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Alberto Malfitano

I garibaldini di Romagna

La partecipazione popolare alle campagne risorgimentali: il caso faentino

 

Il progetto del censimento

Alcuni anni or sono il Museo del Risorgimento di Bologna, guidato da Fiorenza Tarozzi, con il prezioso aiuto di Mirtide Gavelli, lanciò l’idea di un censimento dei volontari che nel corso del XIX secolo avevano seguito Giuseppe Garibaldi nelle sue avventure sul continente europeo. La volontà era quella di dimostrare su basi documentarie quanto il fenomeno del volontariato avesse fatto presa su molti giovani italiani, e di farlo utilizzando tutti i mezzi possibili a disposizione della ricerca storica: dalla bibliografia esistente alle ricerche d’archivio da intraprendere, a strumenti meno ortodossi ma altrettanto efficaci, come la lettura delle lapidi che costellano le nostre città, l’analisi nei registri cimiteriali di reduci di campagne garibaldine, i necrologi della stampa d’epoca, le richieste di sussidi nell’Italia liberale, i documenti delle associazioni dei reduci. Una varietà di percorsi che mirava a ricostruire i mille rivoli di una adesione assai diffusa alle imprese delle camicie rosse che punteggiarono il Risorgimento. A essere escluse erano le campagne garibaldine del Sud America, e quelle intraprese dopo la morte del Generale: quella del 1897 in favore della Grecia e quella del 1914-15 nelle Argonne. Il tutto avveniva anche con il chiaro intento di controbattere, sulla scorta di dati che per conoscenza diretta delle fonti si sapeva essere abbondanti, alla vulgata sempre più aggressiva, specie in prossimità del 150° anniversario dell’unità, che il Risorgimento in fondo sarebbe stato affare di pochi, se non di élites distanti dal popolo, con il chiaro intento di denigrare la costruzione nazionale che da quel complesso processo unitario era scaturita. Una serie di riunioni tra rappresentanti di territori che avevano aderito all’idea, in alcuni casi, e le prime ricerche sul campo, in seconda battuta, diedero fiato al progetto, che entrò in una successiva fase di stallo per le difficoltà incontrate, a partire da quelle organizzative e finanziare, ma con l’idea di poter essere ripreso in un successivo momento.
Da quell’esperienza nasce questo piccolo contributo che intende essere un omaggio all’intraprendenza e lungimiranza di Fiorenza e del Museo del Risorgimento di Bologna, capofila di quel progetto, utilizzando il contributo che Antonio (Nino) Drei, studioso locale che univa la passione per l’epoca al rigore scientifico, diede alcuni anni or sono relativamente alla partecipazione al Risorgimento in ambito locale; nel caso specifico, Faenza.
Quel lavoro, che ben si sposava con gli intenti del censimento lanciato successivamente da Fiorenza in quanto teso a sostenere, sulla base di documenti inoppugnabili, che «il Risorgimento in Romagna non fu certamente un fenomeno di élite» (Nota 1), prendeva il via da alcuni dei moti che avevano scosso le Legazioni pontificie romagnole negli anni Quaranta, a partire da quello delle Balze di Scavignano, una località sulla collina faentina che all’epoca segnava il confine tra Stato pontificio e Granducato di Toscana. L’episodio era parte di un tentativo insurrezionale più vasto che comprendeva anche la zona di Rimini e che aveva visto, tra i suoi sostenitori, anche Luigi Carlo Farini, futuro collaboratore di Cavour e dittatore dell’Emilia nel delicato passaggio del 1859-60, nonché nipote di quel Domenico Antonio assassinato dai fanatici filopapalini una decina di anni prima a Russi. Mentre Farini redigeva un Manifesto che tornava a chiedere ampie riforme al papa, il moto esplodeva e, per quanto velleitario e velocemente represso, confermava l’esistenza di tensioni politiche che percorrevano sotterraneamente le Legazioni e che negli anni Trenta e Quaranta, dopo la fallita rivoluzione del 1831, e la totale chiusura alle richieste dei patrioti liberali da parte del potere romano, si erano aggravate. A quel breve e sfortunato moto parteciparono sul versante faentino il conte Raffaele Pasi, il bagnacavallese Raffaele Beltrami e il sacerdote di Modigliana don Giovanni Verità, i quali guidarono l’assalto di alcune decine di insorti alla caserma dei finanzieri papali sul confine tra i due Stati. Mentre il focolaio riminese del moto abortiva velocemente, le truppe pontificie respinsero l’assalto alle Balze di Scavignano, e costrinsero i giovani ribelli a trovare rifugio nel Granducato. Dall’elenco emerso dagli archivi toscani è possibile avere un’idea dell’estrazione sociale dei patrioti coinvolti nel moto delle Balze: di 142 nominativi, 135 risultano di romagnoli di età compresa fra i 18 e i 48 anni, di cui 

