Stefania Ficacci, Rileggere la Resistenza romana. Nuovi strumenti metodologici e di analisi del ruolo e del contributo della popolazione civile

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Stefania Ficacci

Rileggere la Resistenza romana. Nuovi strumenti metodologici e di analisi del ruolo e del contributo della popolazione civile

 

Memoria pubblica e fonti della memoria nel discorso storiografico resistenziale del secondo dopoguerra 

In occasione del cinquantesimo anniversario della Resistenza, nel 1995, lo storico Nicola Gallerano apriva il suo intervento al convegno organizzato dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (Irsifar) ponendo una domanda cruciale per la storiografia resistenziale: «Perché memoria della Resistenza? E, ancor prima, perché memoria?» (Nota 1). Inserendosi in un dibattito all'epoca accesosi da pochi anni, la questione che Gallerano poneva agli storici romani appariva come la conseguenza di una svolta decisiva per la storiografia non solo italiana, ma anche europea. L’apertura di questo dibattito, ricordava Gallerano, era stata preceduta da un cambiamento storico determinante per il Novecento: il crollo del sistema politico internazionale postbellico e il conseguente venir meno del dualismo democrazia occidentale/comunismo sovietico e quindi delle «loro specifiche modalità di costruire memoria», secondo le tradizionali declinazioni delle identità politiche e nazionali e delle appartenenze collettive classiche (Nota 2). In pratica la fine del bipolarismo rimetteva in discussione non tanto i parametri attraverso i quali la storiografia aveva interpretato gli eventi storici della Resistenza europea, quanto piuttosto i criteri sui quali si era costruita la memoria pubblica della lotta di liberazione dal nazifascismo e le sue funzioni, fondative e celebrative, rispetto alla codificazione dei due sistemi politici contrapposti.
Secondo questo processo, le memorie private avevano possibilità di emergere solo se capaci di svolgere una funzione eminentemente pubblica, rispondendo quindi a criteri di selezione che privilegiavano il ruolo sociale e politico del personaggio autore. Per esempio nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta furono edite numerose memorie private di personaggi pubblici – raccolte attraverso interviste, autobiografie o diari – che erano stati fra i protagonisti del movimento resistenziale italiano. Ma la pubblicazione delle testimonianze dei rappresentanti politici e militari della Resistenza svolgevano piuttosto una funzione specifica nella costruzione dell'identità e della memoria pubblica di un Paese che poneva le sue nuove radici nella lotta per la liberazione dal nazifascismo. Le memorie private erano quindi raccolte e diffuse solo se ritenute funzionali rispetto al discorso pubblico, mentre la storiografia continuava a circoscrivere la raccolta di queste fonti a due temi storiografici: la lotta armata e la contrapposizione politica fra i partiti antifascisti, divisi poi dal bipolarismo postbellico (Nota 3).
A partire dagli anni Settanta, tuttavia, le prime incrinature del sistema politico bipolare e l'emersione di protagonisti inediti nella società come nella narrazione storica (gruppi politici o etnici minoritari, donne, pacifisti, movimenti religiosi) sollecitarono una ridefinizione dei criteri di costruzione della memoria pubblica, stimolandola a riconoscere il ruolo determinante di questi nuovi protagonisti nel processo di costruzione dell'Europa dopo la sconfitta del nazifascismo. Si andava quindi incrinando il granitico disegno di una memoria della Resistenza letta soprattutto come lotta armata e politica contro il nazifascismo, dove trovavano spazio le memorie private dei rappresentanti dell'antifascismo e dei militanti in guerra. Un processo di disgregazione del modello tradizionale di memoria pubblica consentì quindi di concedere uno spazio autonomo alle memorie individuali, che, seppur lentamente e non senza suscitare grandi perplessità, ambivano a proporsi in una nuova funzione: quella di fonti per la storiografia. Diari, autobiografie, interviste orali e audiovisive, cronache religiose, relazioni di gruppi politici autonomi attirarono l'attenzione di storici impegnati in filoni ritenuti anch'essi minoritari, ma nei quali andava articolandosi la storiografia europea anche in conseguenza della rivoluzione promossa dalla svolta metodologica imposta dalla nouvelle histoire. L'avvio dell'inedito campo d'indagine della storia sociale è dopotutto il frutto del recepimento in ambito europeo delle sollecitazioni provenienti dalle novità della scuola de LesAnnales. Va comunque ricordato che, almeno fino alla metà degli anni Ottanta, la "scoperta" delle fonti della memoria fu accolta con notevole scetticismo dalla tradizione storiografica italiana. Si pensi, a solo titolo d'esempio, a quali critiche furono sottoposti i primi lavori di Alessandro Portelli e Luisa Passerini, nei quali gli studiosi introdussero l'uso delle interviste (Nota 4). Ma si era ormai di fronte alla nuova storia sociale, che, come la descrisse Peter Burke nel 1974,

