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Daniela Geppert

Tra più fuochi. La storia degli internati militari italiani 1943-1945. La mostra permanente presso il Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit (Nota 1)

 

«Memoria anziché risarcimento», così recita il titolo dell’ultimo capitolo della nuova esposizione permanente nel Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit (Centro di documentazione sul lavoro forzato nella Germania nazista). E così si può anche descrivere il contesto in cui è stata ideata la mostra. Da anni le relazioni italo-tedesche erano gravate da richieste di risarcimento per gli ex internati militari italiani. Questi nel 2001 sono stati esclusi dai risarcimenti versati dalla Germania agli ex lavoratori forzati. Di conseguenza si è aperta una discussione continua tra Germania e Italia. Anche le associazioni delle vittime italiane, in particolare l’Associazione nazionale reduci dalla prigionia (Arnp), hanno fatto riferimento insistentemente ai mancati risarcimenti. In seguito a ciò nel marzo 2009 i ministri degli esteri della Repubblica federale tedesca e della Repubblica italiana hanno insediato una commissione storica italo-tedesca con il compito di studiare la storia della Germania e dell’Italia durante la guerra e di indicare percorsi per una memoria condivisa. A dicembre 2012 la commissione ha consegnato i risultati del proprio lavoro ai ministri degli esteri di Italia e Germania. Uno dei suggerimenti prevedeva una mostra sulla storia degli internati militari italiani da allestire presso il Centro di documentazione sul lavoro forzato nella Germania nazista di Berlino.
Ma chi erano gli internati militari italiani attorno ai quali negli anni 2000 si è creata così tanta agitazione nei rapporti fra Germania e Italia?
Durante la seconda guerra mondiale l’Italia fu alleata nel regime nazista, i soldati di entrambi i paesi combatterono fianco a fianco sui fronti di guerra. Entrambi i paesi perseguirono proprie strategie di conquista, l’Italia nel Mediterraneo, il Terzo Reich soprattutto con la guerra di sterminio sul fronte orientale. Dopo lo sbarco degli Alleati nel Sud dell’Italia e a causa di una certa stanchezza della guerra l’Italia uscì dall’alleanza e l’8 settembre 1943 firmò un armistizio con gli Alleati occidentali. I soldati e gli ufficiali italiani passarono improvvisamente dall’essere alleati a essere nemici dei tedeschi e la Wehrmacht ne prese prigionieri circa 800.000. Circa 650.000 furono trasportati nel territorio del Reich e nei paesi occupati per essere impiegati come lavoratori forzati per l’economia bellica tedesca. Sotto il regime nazista le loro condizioni di vita e di lavoro furono definite da interessi concorrenti quali la punizione per il “tradimento” commesso dall’Italia con l’uscita dalla guerra da un lato e il massimo sfruttamento del loro potenziale come forza lavoro dall’altro. Anche Mussolini, come capo della Repubblica sociale italiana (Rsi), fondata nel settembre 1943, avanzò pretese nei riguardi di questi uomini per rimpinguare i ranghi del suo nuovo esercito. Questi diversi interessi fecero sì che i militari italiani si trovarono stretti tra più fuochi.
