemorazione proprio del ministro Matteucci, a sua volta illustre fisico, elaborato dal collega Pier Luigi Perotti ed inviato ad Ercolani con deferente gratitudine. In esso, infatti, vi è un’entusiasta introduzione riguardante le conquiste raggiunte dall’umanità nell’ultimo secolo in tutti i campi della scienza, chiedendosi però al termine quale fosse stato il contributo dell’Italia: «a dir vero dalla patria di Galileo, di Galvani e di Volta sarebbesi aspettata maggior cooperazione a questo gran lavorio» (Nota 17). Dopo aver minutamente illustrato le benemerenze scientifiche e non del celebrato, Perotti chiudeva rendendo «il dovuto omaggio al carro del progresso» (Nota 18), sicuro di incontrare l’approvazione del suo interlocutore.
È evidente che un simile atteggiamento di fervida attenzione ad una crescita culturale del paese si inscriveva nella sempre ribadita militanza di Ercolani fra quanti ritenevano il Risorgimento una sorta di dovere morale, un riscatto da perseguire dopo i secoli della dipendenza dallo straniero e di una frammentazione politica che era stata pure un abbandono del cammino verso lo sviluppo civile, materiale e culturale. Al punto che nell’elogio funebre di Elmer Reynolds, illustre membro della Società Antropologica di Washington, letto in traduzione in una seduta della bolognese Società Agraria, prima di enumerare le sue importanti ricerche e scoperte, e prima di inserire l’elenco dei suoi innumerevoli lavori scientifici e letterari, venne dato rilevante spazio alla «sua assoluta avversione contro ogni ingerenza straniera». E se ne descrisse l’intera parabola delle scelte politiche, iniziate – a dire del biografo statunitense – «colla invasione austriaca del 1848. Fin d’allora egli consacrò tutto il suo ingegno e tutta la sua capacità alla cosa pubblica» (Nota 19).
Ed anche Albano Sorbelli, nella sua veste di direttore dell’Archiginnasio, ringraziando per la scelta degli eredi di donare alla biblioteca cittadina la preziosa collezione libraria raccolta da Ercolani (6.795 le opere tra volumi, opuscoli, manoscritti), sottolineò in uno scritto del 1912 come «Gli avvenimenti del Risorgimento Italiani trovarono in lui un’anima calda e compresa della nobiltà del fine, e giovane ancora si dedicò alla politica e all’affermazione di quei principi che dovevano condurre alla unità d’Italia e alla sua liberazione dallo straniero» (Nota 20).
Egli, infatti, nato nel 1817, si trovò ancora fanciullo alle prese con le vicende dell’insurrezione del 1831, maturando da subito una ferma avversione contro il governo teocratico, senza per questo abbracciare mai le posizioni più estreme e barricadiere. Laureato in medicina e chirurgia nel 1840 e presto assistente di Antonio Alessandrini privilegiando l’attività di ricerca nell’anatomia comparata e veterinaria, appartenne alla cerchia dell’alta borghesia e nobiltà bolognese convinta dell’urgenza, ad un tempo, di spingere il governo pontificio lungo una strada di riformismo che guardasse, in politica, alle grandi monarchie costituzionali europee ed in economia ad una liberalizzazione dai vincoli burocratici e corporativi; e d’altra parte di operare sul piano educativo, per formare un mondo del lavoro – da noi soprattutto agrario – consapevole dei traguardi raggiunti dalle tecniche più avanzate impiegate oltralpe.
Una cerchia di intellettuali ed imprenditori di cui facevano parte, tra gli altri, i Berti Pichat, i Tanari, gli Aglebert, gli Audinot, i Pepoli, i Pizzardi, i Massei, i Ranuzzi e che avevano in Marco Minghetti la figura più eminente e rappresentativa. E che si esprimevano, soprattutto, attraverso le pagine ricche di consigli pratici ai coltivatori dei campi del settimanale «Il Felsineo», fondato nel 1840, appunto, da Berti Pichat, nella cui dimora si riuniva, per altro, la neonata Società Agraria dall’evidente scopo di modernizzare lo statico mondo della realtà pontificia.
Proprio sul «Felsineo» del 28 ottobre 1847 troviamo un suo originale articolo sui benefici della leva militare, distinguendone gli scopi in tempo di pace ed allora utile a togliere dalla società i «disoccupati, i maleducati, gli oziosi, gli immorali, i maleducati»; mentre nei tempi di guerra dovevano essere i migliori cittadini a scendere in campo, disposti ad incontrare «le ambasce e gli strazi di una tremenda lotta col sorriso sulle labbra, perché da un tale sanguinoso e giocondo banchetto sorgerebbe immancabilmente Grande, Libera, ed Indipendente la fin qui serva e prostrata Nazionalità Italiana».
Nessuno strappo rivoluzionario, dunque, era auspicato da questi uomini, nessuna lotta di religione contro il Pontefice sovrano, ma solo la ferma volontà di portarlo verso il rifiuto dell’assolutismo teocratico e per Ercolani in particolare all’indipendenza dallo straniero.
Una speranza che risultò presto vana ed alla quale Ercolani – almeno a dare credito alla testimonianza di Minghetti nel citato discorso commemorativo all’Archiginnasio – mai credette: «quando nel 1847 parve spuntare un’alba di risorgimento, per opera di Pio IX, quando popoli e principi sorgevano nel nome da lui acclamato; e dal Bosforo come dal Gange venivano oratori a prestare omaggio al Pontefice; egli partecipò poco o nulla all’universale entusiasmo, perché non aveva alcuna fede che da fonte teocratica potesse mai venire un’onda di civiltà» (Nota 21). Certo, dunque, era il suo credo democratico e liberale, ma ne temeva gli eccessi che potevano portare alla tirannia ed auspicava un governo in grado di evitarli senza per questo trascendere nell’autoritarismo.
Di questo atteggiamento politico ed ideale diede, del resto, sofferta testimonianza nel turbine del 1848-49 e nel decennio seguente di esilio vissuto lontano dalla propria città e, soprattutto, dal proprio Ateneo. Fu, infatti, eletto alla Costituente Romana ed in tale veste rappresentativa, coerente con i propri principi, votò contro la proclamazione della Repubblica Romana e tutto quanto distogliesse da un ordinato procedere riformatore.
È Luigi Farini a narrare nella sua storia dello Stato Romano, quasi così ad anticipare le sue future scelte a fianco della monarchia piemontese, come Ercolani in assemblea zittisse le lamentele del Cernuschi in merito alla dichiarazione di guerra all’Austria di Carlo Alberto senza aver prima avvisato la Roma insorta, esclamando «Noi andremo alla guerra, e lo sapremo così quando saremo sul campo» (Nota 22).
Con tutta evidenza la sua scelta di essere parte attiva della vicenda romana rientrava nel già citato rifiuto di ogni presenza straniera nel nostro paese. Lo conferma con enfatiche ma persuasive parole la testimonianza dell’amico Audinot, riportata da Minghetti nel discorso commemorativo, là dove afferma esserci stato in Roma

un fascio di uomini, non tutti appartenenti […] alla demagogia; ma tra essi molti uomini devoti ai principî d’ordine, devoti alla monarchia; e vidi quel fascio d’uomini lanciarsi coscientemente, volontariamente senza speranza di vittoria, senza conforto di lode, lanciarsi nella voragine di Curzio, per mantenere integra la protesta contro lo straniero invasore […] per redimere col sangue il nome italiano vituperato e contaminato dagli insulti della reazione furente in Europa (Nota 23).

Per questo accettò di mettere a disposizione della Repubblica le sue competenze di medico. Quattro lettere depositate al Museo del Risorgimento di Bologna e pubblicate da Giovanni Maioli nel bollettino dell’Archiginnasio del 1926, ne testimoniano, tanto, le motivazioni della proposta fattagli (essere cioè docente all’Ateneo bolognese, «occupare in Roma un onorevole posto nel Consiglio supremo militare», «essere infine fornito di non comune dottrina»), quanto alcuni compiti relativi all’organizzazione del servizio ambulanze e all’amministrazione dell’ospedale di San Giacomo in Augusta, nonché gli ordini riguardanti lo smistamento e il ricovero dei feriti. A questi ultimi Ercolani fece seguire una sua piccata nota che ne illustra bene le convinzioni: essendogli stato impedito da padre Gavazzi e da due signore di spostare, secondo le indicazioni ricevute, dalla prima linea di San Pancrazio un’autoambulanza dove i tre si erano installati avendone ricevuto il consenso a questo dallo stesso governo, il Nostro rispose seccamente: «In una Repubblica dove comandano i frati e le puttane i cittadini rassegnano i mandati ricevuti. Salute e Fratellanza». Subito dal ministero della Guerra giunse la preghiera di recedere dal proposito di dimissioni, assicurando che «l’Autorità Suprema del Governo vorrà portar rimedio ai mali deplorati dal vostro rapporto» (Nota 24).
Alla caduta di Roma, nessuna amnistia gli fu concessa ed iniziò per lui un decennio di esilio, prima a Pistoia e a Firenze contando sulla mitezza di Leopoldo II, che però, nel 1851, si adeguò alla diffusa repressione degli altri principi italiani, costringendo il Nostro a riparare, come il fior fiore dell’attivismo risorgimentale italiano, in Piemonte. Lì poté ritrovare lo spazio per i suoi studi, ottenendo presto la cittadinanza ed una supplenza alla appena nata scuola di veterinaria, fondando, pure, il glorioso «Giornale di veterinaria» ed arrivando nel 1859 alla direzione della scuola torinese. Nel contempo maturarono – e non poteva essere altrimenti considerando le sue motivazioni ideali – stretti rapporti con il mondo ruotante attorno a Cavour, con D’Azeglio, come con Farini, con Castelli, come con Mamiani e con, ovviamente, Marco Minghetti.
Non mancò certo all’appuntamento del 1859 quando fu eletto deputato per Bologna all’Assemblea nazionale dei popoli della Romagna, quella che votò la decadenza del potere temporale del Papa e l’annessione al Regno di Sardegna.
L’immenso dolore causatogli dalla morte di parto della figlia parve indurlo ad abbandonare ogni attività politica e scientifica per tornare nella sua Bologna, dove però fu convinto ad rinunciare a simili propositi allettandolo con l’offerta di dirigere la scuola bolognese di veterinaria.
Non si estraniò, per altro, completamente dalla vita politica, venendo più volte eletto al consiglio comunale nel 1863, 1872, 1877, 1882 ed in Parlamento nel 1860, 1866 e 1880, schierandosi sempre a fianco dell’amico Minghetti. Anche se da allora, per i due restanti decenni di vita (scomparve, infatti, a Bologna il 16 novembre 1883) si dedicò soprattutto ai suoi impegni didattici e alle importanti ricerche scientifiche che illustrò in 130 pubblicazioni.
Tra le tante cerimonie che ne onorarono l’attività, la prima forse fu svolta già il 25 novembre dello stesso 1883 presso l’Accademia delle Scienze, che lo volle celebrare quale – come prima detto – segretario perpetuo, mentre il Comune, l’anno dopo, gli dedicava una lapide apposta sulla sua casa in via Castagnoli, commissionando l’epigrafe ad Ernesto Masi, dove veniva definito «anatomico naturalista, scopritore di nuovi veri alla scienza, uomo d’austera virtù, cittadino propugnatore di libertà, coll’esilio decenne, coll’incrollabile costanza dei pensieri dei sentimenti delle opere» (Nota 25).
Spettò poi all’università cittadina dedicargli un busto ed una lapide nell’atrio, con una cerimonia che vide la presenza di molti colleghi delle altre facoltà veterinarie d’Italia, che non mancarono di sottolineare la sua grandezza di scienziato in grado di esprimersi in un ambito ancora percepito come assai meno nobile di altri. Al punto che il direttore della Scuola modenese giunse a lodarlo in quanto «Lui patrizio, di nobilissima schiatta, non disdegnò di vivere tra i veterinari», dedicandosi quindi ad una professione «tenuta a vile» e giudicata «ignobile».
Da parte sua l’oratore designato a commemorarne la figura, il professor Cocconi della Scuola veterinaria di Milano, non mancò di rimarcare la marginalità della disciplina scientifica, riprendendo indirettamente certe tematiche relative al miglioramento degli studi care – come s’è visto – ad Ercolani, dicendo:

maturò e condusse a termine le sue minute ricerche in poverissimi laboratori, ritraendo potente energia dalla stessa deficienza dei mezzi. Non fu grande la mancanza, spesso tanto lamentata in Italia, dei grandi laboratori, di cui dispongono gli stranieri, impedimento al lavoro efficace dello scienziato, se vedemmo la sua grande attività non infrangersi contro questi ostacoli, ma riuscirne splendidamente vittoriosa.

 

NOTE:

Nota 1 Relazione svolta il 30 novembre 2017 al convegno organizzato dalla Società medica chirurgica in occasione dei duecento anni dalla nascita di Ercolani. Torna al testo

Nota 2 Discorso di Marco Minghetti pronunziato nell’Archinnasio bolognese il23 novembre 1884, Regia Tipografia, Bologna 1884, p. 28. Torna al testo

Nota 3 Ivi, p. 29. Torna al testo

Nota 4 Lettera di Ercolani al ministro Matteucci, in Manoscritti Ercolani, carteggio V, n. 22. Torna al testo

Nota 5 Ivi. Torna al testo

Nota 6 Ivi. Torna al testo

Nota 7 Ivi, carteggio V, n. 29. Torna al testo

Nota 8 Ivi. Torna al testo

Nota 9 Ivi. Torna al testo

Nota 10 R. Università di Bologna, Discorso inaugurale letto dal Prof. Gio. Battista Ercolani e parole del Rettore per l’inaugurazione del monumento ad Antonio Bertoloni, Società Tipografica dei Compositori, Bologna 1873, p. 12. Torna al testo

Nota 11 Ivi. Torna al testo

Nota 12 Ivi, p. 15. Torna al testo

Nota 13 Ivi, p. 18. Torna al testo

Nota 14 Ivi, p. 21. Torna al testo

Nota 15 Associazione Costituzionale delle Romagne, Sull’ordinamento degli Istituti Scientifici in Italia. Brevi considerazioni presentate dal socio Prof. G. B. Ercolani, Zanichelli, Bologna 1878, pp. 9-10. Torna al testo

Nota 16 Ivi, p. 14. Torna al testo

Nota 17 Manoscritti Ercolani, carteggio IV, n. 16, Pier Luigi Perotti, Commemorazione di Carlo Matteucci, autografo, in Archiginnasio di Bologna. Torna al testo

Nota 18 Ivi. Torna al testo

Nota 19 Elogio del conte Giambattista Ercolani fatto da Elmer Reynolds, membro della Società Antropologica di Washington, Tipografia di G. Cenerelli, Bologna 1887, p. 5. Torna al testo

Nota 20 A. Sorbelli, I manoscritti Ercolani, in «L’Archiginnasio», VII, (1912), p. 30. Torna al testo

Nota 21 Discorso di Marco Minghetti, cit., p. 31. Torna al testo

Nota 22 Cit. ivi, p. 33. Torna al testo

Nota 23 Ivi, p. 32. Torna al testo

Nota 24 In «L’Archiginnasio», XXI (1926), pp. 240-246. Torna al testo

Nota 25 In «Gazzetta dell’Emilia», 24 novembre 1884, riportato in Cronaca e fatti vari. Torna al testo

 

Questo contributo si cita: A. Varni, Giovanbattista Ercolani: il "Risorgimento" di uno scienziato, in «Percorsi Storici», 5 (2017) [http://www.percorsistorici.it/numeri/]

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Mirtide Gavelli

Fiorenza e il Risorgimento

 

La memoria di chi ha dedicato la propria vita allo studio e all’arte è documentata dalle tracce che ha lasciato; la memoria di chi ha dedicato la propria vita alla ricerca storica è affidata agli scritti frutto del suo lavoro e del suo costante impegno, sostenuti dal piacere della divulgazione del sapere.

ha lasciato numerosi libri, saggi, articoli, indiscusse tracce delle sue riflessioni e del suo lavoro, frutto di giorni e giorni trascorsi negli archivi e nelle biblioteche a scoprire nelle carte storie e microstorie da raccontare e da rendere non esclusivamente ad una platea accademica, bensì a un largo pubblico interessato a conoscere e riflettere sulla propria storia e sulla propria memoria [...] (Nota 1).