potrebbe essere positivamente definita come lo studio del cambiamento sociale in comunità specifiche, dove "cambiamento sociale" significa cambiamento all'interno della struttura sociale, nei gruppi che compongono la società (Nota 5).

Il cambiamento della società negli anni Settanta e Ottanta sollecitava l'attenzione verso nuove fonti e nuovi soggetti utili per l'analisi storiografica, mentre la memoria pubblica si avviava verso uno sfaldamento del suo carattere monolitico come delle sue funzioni fondative e celebrative: un discorso pubblico che sarebbe diventato non più leggibile dopo il crollo dei due sistemi politici. Di conseguenza, la domanda che Nicola Gallerano poneva agli storici romani nel 1995 va quindi interpretata più come un necessario invito a riflettere sulle molte accezioni che il termine “memoria” andava assumendo ormai da almeno due decenni. Venuti meno i presupposti politici e culturali sui quali era stata definita la funzione “pubblica” della memoria negli anni del bipolarismo, non solo era ora indispensabile ridefinire il significato di “memoria pubblica”, ma era ormai tempo di assegnare alle fonti della memoria un ruolo specifico all'interno dell'analisi storiografica.

 

Memorie private e nuove fonti per la storiografia resistenziale italiana

Il cambiamento storiografico, che molti studiosi indicarono come «la fine del secolo», in Italia aveva avuto il suo momento di avvio con l’acceso dibattito, non solo culturale ma anche politico, suscitato dalla pubblicazione del libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, uscito nel 1991 (Nota 6). Come ricorda ancora Gallerano, il volume giungeva dopo oltre un decennio di generale disinteresse dell’area della sinistra a questi temi di ricerca e in un momento di svalutazione dell’esperienza resistenziale nel discorso pubblico, facendo da volàno per l’avvio di una riflessione storiografica, se vogliamo, rivoluzionaria. Il volume sembrava infatti chiudere un lungo dopoguerra, in cui al sistema dualistico fascismo/antifascismo si era sostituito quello di comunismo/anticomunismo e per il quale l’obiettivo principale della storiografia resistenziale fu quello di legittimare la Resistenza e trovarne le continuità con il sistema democratico repubblicano. Come è stato già in parte osservato in precedenza, per assolvere questa funzione di legittimazione della Resistenza ed evidenziarne i caratteri fondativi rispetto al nuovo regime democratico, la storiografia aveva posto la lotta armata come oggetto privilegiato di narrazione storica, mentre la memoria pubblica aveva articolato il suo discorso su temi celebrativi, come il risveglio della patria dopo gli anni di oblio del fascismo, esaltando le valenze catartiche ed eroiche della guerra partigiana rispetto all'occupante tedesco. Secondo questo schema si può quindi comprendere perchè l'analisi storiografica abbia privilegiato le fonti documentarie o della memoria prodotte – spesso sotto l'egida di partiti politici o associazioni partigiane - soprattutto da rappresentanti dell'antifascismo e da militanti nei gruppi di Resistenza (Nota 7).
Certamente non va dimenticato quale ruolo decisivo giocò la svolta culturale dei primi anni Ottanta, che, come ha spiegato Peter Burke, segnò soprattutto un ampliamento d’interesse a campi di studio fino a quel momento ignorati, come la violenza e le emozioni.
Va ricordato infatti che, quasi in contemporanea con l’uscita del libro di Claudio Pavone, Jacques Sémelin pubblicava il suo volume, Senz’armi di fronte ad Hitler. La Resistenza Civile in Europa 1939-1943. Come ricorda Anna Bravo, alla lettura del volume di Sémelin

ho avuto una sensazione di riconoscimento e insieme di scoperta. Riconoscevo una serie di comportamenti conflittuali che avevo incontrato facendo ricerca sulle donne in guerra e sulla deportazione, e che la Resistenza non ricomprendeva, anche se mi sembrano appartenerle di diritto. Ne avevo trovato echi nella memorialistica, ricordavo la gratitudine e a volte la tenerezza con cui ne parlavano amici partigiani (Nota 8).