Questo stato di cose descrive anche l’odierna situazione degli ex internati militari. Essi, a differenza dei lavoratori forzati civili, come abbiamo detto non sono stati risarciti. Nonostante il loro passaggio allo status di lavoratori civili a partire dall’estate del 1944, circa 90.000 ex internati in virtù di una perizia stesa nel 2001 dal giurista esperto di diritto internazionale Christian Tomuschat sono stati considerati come prigionieri di guerra e i prigionieri di guerra (eccetto i polacchi) sono stati esclusi dai risarcimenti individuali versati dalla Repubblica federale tedesca tra il 2000 e il 2007. Tale decisione è stata particolarmente amara per gli italiani colpiti. Se essi in Italia avevano sofferto per decenni a causa della mancata attenzione verso il loro destino, ora tale indifferenza riceveva un sigillo a livello statale dalla Germania. Ne è seguita una serie di contenziosi giudiziari tra tedeschi e italiani, finché la Corte internazionale dell’Aia il 3 febbraio 2012 ha emesso una sentenza di immunità della Germania rispetto a singole cause di richiesta di risarcimento. I risarcimenti “negati” hanno continuato a gravare sulle relazioni italo-tedesche. In questo contesto il governo federale nel 2014 ha istituito il Fondo italo-tedesco per il futuro presso il ministero degli Esteri, seguendo con ciò i suggerimenti della commissione storica e grazie al Fondo ha promosso e sostenuto progetti di memoria relativi agli avvenimenti intercorsi fra il 1943 e il 1945 in Germania e in Italia, tra cui la mostra Tra più fuochi.
I preparativi per la realizzazione della mostra sono iniziati nel 2013-2014 con l’elaborazione del progetto e la richiesta di finanziamenti. Dall’autunno 2014 un team di tre ricercatori e ricercatrici ha condotto le ricerche prevalentemente in Italia presso archivi, musei, associazioni di vittime, istituti storici e privati per reperire fotografie, testimonianze, documenti rilevanti per la mostra. Proprio presso le famiglie dei militari si trovavano e si trovano ancora numerosi tesori “nascosti” per la storia degli internati militari italiani. Negli archivi tedeschi invece è relativamente poco il materiale reperibile e sono pochi i privati, le istituzioni storiche o i memoriali che si sono occupati del tema e hanno raccolto informazioni biografiche o su situazioni locali. Il lavoro del team incaricato della mostra è stato, non da ultimo, sostenuto da un consiglio scientifico italo-tedesco composto dal professor Brunello Mantelli (Università della Calabria), dal professor Enzo Orlanducci (Anrp), dal dottor Lutz Klinkhammer (Istituto storico germanico di Roma) e dalla dottoressa Gabriele Hammermann (direttrice del memoriale di Dachau).
Il 28 novembre 2016 il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, il suo omologo italiano Paolo Gentiloni e, come ospite d’onore, l’ex internato militare Michele Montagnano hanno inaugurato la mostra presso il Centro di documentazione sul lavoro forzato nella Germania nazista alla presenza di numerosi familiari e rappresentanti delle associazioni delle vittime. Con l’esposizione il destino degli internati militari italiani è stato riconosciuto per la prima volta in Germania in una mostra permanente specifica e completa.

