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Gianluca Fulvetti, Paolo Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L'Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), il Mulino, Bologna 2016, pp. 613 

(Luciano Casali)

 

Una recensione per Fiorenza... Stragismo e lotte sociali

1. Era già stato rilevato, in uno studio concluso nel 2008 a proposito delle stragi naziste e fasciste, che nella regione Emilia Romagna si era concentrato il numero maggiore delle violenze portate a termine contro gli antifascisti e contro la popolazione civile nel corso del 1943-1945 (Nota 1). La Cronografia di Chiara Dogliotti (pp. 95-126) pubblicata nell'Atlante curato da Fulvetti e Pezzino non fa che confermare un dato che era già noto: la 4.536 vittime di tale regione (uccise in 955 episodi di violenza) sono di poco superiori a quelle della Toscana (4.413, in 807 episodi), ma molto più numerose rispetto a quelle del Piemonte (2.872, su 567 episodi) e del Veneto (2.311; 701 episodi).
Non è questo, comunque, il dato più rilevante che traiamo da questo volume, anche se finalmente — a tanti anni di distanza dalla conclusione della Seconda guerra mondiale — abbiamo cifre pressoché definitive sulla dimensione quantitativa delle violenze naziste e fasciste in tutto il Paese. Come precisa Carlo Gentile, il punto che soprattutto è stato messo in luce da questa nuova indagine è «l'emergere, accanto ai grandi bagni di sangue già noti e più studiati, di un aspetto finora quasi ignorato, ossia l'elevatissimo numero di episodi caratterizzati da uccisioni singole o di piccoli gruppi di civili o partigiani disarmati» (p. 129). Infine — mettendo ancor più in rilievo quanto era stato affermato già nel 2008 — a fianco di una da tempo ben conosciuta violenza nazista, non possiamo dimenticare una del tutto autonoma ma altrettanto efferata violenza fascista che si ripercosse su oltre il 20 per cento delle vittime, specialmente in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia, come ci ricorda Toni Rovatti (pp. 145-168). Una guerra, quella fascista-repubblicana, contro i civili, che «emula e si integra con le pratiche della guerra ai civili nazista, e alla fine tenta di usare “al meglio” gli ultimi mesi di guerra per "epurare" il paese dai traditori, dai sovversivi, dai disfattisti» (Dogliotti, p. 119).
L'Atlante ha così “catalogato” 5.607 azioni che portarono alla morte di 23.669 persone inermi in venti mesi: una violenza costante e diffusa sul territorio, a partire dalla stessa Sicilia:

Conosciamo ormai bene i meccanismi di legittimazione di queste azioni criminali, le figure retoriche e semantiche di un "discorso sul nemico" che dichiara anche in Italia la guerra partigiana come illegittima, estranea alle norme del diritto internazionale e ai codici dell'onore, un linguaggio condito di tanto in tanto di richiami al "modello bolscevico" e che tende a identificare la popolazione civile come complice, essa pure "infida", "insidiosa" e "traditrice" (Pezzino-Fulvetti, p. 87).

Dunque: un imbarbarimento e una radicalizzazione della guerra contro i civili di cui già ci aveva parlato molti anni fa Omer Bartov (Nota 2), anche se le rappresaglie compiute in Italia non raggiunsero mai l'intensità di quel che accadde sul fronte orientale o nei Balcani e l'uccisione dei civili avvenne «a fianco dei partigiani, non in maniera indiscriminata, bensì in una cornice di razionalità strumentale e di sicurezza militare». Indubbiamente per i tedeschi gli italiani non erano "nemici ideologici" (come i sovietici), ma meritavano una punizione che aveva «una valenza pedagogica e impatta[va] su quei legami di solidarietà e convivenza […] che accumuna[vano] civili e partigiani. La violenza [fu] insomma più epurativa che di sterminio» (Pezzino-Fulvetti, pp. 89-90). E, in ogni caso, in aree considerate di primario interesse strategico o che venivano considerate pericolosamente occupate da forze partigiane per cui si faceva strada una progressiva equiparazione fra civili e combattenti. In questa "semplificazione" — come la definisce Fusi (p. 276) — era l'intera popolazione ad essere sottoposta a rastrellamenti e rappresaglie. Per cui, e lo chiariscono Chiara Donati e Maurizio Fiorillo,