Ma erano figure che emergevano a fatica dalla storiografia, indicate spesso con etichette negative come Resistenza passiva o popolare, oppure relegati nei filoni storiografici ritenuti minori o localistici: resistenza negli ospedali, nei quartieri, nei paesi, nelle scuole (Nota 9).
Quel cambio di rotta fu il primo passo per un recupero nella storiografia resistenziale di un’attenzione all’emotività umana, all’orizzonte dei sentimenti, alle affettività e alle coscienze, per comprendere come i singoli agirono nel seguire una scelta di opposizione o di collaborazionismo, di solidarietà o di sopravvivenza individuale. Per questa ragione si assistette, agli inizi degli anni Novanta, ad un ribaltamento del giudizio, troppo spesso negativo, che la storiografia aveva riservato alle ricerche condotte attraverso le fonti della memoria e che avevano avuto come oggetto d’indagine le esperienze individuali di tutti i partecipanti alla lotta partigiana, non escludendo la popolazione senz’ari (Nota 10).
In quella «fine di secolo» veniva quindi messo in discussione un approccio ritenuto ormai pregiudiziale e anacronistico, che impediva una lettura completa della lotta di liberazione e che si poneva in contrasto con quella definizione di “guerra totale” attribuita al secondo conflitto mondiale, che per primo aveva coinvolto la popolazione civile in ogni aspetto della vita quotidiana (Nota 11). Questa svolta, determinata certamente dalle trasformazioni degli equilibri politici dopo il crollo del bipolarismo, era stata impressa soprattutto dalla nuova attenzione con la quale si guardava ora alle fonti della memoria ed al loro impiego nella rilettura della storiografia resistenziale. Dopotutto le fonti che più si prestavano a far emergere dall'oblio questi nuovi protagonisti della lotta contro il nazifascismo erano proprio quelle prodotte dalle esperienze e dai ricordi individuali. Una svolta che non significa il declino di una memoria pubblica (o collettiva), ma piuttosto un mutamento dei criteri di selezione del discorso pubblico.
La diffidenza nei confronti delle fonti della memoria appariva ora come un comportamento miope della storiografia, indotto da «un’interpretazione militante del rapporto ricerca storica/lotta politica, che mantiene in primissimo piano la lotta armata e i suoi valori, compreso il valore aggiunto accordato nella tradizione marxista alle forme collettive di ribellione» (Nota 12). Questo nuovo approccio richiedeva una ridefinizione delle qualifiche resistenziali, finora improntate «all’ideologia del cittadino in armi» e a «una concezione della politica come monopolio delle avanguardie, e del legame politico/ideologico come forma suprema della concertazione» (Nota 13).
Lo spostamento di attenzione degli storici verso i temi ed i protagonisti della resistenza civile andava compiendosi, dopotutto, in conseguenza dell’emergere di una differente lettura dello stesso antifascismo. Sempre nel 1995, infatti, l’Irsifar era chiamato a collaborare all’organizzazione di un convegno del Centro Studi Difesa Civile, sul tema dell’opposizione popolare al fascismo. In quell’occasione Antonio Parisella (Nota 14) sottolineava come l’espressione “anni del consenso”, coniata da Renzo De Felice per il regime fascista del decennio 1929-1936, si fosse estesa a tutto il ventennio di dittatura, andando ben oltre le intenzioni dell’autore e trasformando una categoria interpretativa in un carattere permanente e indiscusso del regime fascista. Una tale considerazione aveva inevitabilmente condizionato l’interpretazione dell’antifascismo, riducendo anch’essa all’azione diretta di uomini fortemente politicizzati (comunisti, anarchici, socialisti, ex sindacalisti, liberali, popolari), sui quali il fascismo aveva imposto il suo controllo e la sua violenta repressione. Ma numerosi studi confermavano una geografia sociale dell’opposizione al regime (se non di antifascismo palese) che aveva nella classe popolare un’ampia base. Parisella, dunque, invitava gli storici a comprendere il nesso fra opposizione popolare al fascismo e resistenza civile all’occupazione nazifascista, liberandosi da condizionamenti ideologici. Un filone storiografico dunque che richiedeva di cercare prima di tutto nuove fonti, nelle memorie private, come negli archivi familiari o nelle fonti a stampa locali.
Il cinquantesimo anniversario della Resistenza aprì quindi scenari storiografici inediti, che richiedevano una ridiscussione sulla tipologia di fonti utilizzabili e sulla metodologia di ricerca. In conclusione quella «fine secolo» segnò una rivoluzione: da un lato per la prima volta si palesò chiaramente la necessità di ridefinire le accezioni e le relazioni fra storiografia e memoria pubblica, dall'altra fu evidente il bisogno di lasciar spazio a fonti fino a quel momento ritenute autorefereinziali o ancillari, ora invece indispensabili per lasciar emergere nuovi contributi alla storiografia resistenziale.