Queste parole, scritte non troppi anni or sono da Fiorenza Tarozzi (Nota 2) nella prefazione ad un inedito di uno dei suoi maestri, il professor Umberto Marcelli, si adattano perfettamente a lei stessa, alla sua personalità, al suo percorso di docente e di persona dotata di straordinaria umanità ed empatia.
Diplomata maestra alle Scuole Laura Bassi, Fiorenza aveva appreso (o aveva innata?) la capacità di insegnare e di rapportarsi con i giovani, qualità che andò sviluppando lungo tutto il suo percorso lavorativo, che la aveva portata lontano dai bimbi e vicino ai giovani adulti che frequentano l’Università.
Entrata come docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna nel 1971, all’indomani della laurea conseguita nel 1970 con una tesi dedicata a La Società operaia di Bologna dal 1877 al 1885, relatore il professor Aldo Berselli (Nota 3), si è sempre occupata di Storia del Risorgimento o, per dirla in modo più corretto e più attuale, di Storia contemporanea legata allo sviluppo della società civile in tutte le sue innumerevoli sfaccettature.
Il suo legame con il Risorgimento, ed in particolare con il Museo civico del Risorgimento di Bologna, l’istituzione di cui faccio parte, risale a quegli anni lontani, e si è sempre mantenuto ed anzi  rafforzato nel tempo, costruendo legami non solo lavorativi ma anche amicali ed affettivi.
Cosa legava Fiorenza al nostro istituto, ed in particolare alla sua parte bibliotecaria ed archivistica? Sicuramente l’interesse lavorativo. Ma questo interesse si andava costantemente incrementando grazie alle continue scoperte che venivano fatte tra le sue carte, i suoi archivi, i suoi manifesti, le lettere, le stampe, le fotografie, insomma, seguendo i fili della vita che si possono ricostruire scavando ed approfondendo.
Quando Fiorenza cominciò a frequentare la nostra Biblioteca? Partendo dalla data della sua laurea, abbiamo cercato e ritrovato sul registro delle firme il suo primo “autografo”, apposto il 15 gennaio 1970.
Da quel giorno in poi, fino agli ultimi mesi prima dell’aggravamento della malattia, nella primavera del 2017, Fiorenza aveva salito i nostri 70 gradini (senza ascensore!) migliaia di volte: per studio, per ricerca, per accompagnare studenti e far loro lezione, per spiegare ai giovani come utilizzare gli schedari della biblioteca ed orientarsi nei primi passi del faticoso percorso della ricerca storica, per progettare mostre, conferenze, ricerche, tematiche da sviluppare sul «Bollettino del Museo del Risorgimento», per fare gli auguri di fine anno e portare cioccolatini e dolcetti a tutti (noi bibliotecari, i volontari anziani, ecc. tutti egualmente ringraziati per la collaborazione che riceveva), per le riunioni del Comitato di Bologna dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano.
Gli studi sul Risorgimento, in parallelo alle altre tematiche che col tempo andò sviluppando (le origini del fascismo, la storia del giornalismo, del socialismo e dell’anarchismo, del movimento cooperativo e del mutualismo operaio ottocentesco, la storia delle donne, il rapporto fra donne e lavoro, e tanto altro ancora) segnarono dunque i suoi primi passi nel mondo della ricerca storica, e ad essi restò sempre particolarmente legata, facendola diventare un punto di riferimento autorevole per la storia del “lungo Ottocento”, e non solo, a Bologna e in Italia.
Come dicevamo, da quel lontano gennaio 1970, quando giunse per la prima volta quassù per cimentarsi con l’Archivio della Società Operaia di Bologna, Fiorenza dedicò sempre energia e tempo alla storia del Risorgimento, giustamente inteso come fondamentale momento storico di passaggio tra i secoli pre-illuministi e la modernità del Novecento. Un Risorgimento inscindibile dalla storia globale del secolo, quell’Ottocento ancora tanto bistrattato ma decisamente misconosciuto, fonte invece di continue scoperte di sicuro interesse e, spesso, di autentico divertimento. Soprattutto, frequentando la storia dell’Ottocento tout-court, era diventata una delle prime convintissime sostenitrici della fondamentale importanza dell’intreccio tra discipline diverse. Da qui le collaborazioni sempre caldamente sollecitate e portate avanti, con specialisti di discipline “altre”, viste non più solo come fonte di corredo iconografico per gli studi politici o culturali, ma come veri e propri tasselli fondamentali per la comprensione di un’epoca: pittura, scultura, musica, narrativa, poesia, arti applicate, tecnologia… tutto veniva convogliato nel sentiero della ricerca, per potere meglio comprendere il periodo studiato.
La Società Operaia, dicevamo, fu l'argomento di un corposo saggio comparso sul «Bollettino del Museo del Risorgimento» del 1977, cui seguì il più ampio volume Il risparmio e l'operaio (1987), e da cui prese il via una ininterrotta collaborazione con l'attività scientifica ed editoriale del Museo.
Fu soprattutto grazie a Fiorenza ed ai suoi consigli che il «Bollettino» si trasformò: da raccoglitore di saggi di argomenti vari, divenne un periodico monografico, allargando il proprio campo di indagine a tematiche nuove, spesso da lei stessa suggerite, secondo le tendenze della storiografia più aggiornata.
Nei numeri monografici dedicati all'Emancipazione femminile (a. 1984-1985), all'Associazionismo e alla sociabilità  (a. 1987-1988), alla storia del nostro Museo (a. 1989), ad Armando Borghi e all'anarchismo (1990), ai prestiti nazionali nella Grande Guerra (a. 1991), alle società dei Reduci e Superstiti delle battaglie risorgimentali (a. 1994), agli anni della Restaurazione (a. 1999-2000), allo studioso e rivoluzionario Livio Zambeccari (a. 2001), all’ultimo corposissimo numero dedicato ai volontari garibaldini emiliano-romagnoli  partiti nel 1914-1915 per le Argonne (a. 2013-2016), Fiorenza figura sempre tra i curatori e/o tra gli autori dei saggi. E, come detto, ha collaborato anche alla fase iniziale di redazione e curatela dell’ultimo numero uscito (a. 2017), dedicato al suo maestro Aldo Berselli.
Grazie al suo impulso, anche gli argomenti “tradizionali” poterono essere  affrontati secondo nuovi approcci, più attenti ai risvolti sociali, economici e culturali del Risorgimento, come mostrano i volumi  pubblicati dal Museo nel corso degli anni: Colorare la patria. Tricolore e formazione della coscienza nazionale. 1796-1914 (1996), Risorgimento e Teatro a Bologna (1998), Un giorno nella storia di Bologna. 8 agosto 1848 (1998),  Ugo Bassi: metafora, verità e mito nell'arte italiana del XIX secolo (1999), Cent'anni fa Bologna (2000), Giovani, volontari e sognatori. I Garibaldini dal Risorgimento alla Grande Guerra (2003): di questi, che spesso erano anche i cataloghi di mostre realizzate all'interno delle sale espositive del Museo, Fiorenza volle sempre essere co-curatrice, insieme a noi e ad altri studiosi, secondo la modalità partecipativa e coinvolgente che la contraddistingueva, sempre attenta a valorizzare il contributo di ciascuno. Con il passare del tempo ed il calare dei fondi economici a disposizione, il nostro Museo non ha più pubblicato patinati cataloghi, ma la collaborazione di Fiorenza non è venuta certo a mancare. Le mostre degli anni successivi, realizzate “in economia”, hanno spesso sfruttato la sua competenza e disponibilità, come testimonia l’ultima particolare fatica comune: Voci di scrittori: parole di guerra, parole dalla guerra, curata proprio da Fiorenza con Mirtide Gavelli ed Alessandro Zironi, realizzata nell’autunno 2016 in collaborazione con il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne e il Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell’Università di Bologna. Una particolare mostra dedicata alla letteratura della Grande Guerra, pensata per il centenario di quell’evento, giocata su due piani: da una parte testi e fotografie su pannelli, dall’altra un lungo e affascinante filmato che vede come protagonisti studenti dell’Università di Bologna e loro colleghi del progetto Erasmus, che, in luoghi “speciali”, leggono in lingua originale ed in traduzione italiana brani da letterature sconosciute nel nostro paese. Una faticosa realizzazione, densa di soddisfazioni, che Fiorenza aveva voluto con molta decisione, anche in considerazione dei legami che la univano al Dipartimento di Lingue.
Fiorenza scrisse anche l'ampio saggio introduttivo de Il Museo del Risorgimento di Bologna, pubblicato nel 2013: il primo vero e ponderoso catalogo a stampa del nostro ultracentenario istituto, realizzato grazie alla collaborazione con l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, Istituto con il quale Fiorenza ebbe una lunga e proficua collaborazione, intensificatasi negli anni del 150° anniversario dell’Unificazione italiana (tra tutti: ... E finalmente potremo dirci italiani: Bologna e le estinte legazioni tra cultura e politica nazionale 1859-1911, curato da Claudia Collina e dalla stessa Fiorenza, stampato a Bologna dalla Tip. Compositori nel 2011).
Fiorenza però non soltanto ha svolto un ruolo fondamentale per il Museo dal punto di vista scientifico, ma ha portato il suo contributo di idee e di energie, in modo sempre propositivo e generoso, anche negli aspetti organizzativi e gestionali dei diversi progetti culturali, ricoprendo tra l'altro – a partire dal 1999 –  il ruolo di presidente del Comitato di Bologna dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, che nel corso di tutti questi anni si è rivelato un partner importante e spesso essenziale in molte iniziative.
Profonda conoscitrice del Museo e delle sue raccolte, non ha mai voluto tenere solo per sé queste conoscenze. Al contrario, grazie a lei molti docenti universitari hanno avuto modo di avvicinarsi all'importante patrimonio bibliografico e documentario in esso conservato, traendone materiale per il proprio lavoro scientifico.
E numerosi sono stati gli studenti che Fiorenza, con grande passione didattica, ha introdotto alla scienza storica attraverso lo studio delle fonti presenti nel nostro Archivio, e che si sono poi laureati lavorando su di esse, gli stessi che oggi la ricordano con rimpianto ed affetto.
Ma oltre ad essere una studiosa, un'organizzatrice di cultura, una docente, Fiorenza è stata soprattutto un'amica, una persona di grande sensibilità, con cui era facile sentirsi a proprio agio e valorizzati, con cui veniva spontaneo condividere intuizioni, idee, progetti, anche difficoltà. Una persona capace di stimolare ciascuno di noi a dare il meglio di sé, in vista di un risultato da conseguire insieme.

Appendice 1

Bibliografia: pubblicazioni in collaborazione con il Museo del Risorgimento:

Saggi pubblicati sul «Bollettino del Museo del Risorgimento»: 

La Società Operaia di Bologna dal Mutuo Soccorso alla "resistenza" (1870-1885), in Atti del Convegno di studi su «La Comune di Parigi e la crisi delle formazioni politiche del Risorgimento» (16-18 novembre 1973), a. XX-XXI-XXII, 1975-1976-1977, pp. 41-105; Armando Borghi organizzatore politico-sindacale a Bologna (1907-1911), a. XXVIII, 1983, pp. 24-36; «Anche sotto l'ombra dei cipressi»: la Società di Cremazione a Bologna (1884-1914), con M. Gavelli, in Associazionismo e forme di sociabilità in Emilia-Romagna fra '800 e '900, a cura di M. Ridolfi e F. Tarozzi, a. XXXII-XXXIII, 1987-1988, pp. 107-143; La classe dirigente bolognese e il «Tempio del Risorgimento», con A. Albertazzi, in Il primo centenario del Museo del Risorgimento di Bologna, a. XXXIV, 1989, pp. 23-36; Virgilia d'Andrea, la poetessa dell'anarchia, in Atti del Convegno di Studi: Armando Borghi nella storia del movimento operaio italiano ed internazionale, a. XXXV, 1990, pp. 45-54; "Il cuore e il portafoglio". Gli italiani di fronte ai prestiti di guerra, in L'oro e il piombo. I prestiti nazionali in Italia nella Grande Guerra. Bologna, Museo Civico del Risorgimento (4 novembre 1991- 31 maggio 1992). Mostra e catalogo, a. XXXV, 1991, pp. 11-20; Con la guerra nella memoria: reduci, superstiti, veterani nell'Italia liberale, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, a. XXXIX, 1994; Introduzione storica al Memoriale dell’8 agosto 1848 scritto da Luigi Paioli detto il Matto dei Bastoni popolano bolognese, a. XL-XLI, 1995-1996, pp. 9-22; Negli anni della Restaurazione, a cura di M. Gavelli e F. Tarozzi, a. XLIV-XLV, 1999-2000; Dopo l'esperienza sudamericana: politica, azione e impegno sociale di Livio Zambeccari, in Tra il Reno e la Plata: la vita di Livio Zambeccari studioso e rivoluzionario, a cura di M. Gavelli, F. Tarozzi e R. Vecchi, a. XLVI, 2001, pp. 39-54; Premessa di M. Gavelli e F. Tarozzi in Agamennone Zappoli poeta e drammaturgo, di M. Calore, a. XLVIII, 2003; Donne contro la guerra. Donne per la pace, con E. Guerra e E. Musiani, in Archiviare la guerra: la Prima Guerra Mondiale attraverso i documenti del Museo del Risorgimento, a. L, 2005, pp. 17-39; Tra Nizza e le Argonne. I volontari emiliano-romagnoli in camicia rossa 1914-1915, a cura di M. Gavelli e F. Tarozzi, a. LVIII-LXI, 2013-2016.