la morte era sempre più spesso accompagnata da percosse, sevizie e torture; veniva esibita e teatralizzata. Generalmente effettuata con raffiche di mitra o con colpi individuali alla nuca, era di rado inflitta attraverso una modalità ulteriormente degradante per la vittima, quale l'impiccagione. In quest'ultimo caso, i corpi venivano imposti in tutto il loro orrore alla vista dell'intera comunità, ergendosi a monumenti di una diffusa pedagogia funeraria (p. 324).

Secondo quanto viene scritto nell'Atlante, nelle aree di interesse militare rilevante e dove più intensa era la guerriglia anche la popolazione civile veniva così sottoposta a deportazioni di massa, incendi di villaggi, uccisione di ostaggi; l'intera comunità subiva quella che era ormai una guerra totale attraverso pratiche che puntavano alla messa in sicurezza e del territorio occupato e dei militari tedeschi che lo presidiavano:

Sotto la pressione dell'avanzata alleata, in presenza di una popolazione spaventata e poco collaborativa, quando non apertamente ostile, in preda ad una psicosi da franco tiratore, l'esercito d'occupazione ricorre al massacro per affermare il proprio potere di controllo sul territorio e in località determinate, così da mantenere il dominio su uno spazio che si è venuto creando al fine di rispondere all'esigenza strategica generale di difendere i confini del Terzo Reich. Lo conferma anche il fatto che il massacro è spesso il momento culminante di un ciclo di violenze e sopraffazioni, che riunisce razzie e saccheggi, distruzione e incendi di case, sequestri e deportazioni di manodopera da destinare al lavoro coatto, sfollamenti forzati e svuotamento a fini tattici di intere aree a ridosso del fronte (Baldissara, p. 183).

