Percorsi di ricerca all’Archivio di Stato di Bologna nel fondo “Sovversivi” e in quello della Corte d’Assise straordinaria
a cura di Dianella Gagliani
Per lungo tempo l’Archivio di Stato di Bologna – centro documentario di sicuro e imprescindibile interesse per gli studiosi di altri periodi storici – era stato sostanzialmente disertato dai ricercatori di storia contemporanea che indirizzavano i loro studi al Novecento e, in particolare, agli anni del regime fascista, della seconda guerra mondiale e del secondo dopoguerra. L’assenza delle carte della prefettura a partire dal 1928 obbligava quanti intendevano concentrarsi sulla situazione politica e sociale della fine degli anni Venti, ma anche degli anni Trenta e anni Quaranta a rivolgersi ad altre sedi archivistiche e soprattutto all’Archivio centrale dello Stato nel tentativo di recuperare la documentazione inviata dalla periferia provinciale agli organismi istituzionali nazionali e di ricostruire in tal modo, per quanto possibile, le vicende locali.
Negli ultimi tempi la situazione è cambiata, non tanto perché si sia ricucito quel vulnus documentario, quanto perché sono stati finalmente versati all’Archivio di Stato fondi archivistici di indubbio valore. Nel caso del fondo “Sovversivi” proveniente dall’archivio della Questura, possiamo perfino contare su un’ottima e speciale catalogazione che ne consente una più spedita consultazione. Nel caso delle carte della Corte d’Assise straordinaria, giacenti da anni presso l’Archivio, l’aumento della distanza temporale dal 1945-1947, da quando cioè quella Corte operò, rende meno difficoltoso allo studioso l’accesso alla documentazione.
Possiamo dunque dire che per i contemporaneisti novecentisti l’Archivio di Stato di Bologna ha cominciato a essere attraente. Non solo: si è creata una fruttuosa collaborazione fra storici e archivisti anche grazie alla mediazione dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna (Isrebo), che si è mostrato nei suoi organismi dirigenti particolarmente sensibile a questa documentazione e allo sviluppo degli studi su questi terreni. Senza la speciale triangolazione fra Archivio di Stato, Isrebo, Università non si sarebbe giunti né alle prime ricerche sviluppate dagli studenti del mio seminario della laurea magistrale in Scienze storiche, i cui risultati furono discussi il 14 luglio 2010 alla presenza significativa della direttrice dell’Archivio, Elisabetta Arioti, e dei maggiori esperti di queste specifiche fonti, Carmela Binchi e Salvatore Alongi, né ai saggi che qui si pubblicano e che danno conto, se pur succintamente, dell’esito di tre tesi della medesima laurea magistrale.
Claudia Locchi e Marco Torello si sono indirizzati al fondo “Sovversivi”, analizzando, la prima, i fascicoli di tutti coloro che furono schedati come “socialisti” dal 1872 (data di inizio del fondo) al 1913; il secondo tutti i fascicoli aperti dal 1918 al 1922. Un lavoro sistematico in entrambi i casi. Non solo e non tanto per le cifre che ci vediamo sfilare davanti: 700 schedati come “socialisti” dal 1872 al 1913; 598 nuovi schedati come “sovversivi” fra il 1918 e il 1922. Ma anche e principalmente per le ulteriori e rilevanti informazioni che ci vengono offerte. Sia riguardo alla geografia del “sovversivismo” – che conferma per alcuni decenni il ruolo svolto dalle lotte e dall’organizzazione socialista nelle campagne –, sia per quanto riguarda l’età anagrafica – i “sovversivi”, nella stragrande maggioranza, erano giovani al momento della prima schedatura –, sia per i caratteri del controllo di polizia e delle forme persecutorie, sia per la mentalità delle forze dell’ordine, sia per l’individuazione di chi era ritenuto “sovversivo”, sia ancora per le vicende dei medesimi “sovversivi” seguite fino alla chiusura dei fascicoli di polizia, avvenuta talvolta oltre la fine della seconda guerra mondiale.
Claudia Locchi si concentra in particolare su un nodo centrale della nostra storia nazionale, quello relativo ai limiti del nostro Stato di diritto in piena età liberale, in virtù della scelta di derubricare l’opposizione politica a delinquenza comune, una scelta che permetteva di mostrare una facciata liberale mentre nell’interno si consumavano soprusi tipici di uno Stato assoluto. Dipendesse da questi criteri, o meno, sta di fatto che l’analisi dei fascicoli degli schedati come “socialisti” fino all’anno precedente all’inizio della prima guerra mondiale consente di portare alla luce una cultura delle forze preposte all’ordine pubblico degna di ogni nostra attenzione.
Lo schermo di stereotipi in forza dei quali i braccianti, gli operai e le classi popolari in genere non dovevano essere inclusi nella cittadinanza politica e sociale, perché facenti parte di un universo “altro”, “naturalmente” inferiore, che tutt’al più si poteva proteggere se dava garanzie di obbedienza e di accettazione della sua condizione subalterna, possiamo ritrovarlo ancor oggi o si può riproporre, pur con tratti e soggetti mutati.