Volumi:

Risorgimento e teatro a Bologna 1800-1849, a cura di M. Gavelli e F. Tarozzi, Bologna, Patron 1998; Cent'anni fa Bologna. Angoli e ricordi della città nella raccolta fotografica Belluzzi, a cura di O. Sangiorgi e F. Tarozzi, Bologna, Costa 2000; Dai campi di battaglia a Caprera. Le Osservazioni di Giuseppe Nuvolari alle Memorie del Generale Garibaldi, a cura di M. Gavelli, O. Sangiorgi e F. Tarozzi, Bologna, Museo civico del Risorgimento 2005; Tommaso de' Buoi, Diario delle cose principali accadute nella città di Bologna dall'anno 1796 fino all'anno 1821, a cura di S. Benati, M. Gavelli e F. Tarozzi; presentazione di A. Varni, Bologna, BUP [2005]; U. Marcelli, Imola nel Risorgimento: un inedito Ottocento imolese, a cura di C. Sabattani, Imola, Angelini 2011; Dentro la storia. Il Museo del Risorgimento di Bologna, in Il Museo del Risorgimento di Bologna, Catalogo a cura di M. Gavelli e O. Sangiorgi, Bologna, BUP 2013, pp. 1-28. 

Cataloghi:

Collaborazione ai testi ed alla progettazione della mostra: Passi di danza, passi di parata. Feste civili e patriottiche a Bologna. 1796-1870, a cura di C. Collina e M. Gavelli, Museo civico del Risorgimento, Bologna  1994; Colorare la patria. Tricolore e formazione della coscienza nazionale. 1796-1914, a cura di M. Gavelli, O. Sangiorgi, F. Tarozzi, Vallecchi, Firenze 1996; Un giorno nella storia di Bologna. 8 agosto 1848, a cura di M. Gavelli, O. Sangiorgi, F. Tarozzi, Vallecchi, Firenze 1998; Ugo Bassi: metafora, verità e mito nell'arte italiana del XIX secolo, a cura di C. Collina, M. Gavelli, O. Sangiorgi, F. Tarozzi, Compositori, Bologna 1999; Giovani, volontari e sognatori: i Garibaldini dal Risorgimento alla Grande Guerra, a cura di R. Balzani, M. Gavelli, O. Sangiorgi e F. Tarozzi, Costa, Bologna 2003.

Appendice 2

Fiorenza e il Comitato di Bologna dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano

L’Istituto per la storia del Risorgimento italiano nacque ufficialmente nel 1935, come trasformazione della Società Nazionale per la storia del Risorgimento, istituita nel 1906. I Comitati provinciali godono di una discreta autonomia, ed il Comitato bolognese in particolare, ha da sempre indirizzato tale autonomia ad una fattiva collaborazione con il locale Museo del Risorgimento.
Questa tradizione, portata avanti in passato da Giovanni Natali ed Umberto Marcelli, storici presidenti, fu accolta e portata avanti da Fiorenza Tarozzi. Fiorenza era stata nominata vice-presidente nel dicembre 1996 e, all’indomani della morte di Marcelli, il 7 settembre 1999, era stata eletta Presidente, raccogliendone il testimone e divenendo Presidente, sempre poi riconfermata nelle elezioni successive. In questa veste aveva potuto offrire tutta la collaborazione possibile alla realizzazione di progetti, quasi tutti, come detto, in collaborazione con il Museo: contributo all’impianto di spettacoli teatrali, realizzazione di documentari, conferenze, realizzazione di siti e produzioni digitali, spesso decisamente precursori dei tempi, unitamente alle collaborazioni con British Council, Associazione Mazziniana Italiana, Forum delle Associazioni culturali bolognesi, Fondazione del Monte, Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna, Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna e tantissime altre realtà bolognesi, cosa che aveva consentito di creare una rete di attività di tutto rilievo, pur nella ricorrente penuria di finanziamenti.
Tra questi importanti contributi, ricordiamo come la competenza di Fiorenza fu preziosissima in termini culturali ma anche come aiuto amministrativo nella realizzazione di documentari e lavori multimediali che, a partire dagli anni 2000, vennero prodotti in collaborazione con giovani documentaristi che a lei ed a noi si rivolgevano proponendo queste nuove strade.
Ecco così nascere, anche grazie al contributo della Fondazione del Monte di Bologna e di altri partners i documentari Bologna nel lungo Ottocento (2008), La città rossa nella Grande Guerra (2008), Operazione Radium (2009) e Bologna la Nera (2012), tutti firmati da Alessandro Cavazza, per i quali Fiorenza aveva fornito ampia consulenza storica nonché l’intermediazione del Comitato per l’acquisizione di finanziamenti, e aveva anche prestato la propria immagine e voce in numerose interviste (è possibile ascoltarle e riviverle cercandone gli stralci sul portale www.storiaememoriadibologna.it, mettendo proprio il suo nome nella finestra di ricerca “tutto l’archivio”).

 

NOTE:

Nota 1 F. Tarozzi, Prefazione, in U. Marcelli, Imola nel Risorgimento: un inedito Ottocento imolese, a cura di C. Sabattani, Angelini Imola 2011.
A Umberto Marcelli Fiorenza dedicò anche il ricordo comparso sulla «Rassegna storica del Risorgimento», 4 (1999): «Il 9 giugno 1999 è morto a Bologna Umberto Marcelli, aveva da poco compiuto 89 anni (era nato l'8 aprile 1910). Una lunga vita dedicata agli affetti più cari: la famiglia, l'insegnamento, lo studio. Impegni e doveri la scuola e la ricerca scientifica che ha saputo e voluto svolgere con largo trasporto e tenace affezione, come testimoniano il ricordo di quanti sono stati suoi allievi prima, collaboratori e amici poi.Insegnante al liceo classico Galvani dal 1946 uno dei più illustri istituti cittadini dove si era maturato nel 1929 e dove tornò, per chiudere la sua carriera, come preside lasciò quell'incarico all'inizio degli anni sessanta per assumere la presidenza del più antico istituto magistrale cittadino, il Laura Bassi. In quegli stessi anni, ottenuta la libera docenza in Storia del Risorgimento, venne chiamato alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Ateneo bolognese sulla cattedra che era stata di Giovanni Natali.
Insegnamento e ricerca divennero, da allora, qualcosa di inscindibile come dimostrano numerosi studi nati spesso come lezioni ai suoi studenti…  Dal 1962 al momento della scomparsa Umberto Marcelli è stato Presidente del Comitato bolognese dell'Istituto ..., un impegno che ha inteso come fattivo di iniziative… In gran parte i risultati di questi incontri sono stati pubblicati sul Bollettino del Museo del Risorgimento di Bologna.
Del resto Marcelli, sempre disponibile a offrire con generosità il suo sapere, non ha mai mancato di collaborare alle iniziative svolte dal Museo del Risorgimento bolognese dove lo ricordano sempre come: un gentiluomo d'altri tempi, una persona umanamente squisita, che univa un'enorme competenza scientifica a un'affabilità rara».
Leggendo queste note, non si può fare a meno di considerare come il percorso di Fiorenza sia stato tanto simile a quello del suo maestro Marcelli: dalle scuole Laura Bassi all’Università, alla Presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano-Comitato di Bologna, presidenza assunta all’indomani della morte di Marcelli, nel 1999, e tenuta fino al 2017, al momento della sua scomparsa. Torna al testo

Nota 2 Fiorenza era nata a Bologna nel 1948, ed è scomparsa il 15 luglio del 2017, sempre a Bologna. Note in sua memoria sono state scritte da alcuni dei suoi più cari amici. Si veda dunque: G. Sofri, Fiorenza Tarozzi, in http://storiaefuturo.eu/fiorenza-tarozzi-musiani/, in cui è tratteggiato un tenero e commosso ritratto della studiosa e della donna, ed anche la brevissima nota di Alberto Preti redatta come necrologio per il sito della SISSCO, Società italiana per lo studio della storia contemporanea, di cui Fiorenza faceva parte: Fiorenza Tarozzi 1948-2017 in http://www.sissco.it/in-memoriam/fiorenza-tarozzi/, o ancora le parole di Elda Guerra sul sito della Fondazione Argentina Altobelli http://www.fondazionealtobelli.it/uno-scritto-di-elda-guerra-per-ricordare-la-compianta-fiorenza-tarozzi/. Molti altri contributi, più o meno intensi, sono reperibili sul web. Torna al testo

Nota 3 Ad Aldo Berselli è dedicato l’ultimo numero monografico del «Bollettino del Museo del Risorgimento» cui Fiorenza ha lavorato, uscito nel gennaio 2018: F. Cammarano, A. Preti, F. Tarozzi (a cura di), Rileggere Aldo Berselli, a. LXII, 2017. Il volume, che raccoglie gli atti di una giornata di studio dedicata a Berselli, è stato fortemente voluto da Fiorenza che, finché ha potuto, vi ha lavorato con il consueto slancio. Torna al testo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Elena Lamberti

Montréal e il Sessantotto canadese. Una storia da scoprire

 