D'altra parte andrebbe approfondito come quella della lotta armata fu quasi sempre una scelta condivisa e meditata all'interno delle famiglie e delle comunità. E non a caso una regione come l'Emilia Romagna vide il coinvolgimento ampio della popolazione contadina, che ritrovava, dopo il 25 luglio, quella volontà di lotta sociale che la aveva caratterizzata sin dalla fine del secolo XIX.
Va tuttavia rilevato che una sostanziale differenza sembrò determinare le uccisioni tedesche rispetto a quelle fasciste. A "motivare" queste, infatti, spesso intervenivano "giustificazioni" politiche o più semplicemente "vendicative", tanto da poter affermare che i fascisti mirarono a uccidere senza altro scopo se non quello di eliminare persone giudicate pericolose per la gestione politica e sociale del territorio; i nazisti, invece, agirono prevalentemente — anche quando "eliminarono" persone del tutto inoffensive, come donne, vecchi e bambini — con il fine di "sanare" quelle parti del territorio, specie a ridosso delle linee difensive come la Gustav o la Gotica, maggiormente infestate da bande ribelli (o ritenute tali). In altri termini, i tedeschi caratterizzarono i loro eccidi anche di maggiori dimensioni, compreso quello di Monte Sole, operando pesanti interventi nella convinzione (o nella speranza) di rendere più sicuro il territorio operativo; i fascisti quasi sempre uccisero non per fini che si potrebbero definire "militari" — ovvero per rendere più sicure le zone di operazioni belliche che comunque a essi non vennero mai affidate —, ma cercando di conquistare un consenso politico attraverso la eliminazione terroristica degli avversari creduti socialmente più pericolosi (Nota 3) e non mancò (anzi!) l'uso della tortura più brutale e di sevizie che spesso sfiguravano totalmente le vittime. Come ha notato Wolfgang Sofsky, un vero e proprio mezzo per l'esercizio del potere da parte degli aguzzini (Nota 4).
Indubbiamente i soldati tedeschi combatterono in Italia una guerra contro gli Alleati che trovò i suoi momenti principali nelle tre ritirate che ebbero luogo dal sud al nord e nelle due soste sulle linee Gustav e Gotica. Questo tipo di guerra guerreggiata, «con le sue dinamiche, le esigenze strategiche, la concentrazione delle truppe» ebbe evidentemente un momento centrale nella radicalizzazione dello stragismo (pp. 59-60). La frustrazione per una sconfitta che appariva sempre più imminente portava certamente i soldati a una bassissima soglia di tolleranza verso i civili, i loro gesti, la loro stessa presenza, se non era completamente collaborativa. D'altra parte «le azioni che dovevano garantire il controllo del territorio non avevano impedito alla Resistenza di svilupparsi […] e di controllare le alte valli» dell'Appennino, mentre la campagna di arruolamento della manodopera da inviare in Germania aveva dato risultati a dir poco deludenti. Insomma: era mancato quasi completamente, da parte della popolazione, una vera collaborazione con l'occupante (Minardi, p. 331).
Per avere un quadro di riferimento attento e generale, a nostro parere c'è una domanda cui non è stato risposto nell'Atlante, una domanda relativa al comportamento della gente. Non solo era mancata la collaborazione con i tedeschi, ma ci si era trovati di fronte alla non accettazione passiva della occupazione nazista, anche quando poteva apparire evidente che, se non si fosse stati passivi e succubi, sarebbe giunta la vendetta, si sarebbero scatenate stragi e punizioni. Ci fu dunque anche una violenza puramente politica, della quale ci parla Roberta Mira (pp. 433 sgg.) e non a caso, specialmente in Emilia Romagna, la Resistenza fu accompagnata da una serie di attività non armate che facevano parte «di una mobilitazione di massa contro la Rsi e gli occupanti, in parte spontanea e in parte guidata da organizzazioni come i Gruppi di difesa della donna e il Fronte della gioventù». In questa fase, la violenza si esplicò «non con le sole uccisioni ma anche con la repressione delle manifestazioni di protesta» (Mira, pp. 436-437), cioè di quella attività "sovversiva" che aveva caratterizzato la regione prima dell'avvento al potere del fascismo.