- Nobili e possidenti 16 

- Laureati 4 

- Studenti 2 

- Scrivani pubblici 1 

- Artigiani o loro dipendenti 76 

- Commercianti o loro dipendenti 21 

- Lavoratori certamente dipendenti 6 

- Contadini e simili 6 

- Artisti 1 

- Mestiere non indicato 2

A fianco di una presenza minoritaria, ma percentualmente più elevata rispetto a una popolazione in cui l’analfabetismo era largamente diffuso, di una componente studentesca, ve ne è una non trascurabile di nobili e proprietari, probabilmente terrieri, a testimonianza di quanto il malcontento serpeggiasse anche tra le classi più benestanti, mentre il popolo minuto rappresentato in questo gruppo è quello urbano e non quello delle campagne, pressochè assente.
Pochi anni dopo, l’esperienza della Repubblica romana coinvolse tutti i territori del decaduto – sebbene per pochi mesi – Stato pontificio, e registrò una presenza massiccia degli abitanti delle quattro Legazioni romagnole, che fornirono un numero elevato alla cifra dei caduti nella difesa della capitale: 230 sui 1042 complessivi (Nota 2). Ulteriori notizie sulla partecipazione al 1849, maggiormente dettagliate, sono disponibili sui 162 volontari che nell’ultimo disperato tentativo di raggiungere Venezia per continuare a combattere per la libertà, nell’agosto di quell’anno lasciarono San Marino assieme a Garibaldi e sua moglie Anita, per essere poi catturati dagli austriaci al largo delle coste emiliano-romagnole. In realtà, di costoro solo dieci erano romagnoli, ma i documenti confermano una provenienza sociale che continua a pescare nel vasto mondo dell’artigianato e del commercio che anima le cittadine della zona: compresi tra i 16 e i 42 anni, vi si trovano due faentini (un garzone fabbro e un commerciante), due forlivesi, (un garzone calzolaio e un «possidente»), due lughesi (un contadino e un vetturino), tre ravennati (un garzone fornaio, un barcaiolo e un operaio giornaliero), e un riminese, calzolaio (Nota 3).
Maggiormente rappresentativo è invece il campione tratto dai documenti della Sagra Consulta, il tribunale pontificio che giudicò i reati di opinione commessi nel periodo della Repubblica, a partire da quello di lesa maestà. A partire da Giuseppe Mazzini, sono 3.223 i nominativi messi sotto inchiesta dai giudici papalini. Le Legazioni di Forlì e Ravenna forniscono 338 imputati, sotto accusa per una serie di reati che vanno dall’atterramento degli stemmi pontifici al possesso di scritti e stampe eversive, dalle minacce e violenze nei confronti dei vescovi all’incendio degli archivi, dall’asportazione di somme di denaro delle casse pubbliche a reati comuni come l’omicidio e il furto. Non erano i capoluoghi di Legazione a fornire il maggior numero di imputati, vantandone 39 Forlì e 30 Ravenna, ma Faenza, che allora era una delle città più dinamiche dal punto di vista economico e commerciale della Romagna, con ben 63 inquisiti. Era forse il frutto di una posizione al centro di una rete di trame cospiratorie che si allungava in ogni direzione: verso i due capoluoghi, certo, ma anche lungo la via Emilia, con Imola che forniva 55 inquisiti; verso la bassa pianura, dove Lugo ne vedeva altri 53, e anche all’interno dei primi contrafforti appenninici, con il territorio della vicina Brisighella a registrarne altri 21, di cui ben 18 dalla popolosa frazione di Fognano, una località con una tradizione antipontificia che si sarebbe rivelata duratura. Della maggior parte di costoro, di età compresa tra i 18 e i 57 anni, è nota anche la posizione sociale degli imputati. Suddividendoli per mestieri, si hanno: 