1. L’isola che non c’era

Le storie legate al 1968 canadese richiedono chiavi di lettura di quel momento storico un po’ diverse da quella che è diventata nel tempo – e in occidente – la narrazione dominante a livello transnazionale. Pur se inscritto nel sistema mondo, il 1968 a Nord degli USA segna infatti un momento fondamentale più per la definizione dello stesso Canada che per la volontà di rinnovamento o di cambiamento di un dato ordine (politico, economico, culturale, sociale), che pure si registra. Toronto, Montreal o Vancouver non sono le prime città che ci vengono in mente quando si parla di quegli anni. Non a caso, le riflessioni sul Canada di quel periodo si radicano in seno ad un paradigma che è soprattutto letterario-culturale (il multiculturalismo letterario, figlio del postcoloniale e del postmoderno), non solo storico, anche se il primo è strettamente connesso al secondo. Le ‘storie’ letterarie e culturali del Canada di quegli anni, ivi comprese quelle di critica letteraria, sono, infatti profondamente inscritte nella Storia della nazione e, anzi, diventano territori utili a comprenderla. Sono territori concettuali, luoghi simbolici di un percorso che definisce il Canada quale realtà occidentale diversa sia dall’Europa che dagli Stati Uniti proprio a partire dal decennio 1960-1970. Il 1968 in Canada è, infatti, un’altra cosa: è il periodo in cui il Canada si affranca dalla madre patria britannica ed avvia un percorso di riforme interne che lo trasformeranno, nel giro di due decenni, in un modello di società inclusiva e multiculturale. Le proteste che caratterizzano il resto del mondo occidentale saranno qui molto più sfumate e meno impetuose poiché il nuovo governo Trudeau e i nuovi movimenti culturali avviati in seno alle stesse università porteranno già novità politiche, sociali e ambientali, che renderanno le proteste canadesi quasi folkloristiche se paragonate a quelle che hanno luogo, nello stesso decennio, a sud del confine nazionale o in altre nazioni europee. In Canada, gli scontri più importanti non si avranno nelle università o nelle piazze, dove le manifestazioni diventeranno più occasioni di critica all’imperialismo statunitense che all’establishment locale; si avranno invece nell’unica provincia di cultura francofona, il Québec, già Upper Canada, che vede nella fase post-coloniale l’opportunità di affrancarsi non solo dal Regno Unito, ma anche dallo stesso Canada. Il sogno di un ‘Québec libero’ è un sogno nel ‘68 canadese e tale rimarrà: la lotta armata verrà sconfitta già nel 1970, la lotta politica resisterà, pur se con alti e bassi, fino agli inizi del ventunesimo secolo. Ad eccezione di (pochi) scontri violenti che si concentreranno nel periodo 1963-1970, la storia del ’68 canadese è una storia di rivoluzioni abbastanza tranquille e, anche, di rivoluzioni in fondo riuscite, se con questo si intende la realizzazione di una progettualità condivisa trasversalmente e in seno alla nazione. E’, invece, oggi, nei primi decenni del ventunesimo secolo, che il Canada sta rimettendosi in discussione: le celebrazioni dei centocinquant’anni di vita della nazione sono diventate l’occasione per fare i conti con alcune questioni del passato (coloniale e no) lasciate in sospeso, soprattutto nei confronti delle popolazioni native. Ma questa è un’altra storia.
Quello che si costruisce attorno al 1968 in Canada è dunque un progetto politico e culturale nuovo, che si perfeziona a cento anni dalla nascita della prima Confederazione (Nota 1)e che matura nella prima fase postcoloniale della nuova nazione canadese; nel Canada di quegli anni, la necessità di costruire una identità nazionale infine libera dalle influenze politiche e culturali britanniche prevale sulle istanze sessantottine che caratterizzano il resto del mondo. Il governo, le province e i territori del Canada devono convergere su una progettualità che è prima di tutto legata alla definizione di una idea di nazione chiaramente distintadalla ex-madrepatria; solo successivamente potrà diventare anche progettualità legata al ruolo che il Canada potrà occupare in seno al mondo, occidentale e non. Negli Anni Sessanta, il nuovo progetto politico e culturale canadese poggia così su qualcosa che prima non c’era o, almeno, non era visibile. Proprio come le isole costruite ex novo per l’Esposizione Internazionale di Montréal del 1967, progetto considerato utopico e destinato a fallire perfino nelle proiezioni statistiche di un computer interrogato all’epoca per studiarne la fattibilità (Nota 2). Invece, grazie alla determinazione di un team guidato dall’allora nuovo sindaco di Montreal Jean Drapeau, il materiale di risulta proveniente dagli scavi della metropolitana venne riutilizzato per ampliare l’isola di Sainte Hélène e creare ex novo quella che oggi va sotto il nome di isola di Notre Dame (sulla quale si correrà, dal 1978, il gran premio del Canada di Formula 1). Allo stesso modo, il Canada guidato da un giovane primo ministro liberale, Pierre Eliot Trudeau, eletto proprio nel 1968 saprà rinnovare la nazione riorganizzando il sostrato umano e culturale che la compone e che viene alla luce proprio in quel decennio, il primo di un Canada pienamente postcoloniale. Originario del Québec, enclave francofona in un territorio dominato dalla cultura e dalle tradizioni britanniche, sarà proprio il montrealese Trudeau a fermare drasticamente lo slancio indipendentista che matura, in quel decennio, nei territori divenuti britannici dal 1759. Trudeau sta al Canada come Jean Drapeau sta all’Expo 67: sono due ingegneri della nazione capaci di progettare realtà destinate a tradurre idee astratte in luoghi tangibili e permanenti. Luoghi che possono essere compresi meglio se si pensa al periodo che ruota intorno al 1968 come alla data che segna uno spartiacque tra un Canada coloniale e un Canada post-coloniale.

 

2. Il contesto intellettuale: il mezzo è il messaggio

In quegli anni, anche nelle università canadesi si inizia a registrare la voglia di cambiamento, la necessità di ascoltare e dare voce a nuovi soggetti culturali e politici; ma la ‘ribellione’ non parte tanto o solo dagli studenti. All’Università di Toronto un professore di letteratura innesca una enorme rivoluzione accademico-culturale: dal suo Centro per la Cultura e la Tecnologia istituito ufficialmente nel 1964, Marshall McLuhan cambia l’idea di ‘comunicazione’ e la inscrive in una idea di ‘ambiente’ complesso, in continua evoluzione proprio per effetto della relazione dinamica tra gli individui, le loro estensioni tecnologiche e la realtà che insieme abitano (Nota 3). Dal campus dell’Università di Toronto, McLuhan riconosce e ufficializza le controculture dell’epoca, le studia nei suoi corsi come manifestazioni inscritte nel nuovo villaggio globale – da lui tradotto anche in termini di nuovo tribalismo elettrico – che rende obsolete molte delle istituzioni dominanti, scuola compresa, oltre che le idee di nazione e confini. McLuhan osserva la nuova realtà socio-tecnologica e suggerisce come il mondo stia andando più veloce dei vecchi programmi scolastici; scandalizza la vecchia guardia accademica perché afferma, anche in modo provocatorio tra l’artistico e il visionario, che per capire la realtà del tempo occorrano nuove mappe mentali e cognitive, occorra abbandonare la linearità del mondo gutemberghiano (ordinato e gerarchico) per aprirsi alla nuova sinestesia percettiva dell’era elettrica (poi elettronica e oggi digitale), per sua natura acustica, inclusiva, ecologica. Il cosiddetto pensiero generalista di McLuhan ben si sposa con il rinnovato olismo culturale delle nuove generazioni e quel centro di ricerca universitario diventa, in pochissimo tempo, luogo catalizzatore di idee innovative e meta di pellegrinaggi costanti, tanto di vecchi politici che di giovani artisti. Famosa, tra le tante, è rimasta la visita di John Lennon e Yoko Ono, a colloquio per ore con McLuhan. In questo caso, la rivoluzione culturale parte sì da una università, ma non è dettata dagli studenti in protesta, bensì da un gruppo di docenti in forza a quella università (che non avranno, naturalmente, vita facile). All’università di Toronto, gli scontri più importanti, quelli decisivi, non sono tanto in piazza, bensì nelle stanze dei bottoni di quella istituzione. E’ una lotta intestina tra conservatori e progressisti: non c’è, in questo senso, una rottura generazionale così violenta come in altre realtà occidentali.
Naturalmente, non è che non vi siano manifestazioni nelle accademie canadesi, ivi inclusa la realtà in cui opera McLuhan; però, a ben guardare, le proteste (poste in essere più a Vancouver che a Toronto; quella di Montréal è, invece e come vedremo, una situazione unica e complicata dalla presenza del movimento per l’Indipendenza del Québec) non hanno tanto come bersaglio il governo del Canada o la società canadese, ma piuttosto la realtà degli Stati Uniti d’America e il ruolo degli USA nel mondo, ovvero una certa idea di ‘modello occidentale’ nel quale il Canada non si riconosce. Certo, si rivendicano anche i diritti delle minoranze, ma sulla questione femminile e su quella delle prime nazioni, ci si soffermerà soprattutto negli anni settanta (la Royal Commission for the Status of Women, istituita nel 1967, darà i suoi frutti nei primi anni Settanta, mentre l’Indian Act del 1876 verrà emendato solo a partire dal 1985 e, ancora, nel 2002 ed oggi). Nei campus universitari, la protesta studentesca contesta soprattutto l’imperialismo americano, la guerra nel Vietnam e, così facendo, contribuisce a delineare una specificità canadese unica e originale rispetto a quella statunitense, sfumando l’idea di un Nord America schierato compatto su un unico modello liberal, legato a nuovi colonialismi economico-finanziari. Il Canada non può e non deve essere imperialistaperché come nazione è stata assoggettata a sua volta ad un impero, quello britannico. Proprio negli anni Sessanta, il Canada come nazione si definisce infatti in chiave prettamente post-coloniale. La Confederazione Canadese, che porta quattro colonie britanniche (compreso il Québec) a riunirsi sotto il dominio britannico nel 1867 celebra nel 2017 i suoi centocinquant’anni. Oggi le province sono dieci alle quali si uniscono tre territori, l’ultimo dei quali, istituito il 1 aprile del 1999 è il Nunavut: è il più grande e il meno popolato, separato dai Territori del Nord Ovest per riconoscere l’identità di popolo agli Inuit e dare loro un luogo definito in seno alla nazione. Fino al 1931, l’Inghilterra ha potere legislativo sul Canada, un potere poi rivisto con quello che va sotto il nome di “Statute of Westminster”, perfezionato nel 1949 con la concessione fatta dall’Inghilterra al Canada di poter emendare direttamente la costituzione, ma non in tutti i casi. Il ‘Citizen Act’ è del 1947: da quel momento chi nasce sul territorio canadese non è più suddito britannico ma cittadino del Canada. Il “rimpatrio di costituzione” dall’Inghilterra al Canada (termine tecnico col quale si indica il trasferimento di un potere governativo da una ex madre patria ad una nazione da poco indipendente) avrà invece luogo solo nel 1982.
Il Canada negli anni sessanta è, dunque, una giovane nazione post-coloniale che sta ancora rivedendo la propria carta costituzionale, ovvero una nazione che si sta ridefinendo nel suo progetto politico, culturale e identitario. Ed è qui che diventa utile recuperare il paradigma letterario, che si configura come luogo simbolico per definire cosa sia stato soprattutto il 1968 (e tutto quel decennio) in Canada.