2. Fiorenza, ormai colpita dalla malattia, non ha potuto leggere l'Atlante curato da Fulvetti e Pezzino. Eppure sarebbe stato un lavoro che le sarebbe interessato. Fra i suoi principali argomenti di studio e di ricerca, come ha messo in rilievo Simona Lembi ricordandola il 17 luglio 2017 in apertura della seduta del Consiglio comunale di Bologna, c'è stato quello di «raccontare volta per volta come il rifiuto della passività abbia voluto e saputo opporsi con forza e determinazione ad un lungo passato di violenza ed oppressione» (Nota 5). Indubbiamente Fiorenza si era occupata in particolar modo, fra l'altro, di storia delle donne e dell'organizzazione del movimento operaio alle origini, ma sono considerazioni che vanno tenute presenti anche riflettendo sulle vicende relative alla Seconda guerra mondiale e alla politica dello stragismo nazista e fascista. La condotta di guerra delle truppe tedesche in Italia fu senza dubbi correlata anche alle varie componenti dell'esercito tedesco, alle caratteristiche della campagna bellica condotta in Italia e alla formazione ideologica di alcuni reparti particolarmente distintisi in azioni di sterminio (Nota 6). Ma non dobbiamo dimenticare né sottovalutare che, in conseguenza della occupazione del territorio italiano, i tedeschi si trovarono di fronte a un rifiuto della collaborazione, a una non accettazione della passività da parte della popolazione. La maggior parte della gente non rimase in una inoperosa attesa che il tutto passasse, che i tedeschi combattessero la loro guerra in mezzo ad una popolazione disinteressata per quanto stava avvenendo e poi se ne andassero "tranquillamente". Di fronte a una passività generale e a un comportamento che inducesse a obbedire "senza scomporsi" agli ordini degli occupanti: lo stragismo avrebbe avuto le stesse dimensioni e la stessa ferocia? In un contesto bellico che aveva necessità di controllo su un territorio nel quale muoversi senza problemi o difficoltà, non appariva forse evidente che fare scioperi, rivendicare aumenti salariali, dare vita ad una attiva politica sociale avrebbe determinato reazioni violente da parte nazista?
Dopo il 25 luglio 1943 si cominciarono a riprendere modi di comportamento politico e volontà associative che erano state costruite in altri tempi, come quelle di cui Fiorenza aveva scritto in Associazionismo e forme di socialità in Emilia-Romagna fra ‘800 e ‘900 o in Braccianti socialisti, mezzadri repubblicani (Nota 7). E ciò apparve evidente ai più attenti "costruttori" della Resistenza armata, anche se non sempre furono ascoltati dai gruppi dirigenti.
Immediatamente all'indomani dell'8 settembre 1943 Arrigo Boldrini aveva sostenuto che la guerriglia, per renderla efficace e di massa, andava accompagnata da un rinnovo delle lotte sociali nelle campagne e che la mobilitazione sociale dei lavoratori avrebbe consentito di rendere estremamente difficile la condotta di una guerra difensiva nazista e la ricostituzione del partito fascista divenuto repubblicano. L'esistenza di scioperi e di una mobilitazione popolare, determinata anche dalla esigenza dei rinnovi contrattuali, non avrebbe permesso di utilizzare le risorse alimentari e industriali e quindi avrebbe reso quasi impossibile la fruizione del territorio per condurre una guerra difensiva e rallentare la ritirata della Wehrmacht, per quanto riguardava i tedeschi. Nello stesso tempo le rivendicazioni contrattuali e il "ritorno in piazza" dei lavoratori avrebbero probabilmente impedito un concreto radicamento del nuovo partito fascista repubblicano. Ci si legava così al senso antico del socialismo e del movimento repubblicano e la guerra contro i nazisti e i fascisti diveniva anche un «epocale movimento di riforma sociale che avrebbe dato corpo alle richieste che le campagne avanzavano da decenni» (Nota 8).
I documenti rinvenuti da Friedrich Andrae presso l'archivio militare di Friburgo dimostrano che i vertici tedeschi cancellarono di fatto ogni distinzione fra partigiani e popolazione civile (Nota 9). Essi «considerarono la popolazione di determinate zone responsabile della presenza partigiana o addirittura come facente parte delle bande, nel caso che essa non obbedisse agli ordini di evacuazione, alla consegna dei renitenti e degli uomini destinati al lavoro coatto» (Nota 10). Si tratta di un discorso molto più complesso di quello che per parecchi anni è stato condotto e che tendeva a gettare sulle spalle dei partigiani le responsabilità per le stragi e le vendette tedesche, che sarebbero state “semplici” reazioni all'attivismo della guerriglia (Nota 11). Un discorso, del resto che ancora non è stato completamente cancellato, come ricorda il recente studio di Sonia Residori (Nota 12).
Giovanni Contini ha sottolineato giustamente che «si può affermare che se pure alcune azioni dei partigiani furono tatticamente sbagliate, esse non possono essere considerate causa dei massacri». E anche se le azioni dei partigiani ebbero un loro peso nelle strategie naziste, «quella della strage fu una scelta autonoma dell'esercito tedesco, che ne porta la responsabilità intera» (Nota 13). Le disposizioni dell'esercito tedesco comportarono l'adozione di una ottica operativa di tipo squisitamente militare anche nei confronti della popolazione, non solo contro la presenza di formazioni partigiane, più o meno consistenti e più o meno operative. Per cui va detto che «un piano anti-partigiano e un sistema di misure contro le popolazioni civili» esistettero e funzionarono (Nota 14). 