 

fig. 1 Ingresso

 

La mostra, attraverso foto, disegni, oggetti, documenti, proiezioni e video, esposti su una superficie di 250 metri quadrati, descrive il destino di queste vittime del nazismo per lo più sconosciute in Germania. Il focus dell’esposizione sta nella rappresentazione delle condizioni di vita in prigionia e nel lavoro forzato. La mostra è allestita in una baracca dell’ex Lager 75/76 dell’Ispettore generale per le costruzioni della capitale del Reich (Generalbauinspektor für die Reichshauptstadt - GBI) a Berlino-Schöneweide. Anche in questo Lager, come in molti altri, furono reclusi militari italiani internati. La mostra, tuttavia, non si limita alla storia dei militari italiani internati in questo campo, ma offre informazioni sugli Imi nel complesso in una sequenza cronologica e tematica con esempi tratti da diverse regioni del Terzo Reich e dei territori occupati.

 

fig. 2 Modello della mostra 

 

I testi in tedesco, italiano e inglese sono brevi e si rivolgono a visitatori giovani e adulti che in genere non hanno preconoscenze sugli internati militari italiani prima della loro visita al Centro di documentazione.
La mostra si articola in otto capitoli e quattro focus tematici specifici. Questi ultimi offrono informazioni aggiuntive, al di là della struttura cronologica dell’esposizione, senza le quali non è possibile comprendere le particolari condizioni della prigionia degli internati militari italiani. Inoltre alcuni grafici forniscono informazioni statistiche come per esempio il numero dei militari internati in relazione ai prigionieri di guerra di altre nazionalità o note su settori e i campi di impiego dei militari internati italiani. Un aspetto straordinario della narrazione della mostra è la prospettiva del testimone: le esperienze degli internati militari sono integrate nell’esposizione attraverso installazioni video e audio, citazioni, proiezioni e biografie esemplificative. La rappresentazione è arricchita da biografie esemplari di colpevoli tedeschi.
Nel primo capitolo, mediante una proiezione di testo e immagini, viene rappresentata rapidamente la relazione tra l’Italia fascista e la Germania nazista: fotografie, cartine e titoli di giornale testimoniano degli accordi politici e militari tra i due paesi, passando per la guerra comune a partire dal 1940, e giungendo fino alla destituzione di Mussolini e all’armistizio dell’Italia con gli Alleati. La stanza è oscurata, in questo punto della mostra non si ha una veduta esterna sul Lager poiché esso non ha alcun ruolo negli antefatti.
Il secondo capitolo mostra la cattura dei soldati, dei sottufficiali e degli ufficiali italiani da parte della Wehrmacht. Una cartina dell’Europa meridionale consente di collocare gli avvenimenti in Grecia, Italia, Francia e nei Balcani. L’8 settembre 1943 i militari italiani restarono per lo più privi di ordini precisi da parte della dirigenza italiana e generalmente si arresero senza opporre resistenza. Alcuni esempi presentano i crimini commessi dalla Wehrmacht durante le fasi della cattura dei militari italiani in quei casi in cui ci furono atti di resistenza. Fra questi vi sono la fucilazione di poliziotti a Barletta come rappresaglia per la morte di due soldati della Wehrmacht o il massacro dei prigionieri di guerra italiani sull’isola greca di Cefalonia.

 

fig. 3 Il capitolo 2 della mostra

 

Di fronte al capitolo 2 si trova il primo focus tematico. Esso è dedicato all’uscita dell’Italia dal conflitto, definita dal regime nazista come un “tradimento”. La propaganda tedesca rispolverò vecchi pregiudizi sugli italiani “falsi” e “traditori”. Molti tedeschi, fossero essi sorveglianti nei Lager, capisquadra o passanti, ripresero questi pregiudizi e picchiarono, sputarono addosso o insultarono i militari internati italiani come “traditori”. Anche ai vertici del partito e della Wehrmacht il pensiero della vendetta per l’uscita dalla guerra determinò a lungo le decisioni relative agli internati militari. Tale atteggiamento ostile fu decisivo nel definire le condizioni di vita e di lavoro di questi uomini.
Le condizioni catastrofiche durante i trasporti durati più giorni dei circa 650.000 italiani nei campi di prigionia tedeschi – nella maggior parte dei casi in vagoni bestiame e senza viveri sufficienti – sono descritte nel capitolo 3 per mezzo di fotografie, citazioni e disegni. Poiché i disegni degli internati militari entrano in gioco per la prima volta con questa mostra come fonte particolare per la trasmissione della memoria, essi sono accompagnati da una classificazione didattica come fonti testimoniali. Allo stesso tempo i disegni sono esposti come controrappresentazione rispetto alle immagini della propaganda tedesca relative ai trasporti. In chiusura del capitolo troviamo la prima postazione video tematica con testimonianze degli ex internati militari sulla loro cattura, i trasporti e l’arrivo nei campi di prigionia. I contenuti occupano solo una parete del corridoio, mentre l’altra è lasciata libera. Ciò consente al visitatore di orientarsi agevolmente e permette di vedere il muro originale della baracca.

 

fig. 4 Corridoio

 