- Nobili e possidenti 13

- Laureati 7

- Studenti 3

- Scrivani pubblici 2

- Impiegati privati 5 

- Dipendenti pubblici 5

- Ex militari 37

- Artigiani o loro dipendenti 147

- Commercianti o loro dipendenti 23

- Lavoratori dipendenti 10

- Contadini e simili 11

- Marinai 1

- Disoccupati 1

Al di là della consueta presenza di una rappresentanza di classi sociali elevate (nobili e possidenti), che tuttavia nella realtà sociale ed economica della Romagna, priva di famiglie dalle grandi fortune terriere, vanno considerati nella loro pratica quotidiana di vita non troppo lontane dai restanti ceti sociali, vi è una partecipazione limitata ma significativa del mondo delle lettere, degli uffici, e dei militari. Tre ‘tipi’ sociali che attraversano l’intera epopea del Risorgimento italiano, presenti fin nelle prime cospirazioni post napoleoniche e via via nelle esperienze rivoluzionarie successive. Ma a fornire il nerbo dei partecipanti alla difesa della Repubblica è, ancora una volta, il popolo urbano: gli artigiani, i commercianti, e i loro dipendenti, pari al 50,29%. 

 

Il caso faentino

Emergeva dunque, negli studi di Drei, che peraltro conosceva le precedenti ricerche di un nume tutelare della ricerca storiografica di questo territorio, Piero Zama, la consapevolezza dell’importanza rivestita da Faenza nel corso del processo di unificazione. La città, che all’epoca dell’Unità avrebbe contato, tra abitato e contado, 35.592 abitanti, era una delle maggiormente turbolente delle Legazioni romagnole dal punto di vista politico, ma anche tra le più vivaci nel panorama economico. La sua economia, basata tra l’altro su alcune imprese di tutto rispetto, come la Fabbrica Maioliche Ferniani, la Cartiera, la Filanda e svariate attività artigianali, la ponevano in posizione privilegiata nel panorama economico romagnolo. Dal punto di vista politico, Faenza era un centro poco docile al potere papale, attraversata da cospirazioni carbonare e da moti, come quello del 1831, cui partecipò attivamente, con strascichi violenti come nel resto della Romagna, ma che in città erano particolarmente acuti, con i ‘centurioni’ pontifici, i partigiani del papa, a scontrarsi spesso, in agguati e risse sanguinose, con i liberali della città. Culturalmente vivace, vide nascere un periodico, «L’Imparziale», che – sulla scorta del «Felsineo», organo del liberalismo moderato bolognese – non si presentò solo come voce adulatrice del potere costituito, ma per dare fiato allo spirito riformista che si faceva strada in Italia negli anni Quaranta, e che anche in Romagna propugnava un’agricoltura più moderna, scambi commerciali più intensi, una finanza disponibile all’investimento tramite lo strumento delle casse di risparmio che stavano facendo capolino anche in regione (Nota 4). A Faenza lo spirito piononista del 1846-48 si avvertì con virulenza e fece sì che molti giovani partissero volontari per la guerra contro gli austriaci, come d’altronde dal resto della Romagna. Come scriveva Drei, 

nelle osterie e nei caffè si aprono collette fra i fedeli avventori per abbonarsi a giornali, in particolare di Parigi. La diffusione della stampa, di Bologna e d’oltralpe, nei luoghi pubblici porta ad accesi dibattiti politici e, certo non casualmente, è in una osteria che vengono raccolte le firme dei volontari pronti a partire con la Guardia Civica mobilizzata per affrontare gli austriaci. La sottoscrizione raggiunge in poche ore le quattrocento firme ed a capo dei volontari si pone quel Raffaele Pasi che, come abbiamo visto, tre anni prima aveva assaltato la casermetta pontificia. I volontari, in assetto di marcia, si adunano il 27 marzo nel palazzo comunale. Essi vogliono partire senza indugi; le autorità pontificie, com’è noto, nicchiano, cercano di prendere tempo, invitano i volontari ad attendere il passaggio del generale Durando, gli ufficiali fanno la spola fra l’ufficio dove discutono con le autorità ed i saloni occupati dai volontari, dichiarano esplicitamente di non riuscire più a trattenere gli uomini; il verbale, fortunatamente conservato, riporta espressamente il termine “ammutinamento”; finalmente le autorità cedono alla paura ed autorizzano la partenza. Sconfitti a Vicenza dalle preponderanti forze austriache non tutti i volontari tornano a casa, molti, almeno 51, combattono a Venezia, molti combatteranno poi in difesa della Repubblica Romana (Nota 5).