 

3. Il Rinascimento del Nessuno Canadese

Il decennio 1960-70, infatti, viene connotato nei manuali di letteratura canadese come “Rinascimento Letterario”, ovvero momento in cui il Canada inizia ad esprimere una letteratura davvero autonoma, capace di creare nuovi canoni e nuovi classici slegati dai modelli inglesi dominanti fino a quel momento (e, infatti, gli stessi manuali parlano di due fasi letterarie precedenti quel Rinascimento, in termini di ‘prima’ e ‘seconda’ fase imitativa, rispettivamente dal 1867 al 1945, dal 1945 al 1960) (Nota 4). È una letteratura che segue perfettamente la storia del Canada, che si è trovato a passare da una fase coloniale a una fase postcoloniale in un tempo piuttosto breve, passando, per dirla con il poeta Robert Kroetsch, da una fase di pre-nazione a una fase di post-nazione senza mai essere diventato veramente una nazione (Nota 5). Non a caso, lo stesso McLuhan definì, in quegli anni, il Canada come un ‘nessuno’, di fatto come una nazione in divenire. Non è una definizione negativa, anzi. Secondo McLuhan, «Il nessuno canadese può avere il meglio di due mondi: da un lato, la dimensione umana della piccola nazione e, dall’altro, i vantaggi immediati derivanti dalla sua prossimità con una grande potenza» (Nota 6). Negli anni sessanta, il Canada è dunque una realtà in movimento tra due estremi: la vecchia Europa e la giovane America made in USA, ovvero una realtà in movimento tra il vecchio e il nuovo imperialismo.
Il dominio britannico in Canada non è però comparabile a quello britannico in India o in altre realtà del mondo, se non nei confronti delle popolazioni autoctone, di fatto sterminate non tanto con le armi, quanto con strategie di dominazione che portano alla negazione costante di diritti primari e al genocidio culturale. Già dai primi del settecento, i bianchi hanno conquistato e dominano il Canada e le guerre sono soprattutto guerre europee giocate sul territorio canadese, con i nativi schierati con l’una o con l’altra fazione: francesi contro inglesi, con questi ultimi trionfatori assoluti dalla metà del Settecento. La minoranza francofona resiste nell’antico Upper Canada, oggi Québec, e si rifarà sentire, a livello nazionale, a partire dal decennio che ci interessa. Di conseguenza, la dominazione britannica sul Canada è relativamente ‘tranquilla’: dal sistema scolastico a quello parlamentare a quello culturale, la nuova confederazione canadese fondata nel 1867 si connota più in contrapposizione agli Stati Uniti (che per tutto quel secolo minacceranno di espandersi verso Nord, soprattutto sulla costa orientale) che all’Inghilterra (e non a caso, già all’epoca della Rivoluzione Americana sono molti i lealisti che trovano rifugio nel grande Nord; così come, dal 1834 erano stati molti gli schiavi in fuga verso il Canada, colonia britannica che aveva abolito la schiavitù in conformità alle decisioni di Londra). Nella storia del Canada bianco manca così un episodio fondante comparabile a quello di altre ex-colonie (come, ad esempio, la rivoluzione americana o, nel secolo scorso, le lotte del movimento per l’indipendenza dell’India): dalla fine del Settecento alla metà del Novecento, la storia costituzionale di questa nazione si costruisce attraverso una serie di trattati e di negoziazioni che portano, nel tempo, il Canada dominio britannico ad acquisire via via nuove autonomie legislative e politiche, che si perfezionano, come si diceva, nel secondo dopoguerra. Il prezzo della libertà e dell’autonomia canadese viene pagato, infatti, anche attraverso un numero elevatissimo di morti durante le due guerre mondiali, essendo le truppe canadesi truppe di sudditi al servizio, di fatto, di sua Maestà Britannica.
Il Canada giunge, per così dire, a maturazione come nazione indipendente proprio nel momento in cui il mondo occidentale delle realtà nazionali viene messo in discussione dall’interno, dai movimenti di protesta degli anni sessanta. La storia della letteratura canadese, come da manuale, lo conferma: per effetto di quella maturazione, il Canada passa da una idea vittoriana a una idea postmoderna dell’arte. Il dibattito sull’esistenza o meno di una fase ‘modernista’ o ‘nazionale’ della letteratura canadese è molto recente e si accende solo nel ventunesimo secolo, con una serie di progetti editoriali guidati dall’Università dell’Alberta (Nota 7). La storia letteraria sembra così confermare il passaggio suddetto, quello che porta il Canada da una fase di pre-nazione (esiste la confederazione ma si è culturalmente ancora profondamente influenzati dall’Inghilterra – prima e seconda fase imitativa) ad una fase post-nazionale (il Canada che apre la carta costituzionale al Multiculturalismo, prima e unica nazione al mondo a dare veste giuridica alla complessità culturale di una realtà multietnica, tipicamente post-coloniale) (Nota 8). Il grande autore e poeta canadese, prima nominato, Robert Kroetsch, ha proprio sottolineato come la Storia abbia eletto il Canada a luogo perfetto per diverse istanze post-moderne sottolineando come le discontinuità nazionali abbiano reso il Canada maturo per le discontinuità del postmoderno. Non è, in fondo, un caso che sia canadese una delle maggiori voci teoriche del postmoderno, quella di Linda Hutcheon. Il Rinascimento degli anni sessanta porta infine il Canada al centro dell’attenzione della comunità accademica quale nazione culturalmente contrapposta agli USA, capace di proporre progetti artistici in sintonia con il mondo libero e orientato a nuove forme di giustizia sociale, ecologica ed economica. Ovvero: romanzi e opere del postmoderno, che inglobano tutte le istanze di altri post dell’epoca, il post-coloniale in primis.
Le rivoluzioni che hanno luogo in Canada in quel decennio sono così rivoluzioni un po’ diverse da quelle che hanno luogo nelle altre realtà occidentali, pur inscrivendosi in quel percorso di ribellione e protesta. Anche nella pur pacifica Vancouver, così come in altre città canadesi, si trovano cartelli affissi nei negozi che pregano gli Hippies di entrare dalla porta sul retro (viene in mente la scena iniziale del celebre film Easy Rider, allorché i bikerssi vedono rifiutare una stanza in un Motel che, al loro arrivo, annunciava ‘vacancies’ – l’insegna viene rapidamente cambiata in ‘no vacancies’, tutto esaurito, dal proprietario spaventato alla vista di uomini “veramente” liberi). Ma la rivoluzione di cui ancora si parla in Canada quando si pensa al decennio 1960-70 non è tanto quella legata ai movimenti della protesta studentesca, quanto quella che ha avuto luogo in Québec, nel Canada francofono, e che è passata alla Storia come ‘rivoluzione tranquilla’, anche se in realtà ebbe onde di rimbalzo violente, sorprendenti per la nazione. 

 