All’inizio del capitolo 4 due ulteriori approfondimenti tematici illustrano le differenze esistenti tra la condizione dei prigionieri di guerra italiani e quella degli altri prigionieri di guerra.
Il 20 settembre 1943 Hitler ordinò il mutamento di status degli italiani da prigionieri di guerra a internati militari. In questo modo aggirò il divieto di impiegare prigionieri di guerra come forza lavoro nella produzione bellica stabilito dal diritto internazionale. Gli ufficiali furono esclusi da questa regolamentazione fino all’inizio del 1945. Il cambiamento di status era necessario però anche perché proprio nel settembre 1943 nell’Italia settentrionale fu creata la Repubblica sociale italiana (Rsi) sotto la guida di Mussolini. Essa restò alleata del Terzo Reich fino alla conclusione del conflitto. I membri delle forze armate di uno Stato alleato non potevano essere prigionieri di guerra. Per questo Hitler ordinò il cambiamento di status.
Nel secondo focus tematico viene spiegata una conseguenza fondamentale del particolare status degli italiani. A differenza di quanto accaduto ad altri gruppi di prigionieri di guerra e ai lavoratori forzati civili, agli internati militari fu chiesto se volessero arruolarsi “volontariamente” nella Wehrmacht o continuare a combattere sotto le insegne del nuovo esercito della Rsi. La minaccia in caso di rifiuto alla collaborazione consisteva nella prigionia e nel lavoro forzato. I presupposti per la decisione erano molteplici: in alcuni Lager gli italiani furono spinti ad accettare con appelli punitivi e riduzione delle razioni alimentari. Alcuni speravano, dando la loro adesione, di poter rientrare presto in Italia, altri volevano continuare a combattere in un esercito fascista per convinzione. Circa 190.000 accettarono la collaborazione, 650.0000 rifiutarono di collaborare e restarono in prigionia.

 

fig. 5 Focus tematico              

 

Il capitolo 4 descrive le condizioni di vita dei soldati italiani nei campi di prigionia e nelle aziende sulla base di esempi tratti da diverse regioni del territorio del Reich. La maggior parte dei soldati e dei sottufficiali fu registrata e rapidamente assegnata agli Arbeitskommando. Fino all’estate del 1944 la Wehrmacht fu responsabile per l’amministrazione dei prigionieri, la loro sorveglianza, la punizione e il trattamento dei malati. Al centro della rappresentazione sta la descrizione dell’impiego, delle condizioni sui luoghi di lavoro e negli alloggi. Le aziende sfruttarono gli internati militari come forza lavoro “a basso costo” di cui c’era urgente bisogno e estesero la propria influenza sulle condizioni di vita e di lavoro in misura crescente. Oltre che in agricoltura, gli italiani furono impiegati soprattutto nel settore minerario, nell’industria e in lavori di costruzione. L’impiego rischioso nello sgombero delle macerie o nel recupero di cadaveri crebbe di intensità nel corso della guerra. A causa del trattamento brutale degli italiani in prigionia non si raggiunse l’aumento della produzione desiderato dai vertici nazisti e dalle aziende.
Chiude il capitolo la descrizione dell’assistenza ai malati e delle cause di morte. In totale morirono circa 50.000 militari internati italiani durante la cattura o in prigionia, in quest’ultimo caso spesso a causa di debolezza e malattia. Durante le ricerche gli ex internati o i loro familiari hanno raccontato più volte che i sopravvissuti erano fortemente denutriti. Nei documenti tedeschi sono annotati pesi di 48 kg, o meno, per uomini di 1,72 m di altezza. La fame, la paura della morte durante gli attacchi aerei, il duro lavoro e il disprezzo dei tedeschi contrassegnarono le condizioni di vita dei militari internati italiani.

 

   fig. 6 Il capitolo 4 della mostra

 