Dieci anni più tardi, la Seconda guerra d’indipendenza vide numerosi giovani della città, come di altri centri limitrofi, raggiungere l’esercito sabaudo per arruolarvisi e partecipare all’imminente conflitto. La via della Toscana, passando per la vicina Modigliana, patria di don Giovanni Verità, era quella meno rischiosa e che garantiva un approdo sicuro nel Regno di Sardegna. Per analizzare la partecipazione cittadina a quegli eventi e a quelli successivi (Nota 6), risultò fondamentale per gli studi di Drei il prezioso materiale documentario conservato nell’Archivio Storico del Comune di Faenza, a partire da alcuni manifesti che indicavano il numero dei cittadini che avevano aderito ad alcune campagne risorgimentali: uno di questi («Faenza addita alle città sorelle quanto ami l’Italia. Volontari accorsi in difesa della patria»), pubblicato già all’indomani dell’unificazione, elenca i nominativi di ben 1.136 volontari. L’elenco si riferisce in maniera generica alle campagne dei bienni 1848-1849 e 1859-1860, senza porre distinzioni fra di esse. È quindi impossibile individuare chi partecipò a una sola o a più avventure patriottiche, e non si può non considerare che questi elenchi ex post erano soggetti – come avvenuto spesso in altri periodi di rivolgimenti istituzionali – al rischio di indebite gonfiature da parte di chi, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, voleva fregiarsi di una adesione al processo risorgimentale che non aveva riscontri nella realtà. La vicinanza temporale con i fatti – il manifesto è infatti del 1863 – può tuttavia essere considerato un sia pur minimo antidoto all’infiltrazione di nomi che non avessero realmente condiviso attivamente quegli eventi e che sarebbero stati, pertanto, smascherati dai concittadini che vi avevano preso parte effettiva. Tenendo presente tutto ciò, e aggiungendovi che sicuramente alcuni nomi avevano partecipato a più di una campagna, il numero finale rimane comunque impressionante, considerata anche la consistenza della popolazione comunale, già indicata precedentemente.
A fornire ulteriori indicazioni interviene il secondo manifesto, pubblicato nel 1888 per essere inviato alla grande esposizione regionale che si tenne a Bologna. Il documento comprende i nomi di coloro che avevano preso parte volontariamente alle campagne risorgimentali: 1.527 faentini, secondo l’indicazione di Drei. Il manifesto, conservato negli archivi cittadini, dovrebbe fornirci dati sulle campagne dal 1848 al 1870, ma in realtà si ferma al 1867, escludendo quindi le ultime due campagne risorgimentali, quella garibaldina in Francia e quella monarchica per la conquista di Roma. Dagli studi di Drei non era possibile stabilire con certezza quanti di tutti costoro avessero partecipato a una sola campagna oppure fossero stati coinvolti in più di esse. Tuttavia, il manifesto del 1888 ci fornisce dati interessanti su questo aspetto, confermando per esempio il primato di Vincenzo Caldesi, il «Leone di Romagna» esaltato da Giosuè Carducci, nato nel 1817 e presente in tutte le campagne tra il 1848 e il 1867. A fronte di una maggioranza che partecipò a una sola campagna, alcuni – meno noti –, inanellarono molte presenze: Alfonso Gaeta è registrato in tutte le iniziative dal 1848 al 1861; lo stesso vale per Antonio Bolognesi, ma tra il 1859 e il 1867. In 37 lottarono in quattro diverse campagne. Non mancarono lutti e sofferenze, a ricordare che non di semplici avventure si trattava e che in gioco si metteva la propria vita: tra 1848 e 1867 i caduti sono indicati nel numero di 26, 13 i feriti e sei i decorati con medaglia al valor militare. I dati di questo tipo di documento non vanno considerati infallibili: di Raffaele Pasi, uno dei leader del moto del 1845, attivo in tutte le campagne fino al 1866, non è indicata la presenza in quella del 1859, ma sappiamo che combatté anche durante la Seconda guerra d’indipendenza (Nota 7). Complessivamente, tuttavia, forniscono una conferma della vasta partecipazione popolare e sono suscettibili di ulteriori approfondimenti, come quella sui legami familiari, visto che il ripetersi di cognomi uguali non può essere dovuto solo a casi di omonimia, ma alla probabile partenza per i campi di battaglia di membri della stessa famiglia (Nota 8).