3. Resta una domanda, cui, a nostro parere, l'Atlante non dà una risposta adeguata. Fino a qual punto l'attività e della Wehrmacht e dei reparti speciali come quello guidato da Walter Reder fu orientato solo contro la Resistenza (e l'appoggio popolare ai partigiani) o non anche contro l'agitazione sociale autonoma delle popolazioni portata avanti attraverso scioperi, rivendicazioni e manifestazioni, non necessariamente legate strettamente alle attività della guerriglia, ma comunque tali da creare difficoltà alle operazioni militari?

Secondo i curatori dell'Atlante

le geografie di sangue coincidono con le zone di guerra, nelle quali l'esercito tedesco combatte contro gli Alleati, ma anche e soprattutto contro la guerriglia partigiana, il vero detonatore della repressione indiscriminata che coinvolge talvolta intere comunità di civili (p. 18).

Quanto abbiamo osservato in precedenza può forse suggerire una visione più ampia delle cause dello stragismo e indica forse la necessità di una lettura più articolata, che in parte è ancora da farsi.

Ma abbiamo ancora qualcosa d'altro da aggiungere.

Il modo di operare dei soldati provenienti dai reparti della Wehrmacht induce a non pochi interrogativi e, in sostanza, ripropone il dibattito che, parecchio tempo fa, negli anni Novanta, contrappose le interpretazioni di Christopher Robert Browning e Daniel Jonah Goldhagen (Nota 15). Non crediamo che i dubbi allora avanzati siano stati risolti, per cui in questo Atlante che si propone come una opera "definitiva" sullo stragismo in Italia sarebbe stato forse il caso di riproporre quei dubbi e quelle interpretazioni contrapposte, anche perché i giovani lettori di oggi quasi certamente non conoscono quei libri e quelle interpretazioni.
Come aveva già affermato Raul Hilberg a proposito della uccisione degli ebrei in Europa, gli esecutori «non differivano dal resto della popolazione per formazione morale» e «la macchina della distruzione non presentava grosse differenze dall'insieme della società tedesca organizzata» (Nota 16). In altri termini, i carnefici non erano tedeschi fuori dal comune e non esiste nessun caso documentato di tragiche conseguenze per coloro che rifiutassero di uccidere civili disarmati (Nota 17).
Anche se Hilberg, Browning e Goldhagen affrontano il tema dell'antisemitismo e della uccisione degli ebrei, crediamo che la questione della soppressione in massa di vecchi, donne e bambini (in questo caso di "razza ariana", come erano gli italiani) non sia sostanzialmente molto diversa, in quanto si pone in ogni caso il problema della mentalità che può avere condotto "tedeschi comuni" alla uccisione di persone indifese, che non si opponevano loro con le armi in mano. Per Goldhagen l'uccisione di ebrei (ma anche di persone indifese) faceva in qualche modo parte della cultura, quasi del Dna anche popolare, per cui esisteva un "bagaglio omicida" nei tedeschi. Furono carnefici volenterosi. Browning rifiuta la "demonizzazione" di quei soldati del Battaglione 101 che ha studiato e che intervennero nella uccisione di ebrei in Polonia e ne deduce che furono esseri umani, esattamente come i pochi di quel reparto che rifiutarono di sparare.
«Coloro che uccisero — conclude Browning (Nota 18) — non possono essere assolti sulla base dell'assunto che chiunque, in quella situazione, avrebbe fatto lo stesso».
In ogni caso, credo che sarebbe stato utile cercare di comprendere, anche per gli esecutori di stragi in Italia, perché lo fecero e con quale spirito operarono nel corso di quelle 5.607 azioni di massacro condotte nella Penisola. Una risposta che, indirettamente, sollecita anche Carlo Gentile (p. 138) quando ricorda che la esperienza di «lunghi periodi sul fronte» non può essere considerata motivo sufficiente per riuscire a comprendere il comportamento dei soldati tedeschi contro i civili italiani. È necessario, a suo avviso, «andare assai cauti su questo punto, perché il quadro che emerge da un esame approfondito del problema si rivela straordinariamente sfaccettato».
In effetti molto è ancora da studiare e su molto è ancora da riflettere. Se Luca Baldissara (p. 186) sostiene che la Resistenza costituisce «il detonante della guerra ai civili»; Francesco Fusi (p. 274) è del parere opposto, in quanto l'aprire il fuoco su tutti i civili accadde «anche entro quadri geografici nei quali la presenza della lotta armata non [era] tale da giustificare — come però [avvenne] — una vera e propria guerra di sterminio».