4. La rivoluzione tranquilla di Montréal

Il concetto di ‘rivoluzione tranquilla’ è, infatti, un concetto tipicamente canadese, una sorta di ossimoro che ben definisce il cliché culturale su cui si fonda, nell’immaginario collettivo, la differenza identitaria delle due grandi realtà nordamericane: la war mentalitystatunitense opposta alla peace mentalitycanadese, ovvero l’imperialismo contro la negoziazione diplomatica e civile. E’ un luogo comune identitario sottointeso in molta letteratura e in molta cinematografia contemporanea. Il cliché è stato, per esempio, tradotto in memoria collettiva da una divertente pellicola diretta da un giovane Michael Moore, Canadian Bacon (1995): finita la guerra fredda, l’industria bellica statunitense è in crisi; urge, quindi, trovare un nuovo nemico, una nuova minaccia per fare ripartire il mercato delle armi e il livello di occupazione interno. Gli spin-doctorsal servizio del presidente americano si inventano così la minaccia canadese: altro che pacifici, i canadesi si stanno insinuando tra la popolazione degli Stati Uniti minandone pericolosamente abitudini ed economia. Un gruppo di americani di frontiera prende la minaccia sul serio e decide di invadere Toronto, di fatto senza incontrare resistenza poiché i canadesi non ne vogliono proprio sapere di combattere; anzi, non capiscono nemmeno di essere attaccati, tanto è lontana da loro l’idea di guerra e radicata, invece, quella di buon vicinato. John Candy (che, ironicamente, era canadese), Alan Alda, Rhea Pearlman e Kevin Pollak sono nel cast che dà vita ad una delle invasioni più improbabili della storia del cinema nordamericano, satira ironica dei due modelli identitari antitetici che abitano quella regione. Lo stesso Moore ha poi consolidato il cliché in una serie di camei cinematografici sul Canada pacifico e sugli USA guerrafondai in quasi tutti i suoi successivi docu-fiction (Canadian Baconresta a tutt’oggi la sua unica pellicola interamente di finzione).
Il concetto canadese di “rivoluzione tranquilla” non è però solo cliché culturale, astratto o astorico, anzi è connotato e datato in modo preciso: è stato coniato in Canada per incorniciare il periodo qui preso in esame e indicare l’insieme dei cambiamenti culturali, politici e sociali che hanno caratterizzato la provincia del Québec. Per questo, Montreal è la realtà urbana più interessante per parlare di 1968 e dintorni rispetto al Canada. E sempre a Montreal è ambientato il romanzo canadese che segna quel passaggio culturale e politico, ormai assurto a classico della letteratura canadese del Rinascimento, dunque sessantottina: Beautiful Losers, di Leonard Cohen, scritto tra il 1964 e il 1965, pubblicato nel 1966, accolto con perplessità, per così dire, dalla critica coeva e canonizzato dalla fine del decennio successivo come romanzo postmoderno e postcoloniale. Il linguaggio osceno e provocatorio di quel romanzo fa da controcanto alla rivoluzione tranquilla e avvia una serie di riflessioni sulle grandi questioni lasciate fino a quel momento in sospeso, due su tutte: la voglia di autonomia e di indipendenza della comunità francofona concentrata nella provincia del Québec, che si risveglia con la rinnovata autonomia canadese dalla dominazione britannica; la storia negata delle prime nazioni, che a Montreal e in Québec è stata condizionata anche dalla presenza soffocante della Chiesa Cattolica. Sono proprio queste due questioni a connotare il 1968 di Montreal, con la prima capace di innescare ribellioni per nulla pacifiche e piuttosto violente.
Nel 1960, il Québec passa, per così dire, dal Medioevo al Rinascimento. Con l’elezione del liberale Jean Lesage alla guida del governo provinciale termina l’epoca dei conservatori dell’Unione Nazionale di Maurice Duplessis (epoca che è andata alla storia con il termine di Grande Noirceur / Great Darkness, ovvero la grande oscurità) e inizia la rivoluzione tranquilla del Québec, oggi ricordata come processo di secolarizzazione che pone in essere una serie di misure istituzionali che anticipano e accolgono istanze sessantottine: un sistema scolastico laico, pubblico e gratuito (fino a quel momento il Québec è l’unica provincia in cui l’educazione era demandata alla Chiesa Cattolica – in Canada, il sistema scolastico è organizzato su base provinciale); un welfare pubblico. Si svuotano, letteralmente, i conventi, sia perché molte suore lasciano, sia perché sempre meno ragazze prendono i voti. La presenza femminile nelle istituzioni si consolida, così come la rivendicazione di diritti specifici (lo stesso governo federale approverà l’aborto proprio negli anni 1968-69). Emblematicamente, Beautiful Losersruota intorno alla figura della prima vergine irochese, Catherine Tekakwitha, convertita dai gesuiti nel XVII secolo (e canonizzata da Benedetto XVI nel 2012) e a quella di Edith, la moglie di origini native del protagonista; due figure femminili, entrambe vittime di una società bianca, coloniale, patriarcale, cattolica e gerarchica che la rivoluzione tranquilla scardina nelle sue fondamenta (e nel romanzo di Cohen, il protagonista recita, di fatto, un lungo mea culpa, seppure tradotto in termini visionari e, spesso, sgradevoli). Anche in questo caso, il cambiamento sociale segue una elezione democratica, viene avviato prima dentro le istituzioni e, poi, arriva nelle piazze, spesso in forma di rinnovamento culturale.
Accanto al rinnovamento politico, il governo provinciale e la municipalità di Montreal avviano anche nuove politiche di sostegno a progetti culturali e artistici che porteranno a rinnovare lo spazio urbano: il progetto di una grande piazza delle arti è di quegli anni, altro luogo simbolico del cambiamento identitario di quella provincia e, anche, della nazione. Place des Arts, la ‘Piazza delle Arti’, è infatti il nome della piazza centrale della città, ideata in quegli anni, luogo in cui si concentrano i musei e le istituzioni culturali più importanti di Montreal, nonché, in periodo estivo, vero e proprio teatro all’aperto di una serie ininterrotta di manifestazioni ed eventi artistici (Nota 9). Ovvero: l’arte diventa volano del cambiamento e gli investimenti pubblici e privati non mancano. In quegli anni, a Montreal e a partire da quella piazza, il motto sessantottino ‘la fantasia al potere’ non stona. Così come non stona, a livello nazionale, il motto ‘Give Peace a Chance’. Sarà lo stesso Pierre Eliot Trudeau a pronunciare la frase: «devo dire che ‘give peace a chance’ mi è sempre sembrato un consiglio ragionevole» (Nota 10). Così buono, da lasciare aperta la porta ai giovani americani renitenti alla chiamata alle armi che trovano rifugio in Canada, accolti dall’amministrazione Trudeau. In breve: in quel decennio, il Canada inizia a porsi come realtà nazionale capace di tradurre nei fatti istanze rivendicate dalle proteste dei movimenti giovanili, quasi fosse la materializzazione dell’isola che non c’è verso cui tendono nuovi Peter Pan.

 

5. L’isola che non ci sarà

Il 27 aprile del 1967, giorno di apertura, furono oltre 300.000 i visitatori che invasero il territorio dell’Expo di Montreal, di fatto un percorso costruito sull’estensione artificiale dell’isola di Sainte Hélène e sulla nuova isola di Notre Dame. Quel territorio artificiale, costruito a tempo di record e sfidando ogni pronostico, celebra non solo il mondo ma anche il posto che da quel momento il Canada vuole avere nella nuova geografia politica del ventesimo secolo: a cento anni dalla nascita della Confederazione canadese, l’ex colonia si propone come realtà giovane, aperta, libera e multi-etnica. O, almeno, queste sono le intenzioni. Il paradosso, anche storico, è che quella celebrazione va in scena nell’unica provincia del Canada che sta seriamente operando per diventare indipendente. Lo sa bene il francesissimo De Gaulle che, proprio nel luglio dello stesso anno, nel corso di una visita ufficiale in Québec pronuncerà la famosa frase «Vive le Québec libre», equiparando la situazione locale a quella della Francia occupata dalle truppe naziste nel corso della seconda guerra mondiale. Una frase che non è banale né retorico definire ‘incendiaria’ e che darà nuova linfa all’azione di un gruppo paramilitare sorto in quegli anni che si identifica con la sigla FLQ e che ha, sul Québec, idee precise.
Fondato nel 1963, il Fronte di Liberazione del Québec dominerà la scena politica provinciale e nazionale fino al 1970, anno in cui termineranno ufficialmente le attività. Si presenta come gruppo separatista, che si muove in clandestinità e che sceglie tecniche di azione violente e, per questo, viene considerato gruppo terroristico. Le prime bombe molotov vengono lanciate nello stesso anno contro obiettivi strategici in Québec (la sede del reggimento dei Victoria Rifles, il Dipartimento delle entrate, la linea ferroviaria che collega Montreal e la città di Québec) mentre il primo morto si registra nel mese di aprile: è l’operaio William O’Neill, in servizio presso il Centro di Reclutamento dell’Esercito Canadese a Montreal. Nel corso dei sette anni di attività, saranno nove le persone morte per azioni del FLQ, quasi duecento gli attacchi di guerriglia e due i rapimenti di rappresentanti politici, uno conclusosi con l’uccisione dell’ostaggio. Nel romanzo Beautiful Losers, il personaggio di F., eletto al parlamento provinciale, è un membro del FLQ; le sue ragioni sono esposte in monologhi surreali e folli, le sue idee di indipendenza sono alternate alla storia della dominazione bianca sulle prime nazioni (la conversione di Catherine Tekakwitha viene infatti riletta in chiave postcoloniale, come storia di assimilazione culturale imposta con l’antico pretesto di salvare anime). E’ un personaggio complesso e a tratti ripugnanti, dalla morale dubbia (seduce minorenni, è l’amante del protagonista maschile – la voce narrante del romanzo –, così come della di lui moglie), che progetta di mettere una bomba presso la statua della regina Vittoria in occasione della visita della regina Elisabetta. Verrà smascherato e preso, rinchiuso in un manicomio criminale dal quale riuscirà ad evadere con la complicità di una finta infermiera, come annunciato dalla radio che irrompe nella narrazione: «Pochi minuti fa un Capo Terrorista non identificato è scappato dall’Ospedale per Pazzi Criminali. Si teme che la sua presenza in città scatenerà nuovi estremismi rivoluzionari» (Nota 11).
Nel suo romanzo definito spesso come ‘una allucinazione’, Leonard Cohen mappa in realtà il presente canadese con lucidità e utilizza quella che i critici hanno classificato come storiografia metafinzionale (Nota 12) per raccontare i corsi e ricorsi storici e culturali di quel lembo di terra, creando personaggi che sono contemporaneamente vittime e carnefici, aguzzini e perseguitati: la comunità francofona ha annullato quella nativa, quella britannica ha dominato quella francofona (con la complicità delle gerarchie della Chiesa cattolica, quasi più preoccupate dei britannici rispetto all’idea di un Québec indipendente), in un gioco delle parti che segue il divenire storico. Cohen parla come osservatore privilegiato e parte in causa e, per questo, il suo romanzo ha una profonda valenza politica. Di origine ebraica, originario di Montreal e autore in lingua inglese, Cohen incarna in sé la complessità identitaria di quel luogo: è ad un tempo minoranza (ebreo nella cattolicissima Montreal) e maggioranza (appartiene alla comunità anglofona che ha dominato il Canada dal 1867 e che è élite nel Québec), comunque bianco e dunque colpevole verso le prime nazioni, sembra aver fatto suo il motto manzoniano per cui il torto e la ragione non si dividono mai con un taglio netto. Attorno al 1968, è Montreal la zona grigia del Canada, la realtà in cui accanto al Rinascimento culturale portato dalla Rivoluzione tranquilla e dalle nuove politiche governative, emergono istanze antiche che danno significato diverso all’idea di postcoloniale: per il FLQ, il Québec ha ora il dovere di rivendicare la propria autonomia, ha il dovere di autodeterminarsi. Non viene scelta, in quegli anni, la via democratica (referendum e elezioni) ma quella della lotta armata. Il progetto fallirà nel giro di sette anni e il Québec non diventerà mai altro dal Canada. Sarà proprio un montrealese ad impedirlo: Pierre Eliot Trudeau. Federalista convinto, Trudeau ebbe a dire, commentando la situazione in Québec condizionata dalle azioni del FLQ: “Sto cercando di mettere a posto il Québec – e il posto del Québec è nel Canada e da nessun’altra parte” (Nota 13). ]Il Québec libero e indipendente rimarrà così l’isola che non c’è e costituirà, negli anni a venire, un progetto perseguito da una forza politica democratica: il partito quebecchese (sconfitto e, di fatto, quasi spazzato via nelle ultime elezioni provinciali del 2014).
E proprio dal 1968, l’anno in cui fu eletto premier della nazione, riprendono, dopo un periodo di apparente calma, le azioni del Fronte, stimolato dal nuovo clima di protesta transnazionale: nuovi attentati, attacchi all’università anglofona di Montreal (la McGill), il dirottamento su Cuba di un volo della compagnia americana National Airlines e, nell’ottobre del 1970, il rapimento del diplomatico britannico Richard Cross e del ministro del lavoro del Québec, Pierre Laporte (quest’ultimo verrà ucciso). L’ottobre nero del Québec segna tanto la fine della rivoluzione tranquilla che quella del FLQ (la lotta per l’indipendenza del Québec continuerà negli anni successivi sul fronte politico e democratico, con fortune alterne). E’ il mese in cui il governo di Trudeau respingerà le richieste dei rapitori e emanerà il War Measure Act per la provincia del Québec: con un discorso alla nazione trasmesso in diretta televisiva, Trudeau annuncerà l’adozione di misure per lui ripugnanti ma ora necessarie, l’invio dell’esercito nella provincia francofona e la sospensione delle libertà civili per il periodo necessario a ripristinare l’ordine, ovvero a smantellare il FLQ. “Just watch me” aveva risposto ad un giornalista che gli chiedeva fino a che punto era pronto a spingersi per contrastare le azioni del Fronte: e, di lì a poco, lui che veniva da quella provincia (e che lì visse al termine della sua carriera politica), che osteggiava la politica imperialista statunitense (Trudeau fu la bestia nera di Johnson e di Nixon) non esita a usare il pugno di ferro. Nel suo discorso alla nazione, Trudeau fa leva sull’idea di democrazia, sul fatto che chi vuole lottare per l’indipendenza del Québec non ha nessuna ragione per farlo violentemente, perché la costituzione federale lascia ampio margine alle province per andare in quella direzione (negli anni successivi, il Québec indirà più volte il referendum per la separazione). Insiste nel dire che chi prende il potere con la forza e la paura, non potrà che governare con la forza e con la paura, elementi contrari al progetto politico e culturale del Canada postcoloniale. Trudeau sarà convincente, la misura estrema da lui adottata avrà il consenso della popolazione, anche in Québec; il governo di Trudeau si rafforzerà e il premier verrà rieletto. Sarà sempre lui, negli anni successivi, ad accelerare il rimpatrio di costituzione e ad avviare politiche multiculturali innovative per quegli anni. Se Cohen incarna le contraddizioni e la complessità di un Canada che si è costituito in chiave coloniale, Trudeau incarna l’immagine di una nazione che si ripensa in termini di mosaico culturale e di dialogo. Il suo nome, lo ricorderà lui stesso, non è né francese, né inglese, ma canadese: Pierre Elliott, un nome che unisce senza assimilarle diverse componenti identitarie, proprio come la nazione che guida e che, nel 1968, sceglie di diventare un progetto politico e culturale alternativo in occidente.
L’isola di Notre Dame e quella di Sainte Hélène, nate per accogliere l’expo nel decennio del 1968 non sono mai diventate luoghi di protesta e, nel tempo, si sono trasformate e sono diventate zone verdi a disposizione della città: sulla prima, si trovano l’autodromo e un popolare casinò, mentre sulla seconda si trova il parco Jean Drapeau, che ospita un museo della biodiversità oltre che centri per attività sportive e ricreative. Sono isole integrate nel tessuto urbano, parti attive e vive di Montreal; i padiglioni creati per l’Expo che ancora restano non sono rovine abbandonate, ma luoghi recuperati, trasformati e donati ad una comunità che è stata capace di ripensarsi. Quella realtà, così come Beautiful Losers, ha viaggiato e viaggia nella storia e nelle storie: il 1968 rimane per Montreal e per il Canada, uno spartiacque reale e simbolico, una data che segna l’inizio di nuove, difficili ma originali, narrazioni. 