Il grado del controllo, della repressione e della persecuzione, che con il fascismo diventa un accanimento feroce che dispiega livelli indicibili di violenza psicologica e morale, al fine di distruggere la vita, l’identità e la dignità dell’oppositore politico, affiora con tutta evidenza. Una cruda realtà che contesta ogni visione che vorrebbe il nostro fascismo come mite e bonario proprio in ragione del destino riservato agli oppositori.
Marco Torello ci offre l’identikit del “sovversivo” che si affaccia nei fascicoli della Questura dal 1918 al 1922: «un individuo di sesso maschile, con un’età media di 29 anni, proveniente dalla provincia bolognese e di origine contadina (o al più operaia), con una chiara propensione per ideali associabili al socialismo». Qui viene sviluppata significativamente un’analisi sulla debole presenza femminile nel casellario politico provinciale (in totale, del resto, le donne sono 483 su 8.644 persone schedate) cogliendo, tramite la lettura delle carte esistenti nei fascicoli, la concezione di “minorità”, di “incapacità d’intendere e volere” e, quindi, di subalternità agli uomini che si può individuare presso le forze dell’ordine preposte al controllo politico. Anche in questo caso, la realtà che spunta dalle stesse fonti propone figure femminili ben più autonome e salde, in aperta contraddizione con gli schemi concettuali utilizzati.
Se il sovversivo-tipo di questi anni partecipa dell’articolato universo socialista, lo scavo archivistico ha evidenziato un’attenzione particolare alle posizioni antimilitariste nell’ultimo anno di guerra e una relazione molto stretta fra autorità civili e autorità militari rivolta a censire il minimo accenno che potesse rubricarsi come “disfattista”. Va da sé che si dovrà ampliare l’indagine agli anni 1914-1917 per verificare il peso delle preoccupazioni verso l’antimilitarismo, ma è già importante aver rilevato questo dato.
Vorrei infine accennare a un ultimo aspetto, quello dei vuoti documentari, che qui si considerano per i fascisti della prima ora. Sembra infatti bizzarro che nel 1919 e, ancor più, nel 1920, 1921 – quando lo squadrismo nacque e si sviluppò nella provincia in forme straordinariamente violente – nessun fascista abbia fatto il suo ingresso nel casellario politico provinciale dei “sovversivi”. Chissà che – come su un piano nazionale non si ritrovano nel Casellario politico centrale né il fascicolo di Mussolini né i fascicoli di quanti e quante gli furono vicini nello stesso periodo della sua militanza socialista – anche il piano provinciale abbia subìto quelle che sono individuabili come evidenti “epurazioni”.
Isabella Manchia ha lavorato sul fondo della Corte d’Assise straordinaria per ricostruire la storia di Renato Tartarotti e del suo reparto. La lettura attenta di tutte le carte del fondo (nonché di fascicoli particolari di altre serie archivistiche) le ha consentito di sciogliere diversi nodi relativi alla figura dell’unico “collaborazionista” attivo in provincia di Bologna la cui condanna alla pena di morte fu eseguita.
Vediamo innanzitutto svolgersi la sua carriera, celerissima, da sergente maggiore a capitano nel giro di pochi mesi, il suo passaggio dal partito fascista alla Questura sotto l’egida del questore Tebaldi, la sua attività di spietato repressore dell’opposizione politica e del partigianato. Ma scorgiamo anche un suo impiego diretto a razziare oro e altri beni altrettanto preziosi. Nel dopoguerra fu facile addebitare al solo Tartarotti queste espropriazioni interpretate, per di più, come esclusivo desiderio di arricchimento personale. Oggi non possiamo non chiederci quanto quei “recuperi” rispondessero a richieste dei dirigenti provinciali o, addirittura, nazionali. Ciò che getta luce su un altro nodo che qui si affronta: quello dell’autonomia del reparto di Tartarotti da qualsiasi autorità della Repubblica sociale italiana (Rsi).
In analogia ad altre cosiddette “bande” – come la Carità, la Koch, la Legione Muti – la compagnia di Tartarotti, se pur ebbe un raggio di azione più ridotto rispetto a quelle, risulta che fu autonoma solo riguardo agli strumenti da utilizzare, non riguardo agli obiettivi, stabiliti da specifiche autorità della Rsi. La Rsi, dunque, si configura una volta di più come responsabile centralmente dell’attività delle cosiddette bande “autonome”, naturalmente responsabili, per parte loro (dei loro comandanti e dei loro semplici sottoposti), di aver eseguito gli ordini ricevuti.
Giustamente Isabella Manchia pone la questione delle responsabilità più allargate davanti alla costruzione postbellica di un unico “mostro”, Tartarotti in questo caso, il cui processo e la cui punizione poterono lenire le sofferenze, le angosce e le apprensioni patite dalla popolazione nei lunghi mesi dell’occupazione tedesca; ma non rappresentarono una piena giustizia, poiché furono mandati assolti o presto furono amnistiati molti dei responsabili maggiori (per non parlare dei minori).
Questo saggio si cita: D. Gagliani, Percorsi di ricerca all’Archivio di Stato di Bologna nel fondo “Sovversivi” e in quello della Corte d’Assise straordinaria, in «Percorsi Storici», 0 (2011)[http://www.percorsistorici.it/component/content/article/10-numeri-rivista/numero-0/43-gagliani-percorsi-di-ricerca]