Oltre a questo materiale, il lavoro di ricerca dei documenti più disparati riguardanti i reduci delle patrie battaglie, comprese le cronache giornalistiche de «Il Lamone», il principale foglio locale di fine secolo, di orientamento radicale, i necrologi, le richieste di sussidio per meriti patriottici rivendicati da alcuni ex garibaldini nel nuovo secolo, portarono Drei a stimare il numero dei volontari provenienti dal Comune di Faenza e che parteciparono alle campagne dall’inizio degli anni Trenta al 1870, alla cifra enorme di 1831. Era una cifra calcolata per difetto, in quanto i dati a disposizione a volte erano da ritenere incompleti, come nel caso del primo moto considerato, quello del 1831-32, che ebbe una vasta adesione nelle Romagne ma che attende ancora studi più approfonditi dal punto di vista della partecipazione (Nota 9). Di quei volontari, ben 958, poco più della metà, combatterono sui campi di battaglia veneti nel 1848, durante la Prima guerra d’indipendenza. Non c’è da stupirsi: circa due anni di papato di Giovanni Maria Mastai Ferretti avevano, anche al di là delle intenzioni di Pio IX, preparato il terreno per l’esplosione di fervore patriottico che accolse l’annuncio della guerra tra Regno sabaudo e Impero asburgico, giunto dopo che le piazze d’Italia avevano indotto i tremebondi sovrani della Penisola a concedere ognuno una carta costituzionale ai propri sudditi, ora diventati cittadini e cittadine. Ma, ancor di più, la nascita negli anni precedenti di una prima vera opinione pubblica nazionale, il successo di saggi come quello di Massimo D’Azeglio, che proprio dai recenti moti romagnoli prendeva spunto per la sua riflessione, la grande diffusione della tesi neoguelfa dell’abate Vincenzo Gioberti avevano fatto sì che la situazione sfuggisse letteralmente di mano alle classi dirigenti pontificie e un moto di entusiasmo antiaustriaco travolgesse la popolazione, specie quella urbana e i giovani. Non furono rari i casi di bandiere tricolori sventolate assieme a quelle papali, e molti volontari partirono dalla Romagna per il nord indossando sopra le vesti anche una tunica con una croce sopra, a sottolineare il carattere di santa guerra nazionale che l’impresa aveva assunto (Nota 10). Dopo la delusione dell’allocuzione papale del 29 aprile 1848, e quella seguita alla sconfitta da parte degli austriaci, rimane comunque rilevante il numero di 149 faentini volontari accorsi a combattere per la Repubblica romana, testimoniando una presenza mazziniana di tutto rispetto, e il sacrificio di nove vite, una percentuale più incisiva rispetto all’anno precedente, quando i caduti erano stati dieci.
Dieci anni dopo, le vicende che portano all’unificazione nazionale confermano un’adesione popolare fattiva sempre massiccia: 450 sono coloro che partecipano alla Seconda guerra d’indipendenza, la maggior parte nelle fila dell’esercito sabaudo, e 464 quelli impegnati nel 1860-61, sia nella campagna regia nelle Marche e nell’Umbria, sia con Garibaldi nel Sud Italia, dove però la maggioranza dei faentini arrivò più tardi rispetto all’ondata dei Mille partiti da Quarto. Le ultime battaglie registrano ancora una partecipazione di massa: in particolare quella del 1866. In 63 l’anno dopo seguono il Generale nel Lazio, nello sfortunato tentativo di prendere Roma che si risolve nella disfatta di Mentana; in 20 partecipano alle ultime due avventure, quella dei garibaldini che si oppongono alle armate tedesche in Francia e quella per la presa sabauda di Roma, senza però che i documenti chiariscano quanti vestono la camicia rossa e quanti siano tra i bersaglieri a Porta Pia.
Avendo a disposizione notizie sulla professione dei partecipanti per circa un terzo dei 1.831 indicati, se ne ricava la conferma della preponderanza di quel popolo minuto dell’artigianato, del piccolo commercio e dei loro dipendenti che fornisce circa il 70% dei partecipanti: si tratta di calzolai, facchini, muratori, sarti, fabbri, cappellai, osti, locandieri, cuochi e altro ancora, a rappresentare il caleidoscopio dei lavori urbani. Il resto sono possidenti, impiegati, professionisti, in particolare medici. Tutti comunque abitanti dei centri urbani della Romagna e non delle campagne. Anche se il campione di cui conosciamo l’età è esiguo, si può affermare con sufficiente sicurezza che fossero in gran parte giovani, spesso sotto i vent’anni (36 su 66) e non oltre i trenta (altri 19).
Erano ragazzi, «giovani, volontari e sognatori», come recitava il titolo di una mostra sui garibaldini organizzata dal museo del Risorgimento di Bologna nel 2003, la cui intenzione non era tanto celebrare Garibaldi ma, come scriveva Angelo Varni nella Prefazione al catalogo, riflettere sul