 
NOTE

Nota 1 La Confederazione Canadese viene sancita con l’Atto Costitutivo firmato il 1 luglio 1867 a Charlotte Town, città capitale dell’Isola di Prince Edward, dai rappresentanti di quattro province: Ontario, Québec, Nuova Scozia e Nuovo Brunswick. Torna al testo 

Nota 2 L’Expo del 1967 avrebbe dovuto essere organizzata non a Montréal ma a Mosca, come da designazione del comitato internazionale riunitosi a Parigi nel 1960. Quando, nel 1962, Mosca ritirò improvvisamente la candidatura adducendo ragioni finanziarie e motivi di sicurezza, il sindaco Jean Drapeau convinse il governo canadese a ripresentare la candidatura di Montréal. L’incarico fu ufficialmente dato nel novembre di quello stesso anno; i lavori partirono di fatto solo verso la metà del 1963, dopo una serie di vicissitudini locali che rischiarono di compromettere il successo dell’evento. In realtà, a tutt’oggi si considera Montréal 1967 come l’esposizione di maggior successo del Novecento, per numero di paesi espositori e per numero di visitatori. Torna al testo

Nota 3 “The Toronto School Initiative” è un progetto inaugurato in coda ad un importante convegno dedicato alla Scuola di Toronto che ha avuto luogo nel mese di ottobre 2016 allo scopo non solo di storicizzare quell’esperienza unica e straordinaria, ma anche per recuperare l’esperienza innovativa e interdisciplinare già catalizzata dal Centro per la Cultura e la Tecnologia, stimolare nuove strategie e nuove opportunità di ricerca condivisa. L’idea, promossa e coordinata dall’italiano Paolo Granata, docente all’Università di Toronto, promuove oggi le scienze umane per l’innovazione sociale e si sviluppa in una serie di collaborazioni internazionali aperte a studiosi e professionisti di diverse aree. Per saperne di più: http://thetorontoschool.ca. Torna al testo

Nota 4 Cfr. N. Frye, Divisions on a Ground: Essays on Canadian Culture, Ed. James Polk, Anansi, Toronto 1982; G. Capone, Canada. Il villaggio della terra, Patron, Bologna 1977 e A. Gebbia, La letteratura Anglocanadese, in A. Lombardo (a cura di), Le Orme di Prospero. Le Nuove letterature di lingua inglese: Africa, Carabi, Canada, La Nuova Italia Scientifica, Roma1995. Torna al testo

Nota 5 R. Kroetsch, The Lovely Treachery of Words: Essays Selected and New, Oxford UP, Toronto 1989.Torna al testo

Nota 6 Si veda M. McLuhan,Canada. The Borderline Case, in D. Staires (ed.),The Canadian Imagination, HUB, MA, Cambridge 1977, p. 228. Torna al testo

Nota 7 “Editing Modernism in Canada at the University of Alberta” è, infatti, tra i progetti più interessanti, promosso da Paul Hjartarson, docente di letteratura canadese e cultura digitale, con il supporto del Social Sciences and Humanities Research Council del Canada; ha come fine il recupero di importanti archivi letterari (Sheila e Wilfred Watson, Martha Ostenso, ecc.), nonché la promozione di attività seminariali e di ricerca sull’idea di Modernismo canadese in relazione al divenire dell’identità della nazione. Torna al testo 

Nota 8 Il Canadian Multiculturalism Act è stato approvato nel 1988, momento conclusivo di un lungo percorso avviato, nel 1971, da Pierre Elliot Trudeau per fare del Canada una nazione non solo multi-etnica ma anche multi-culturale. L’idea innovativa e, di fatto, rivoluzionaria per l’epoca, permise a Trudeau di organizzare e promuovere una risposta civica all’idea di separatismo sostenuta dagli indipendentisti del Québec, riconoscendo non solo quella francofona ma tutte le diversità culturali, linguistiche ed etniche del Canada come aventi pari dignità e pari diritti su tutto il territorio nazionale. E’ dello stesso periodo anche l’inizio della presa di coscienza della ‘questione nativa’ che, come si diceva, è oggi al centro di un rinnovato processo storico-culturale e di nuove polemiche nel Canada guidato dal figlio di Trudeau, Justin, eletto premier nel 2015. In particolare, commissioni istituite a livello provinciale e federale hanno confermato la negazione sistematica delle culture e delle tradizioni native anche nel Canada multiculturale e hanno portato alla luce la triste vicenda degli abusi sui bambini nativi di fatto segregati nelle scuole e nei collegi cattolici. Il governo ha istituito programmi di ‘redressing’ (‘riparazione’) per cercare, con l’aiuto delle comunità e degli studiosi, di riparare i torti subiti dalle popolazioni indigene. Torna al testo

Nota 9 E’ di questi anni l’ultimo restyling della piazza, ripensata in occasione delle celebrazioni dei 150 del Canada. Negli ultimi cinquant’anni, la piazza è rimasta il centro delle attività culturali della città di Montréal, nel tempo arricchita con nuovi teatri (da quello dell’opera a quello dell’orchestra sinfonica), sale cinematografiche e di esposizione, oltre che sede di moltissime iniziative ‘en plein air’, ivi incluso un prestigioso e popolare Festival del Jazz. Torna al testo

Nota 10 Pierre Elliott Trudeau incontrò John Lennon e Yoko Ono il 23 dicembre 1969 (lo stesso anno in cui la coppia visitò McLuhan all’Università di Toronto). Intervistati dai giornalisti su cosa si fossero, di fatto detti, John Lennon confermò una convergenza di vedute (seppure basata su affermazioni di carattere generale) e Yoko Ono si dichiarò felice di sapere che l’establishment era fatto anche da persone come Trudeau: P.E. Trudeau, Memoirs, McClelland & Stewart, Toronto 1993, p. 122. Torna al testo

Nota 11 L. Cohen, Beautiful Losers, a cura di Simone Barillari, Roma, Fandango, 2003, p. 262. Torna al testo

Nota 12 Si veda L. Hutcheon, The Politics of Postmodernism. London & New York, Routledge, 1989. Torna al testo

Nota 13 Citazione dal discorso di Trudeau sul separatismo del Québec tenuto il 25 giugno 1968. Torna al testo

 

 

Questo saggio si cita: E. Lamberti, Montréal e il Sessantotto canadese. Una storia da scoprirein «Percorsi Storici», 5 (2017) [www.percorsistorici.it]

 

Questo saggio è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia

 

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