L’inattività obbligata degli ufficiali nei campi di prigionia è illustrata nel capitolo 5. Essi furono alloggiati in Lager per ufficiali o in settori separati dei campi per la truppa. A differenza dei soldati, gli ufficiali non dovettero lavorare fino all’inizio del 1945. Alcuni opposero resistenza, per esempio costruendo di nascosto radio per ascoltare le “trasmissioni nemiche” sull’andamento del conflitto. In questo, come negli altri capitoli della mostra, si dà accesso al tema mediante biografie esemplificative, oggetti e fotografie.
Il capitolo 6 è dedicato ad un ulteriore cambiamento di status degli internati. Per poter pretendere migliori prestazioni sul lavoro, nell’estate del 1944 gli internati militari furono passati allo status di civili. Da quel momento più istituzioni divennero responsabili per l’amministrazione, l’alimentazione e l’alloggiamento dei lavoratori forzati italiani. La persecuzione di violazioni vere o presunte era ora compito della Gestapo e non più della Wehrmacht. Le condizioni di vita degli ex internati migliorarono solo temporaneamente: grazie specialmente alla maggiore libertà di movimento essi riuscirono a trovare razioni di viveri supplementari sul mercato nero. Verso la fine della guerra la loro situazione di approvvigionamento peggiorò nuovamente. Inoltre aumentarono le fucilazioni di massa e le esecuzioni di lavoratori forzati da parte della Wehrmacht e della Gestapo, e ciò riguardò anche gli ex internati: per esempio sono documentate fucilazioni di ex internati a Treuenbrietzen, Hildesheim e Kassel.
Sempre nel capitolo 6 un altro focus tematico affronta il rapporto tra gli internati militari e la Rsi di Mussolini dipendente dalla Germania nazista. La Rsi fu dichiarata ufficialmente potenza protettrice degli internati al posto della Croce Rossa internazionale. La Repubblica sociale era dunque responsabile per l’assistenza dei prigionieri italiani, ma sotto il profilo organizzativo  non era nelle condizioni di assolvere a tale funzione. A muovere la Rsi ad impegnarsi sul tema degli internati militari furono soprattutto obiettivi politici. Misure come la spedizione di pacchi ai prigionieri servivano, infatti, soprattutto a guadagnare alla Rsi il consenso della popolazione o a tranquillizzare i parenti dei militari.
Il capitolo 7 mostra la liberazione, l’attesa del rimpatrio per mesi nei campi per Displaced Persons e il ritorno a casa. Gli Alleati organizzarono il rimpatrio prima di Displaced Persons originarie di paesi diversi dall’Italia. Molti ex internati dunque presero autonomamente la via di casa, ma la maggior parte di loro attese i trasporti ufficiali attraverso il Brennero.

 

fig. 7 La parete dei ritratti in chiusura della mostra

 

Il capitolo 8 presenta la situazione degli ex internati nei decenni seguiti al loro rientro in Italia. Inizialmente il destino degli internati militari non riscosse attenzione: la società postbellica italiana a lungo non li riconobbe come vittime. Solo negli anni Ottanta il “No” degli internati alla collaborazione con la Wehrmacht o il nuovo esercito di Mussolini fu riconosciuto come “Resistenza senza armi”. Da parte tedesca fino ad oggi non c’è stato alcun risarcimento per la maggior parte degli internati militari e, sino all’apertura di questa mostra, e neppure è stato creato un luogo di memoria specifico. A conclusione della presentazione si trovano alcune postazioni con testimonianze di ex internati militari sulla vita dopo la guerra e sui risarcimenti negati, così come interviste di volontari e storici sul significato di questo tema nella contemporaneità.
All’allestimento della mostra hanno contribuito in molti. Senza l’aiuto degli ex internati militari e dei loro familiari questa esposizione non sarebbe stata possibile. Hanno messo a disposizione volontariamente la propria storia, o quella dei loro padri e nonni, sotto forma di resoconti, fotografie, documenti e oggetti. Anche gli istituti storici italiani, le associazioni (di vittime e non), i musei e i centri di studio hanno contribuito fornendo informazioni, oggetti e interviste. La maggior parte ha messo a disposizione il materiale gratuitamente o dietro il pagamento di una piccola somma, nonostante la carenza di finanziamenti. Anche da parte tedesca si è registrato l’aiuto di centri per lo studio della storia, privati, storici e memoriali. In questo modo nel Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit ha preso forma una esposizione che intende rendere noto il destino dei militari italiani internati ai visitatori tedeschi e a quelli provenienti dall’estero.
Accompagna la mostra un catalogo di circa 300 pagine in tedesco e in italiano (ISBN 978-3-941772-36-6).

 

NOTE:

Nota 1 L’autrice è vice direttrice del Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit e curatrice della mostra sugli internati militari italiani.
Traduzione dal tedesco di Roberta Mira. Torna al testo

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