volontarismo garibaldino, con le sue mille piccole grandi storie di eroismo, di esaltata adesione agli ideali, di gusto per l’avventura, seguendo le tracce di un movimento generazionale che ebbe proprio nell’Ottocento del “risveglio” dei popoli la stagione più significativa, nel sogno partecipe di riuscire a proporre una diversa fisionomia delle genti e del cittadino europeo (Nota 11).

Era una mostra organizzata da Roberto Balzani, Mirtide Gavelli, Otello Sangiorgi e, naturalmente, Fiorenza Tarozzi, che dell’attenzione a quell’epoca aveva fatto una delle sue più profonde ragioni di studio.

 

NOTE:

Nota 1 A. Drei. Partecipazione popolare al Risorgimento a Faenza; il saggio frutto di quella ricerca è stato pubblicato, assieme ad altri scritti del medesimo autore, dalla Biblioteca comunale Manfrediana di Faenza ed è reperibile on line al link http://manfrediana2.racine.ra.it/drei/partecipazione.pdf Torna al testo

Nota 2 218 furono i caduti laziali, 129 quelli marchigiani e 70 gli umbri; gli altri provenienti da altre aree della penisola, a conferma del valore nazionale dell’esperienza repubblicana del 1849. Torna al testo

Nota 3 A. Drei, Partecipazione popolare al Risorgimento, cit. Torna al testo 

Nota 4 Sulla città in quel periodo storico cfr. R. Bosi, L. Lotti, A. Montevecchi (a cura di), Faenza nell'Ottocento. Vita, società e cultura nel XIX secolo, Moby Dick, Faenza 1992. Torna al testo

Nota 5 A. Drei, Partecipazione popolare al Risorgimento, cit. Torna al testo

Nota 6 Per un quadro complessivo sulla Romagna in quel determinante snodo storico, cfr. R. Balzani, A. Varni (a cura di), La Romagna nel Risorgimento. Politica, società e cultura al tempo dell’Unità, Laterza, Roma-Bari 2012. Torna al testo

Nota 7 E. Francia, Pasi Raffaele, in Dizionario biografico degli italiani, consultabile al link http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaele-pasi_(Dizionario-Biografico)/ Torna al testo

Nota 8 Il manifesto è conservato in Archivio di Stato di Ravenna, Sezione di Faenza, Archivio storico comunaleCarteggio, 1888, b. 916, «Miscellanee», fc. «Provvidenze generali ed affari diversi». Torna al testo

Nota 9 Su quel moto cfr. gli studi di P. Zama, a partire da La rivoluzione del 1831 e la Romagna, estratto dal «Bollettino del Museo del Risorgimento», a. XXVI/XVII (1982), pp. 51-62. Torna al testo

Nota 10 È il caso per esempio di volontari partirono dal contiguo Comune di Brisighella che, «vestiti di una tunica, sopra la quale in mezzo al petto era la croce listata dei 3 colori della bandiera italiana, […] furono accolti a Faenza con fuori e battimani»; in F. Lanzoni, Cenni storici di Brisighella, Brisighella, Comunque di Brisighella, 1977, cit. in A. Malfitano, Brisighella e l’unità d’Italia, Carta bianca, Faenza 2012, p. 24. Torna al testo

Nota 11 R. Balzani, M. Gavelli, O. Sangiorgi, F. Tarozzi, Giovani, volontari, sognatori. I Garibaldini dal Risorgimento alla Grande Guerra, catalogo della mostra tenutasi al Museo civico del Risorgimento di Bologna dal 15 febbraio al 1 giugno 2003, Costa editore, Bologna 2003, p. 7. Torna al testo

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