4. Non è semplice perciò concludere.

Se da un lato l'Atlante ci offre finalmente un quadro esaustivo — e forse definitivo — sui dati numerici relativi alle violenze naziste e fasciste nel 1943-1945, dall'altro resta da completare un lavoro che metta a punto il comportamento della popolazione civile di fronte alla presenza militare nazista e alla violenza politica fascista e che cerchi di esplorare lo stato d'animo, i motivi comportamentali di coloro che usarono una così grande ferocia contro le vittime e contro le popolazioni che comunque non partecipavano attivamente alla guerra in corso.

E non è poca cosa…

 

 

NOTE: 

Nota 1 L. Casali, D. Gagliani (a cura), La politica del terrore. Stragi e violenze naziste e fasciste in Emilia Romagna, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2008. Torna al testo

Nota 2 O. Bartov, Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra. 1941-1945, il Mulino, Bologna 2003 (ed. originale: Oxford 1985). Torna al testo

Nota 3 L. Casali, Modena, in L. Casali, D. Gagliani (a cura di), La politica del terrore, cit., pp. 84-85. Torna al testo

Nota 4 W. Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, pp. 69-83 (ed. originale: Frankfurt am Main 1996). Torna al testo

Nota 5 http:/gruppopdbologna.it/ricordo-fiorenza-tarozzi/ Torna al testo

Nota 6 C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015 (ed. originale: Paderborn - München - Wien - Zürich 2012). Torna al testo

Nota 7 Rispettivamente: Bologna, Museo del Risorgimento, 1988 (in collaborazione con M. Ridolfi) e in P. P. D'Attorre (a cura di), Storia illustrata di Ravenna, Aiep, Milano 1990, pp. 129-144. Torna al testo

Nota 8 E. Montali, Il comandante Bulow. Arrigo Boldrini partigiano, politico, parlamentare, Ediesse, Roma 2015, p. 46. Torna al testo

Nota 9 F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma 1997 (ed. originale: München 1995). Torna al testo

Nota 10 M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997, p. XXII. Torna al testo

Nota 11 La bibliografia è molto ampia; cfr. per tutti: G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997. Torna al testo

Nota 12 S. Residori, L'ultima valle. La Resistenza in val d'Astico e il massacro di Pedescala e Settecà (30 aprile – 2 maggio 1945), Cierre edizioni, Sommacampagna (VR) 2015. Torna al testo

Nota 13 G. Contini, La memoria divisa, cit., p. 153. Ma anche L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia (1943-1944), Nuova edizione con un saggio sulla storiografia della guerra contro i civili, Donzelli, Roma 2006, p. 176. Torna al testo

Nota 14 M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili, cit., p. XXIII. Torna al testo

Nota 15 Ci riferiamo rispettivamente ai volumi: Uomini comuni. Polizia tedesca e "soluzione finale" in Polonia, Einaudi, Torino 1995 (ed. originale: New York 1992) e I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l'Olocausto, Mondadori, Milano 1997 (ed. originale: London 1996). In Postfazione alla edizione italiana del 1999 (pp. 201-244) di Uomini comuni sono riportati gli elementi essenziali della polemica fra i due studiosi. Torna al testo

Nota 16 Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Nuova edizione riveduta e ampliata, Einaudi, Torino 1999 (ed. originale: New York - London 1985), p. 1122. Torna al testo

Nota 17 C.R. Browning, Uomini comuni, cit., ed. 1999, p. 203. Torna al testo

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