 

Oltre la svolta. I recenti campi d’indagine e le nuove fonti

Si apriva, dunque, venti anni fa una nuova stagione per la storiografia resistenziale romana, che imponeva la ricerca di nuovi campi d'indagine e, conseguentemente, nuove fonti. Come si è voluto brevemente analizzare, a partire dagli anni Novanta, sono andati emergendo soggetti e temi relativi alla Resistenza romana fino ad allora quasi del tutto ignorati. L'attenzione alla popolazione civile e alle fonti documentarie e della memoria prodotte in ambito familiare o comunque in comunità o gruppi politici minori, ha avviato una rilettura di buona parte della lotta contro il nazifascismo condotta nei nove mesi di occupazione.
Già nel 1987 Nicola Gallerano aveva dipinto con un’immagine affettuosa e ironica i giovani studiosi, figli di quella svolta culturale che portò l’attenzione sulle fonti private e sulla resistenza civile. Invitandoli ad oltrepassare una storia concentrata sul processo politico per guardare ai vari atteggiamenti con i quali la società aveva vissuto la guerra, affermò che i neofiti si addormentano storici politici e si risvegliano storici sociali. Per coloro che, da quel momento, si sono occupati della storia della Resistenza romana una simile definizione appare più che mai attuale e veritiera. Dopotutto essi hanno accolto la sfida di Enzo Forcella, Nicola Gallerano, Claudio Pavone a guardare ai percorsi individuali e alle scelte personali, consumati nei nove mesi di occupazione nazifascista. Come ha affermato Francesco Piva nell’introduzione ai lavori presentati nel convegno organizzato dall’Irsifar nel 2005, le ricerche via via emerse nel corso del decennio precedente sono state accomunate «dal tentativo di inquadrare la storia della Resistenza romana nel più vasto contesto dell’“esistenza collettiva” della capitale durante i nove mesi dell’occupazione nazifascista» (Nota 15). Un tentativo che coglieva gli spunti e gli inviti promossi nel 1995 a cambiare oggetti di indagine e strumenti di ricerca, per approfondire «i sentimenti collettivi» e le «strategie di sopravvivenza» della città. L’occhio degli storici si è spostato, dunque, sulla resistenza civile, intesa in un’accezione molto più ampia di quella individuata nel 1993, ovvero resistenza popolare, nella quale sono andati a confluire differenti categorie resistenziali: bande partigiane autonome, Gap periferici, donne, studenti, insegnanti, artisti, comunità di quartiere. Si pensi ai molti volumi pubblicati nel corso di questo ultimo decennio sui quartieri della periferia e sulle borgate cresciuti durante il fascismo, protagonisti della resistenza romana, soprattutto di matrice comunista, socialista e anarchica (Nota 16). Ad essi si affiancano le molte pubblicazioni che raccolgono ricerche di storia orale, memorie e diari, consentendo così la circolazione fra gli studiosi di fonti fino a questo momento rimaste custodite negli archivi di famiglia o di istituti e associazioni culturali (Nota 17).
Sono tutti elementi che connotano una piccola ma significativa rivoluzione storiografica per l’area romana, che ha preso avvio dalla messa in discussione di una storiografia resistenziale nazionale che aveva condizionato sfavorevolmente gli studi sulla lotta di liberazione a Roma, troppo spesso affidando la descrizione della capitale all’immagine di una città in attesa: una città che aveva vissuto i nove mesi di occupazione in sospensione, guardando all’arrivo degli Alleati e che non aveva mai trovato lo stimolo per dare vita apertamente ad una lotta armata al nazifascismo. Per compiere tale rivoluzione storiografica è stato necessario recuperare, come ha ricordato Lidia Piccioni, quella felice definizione di Roma che Enzo Forcella aveva dato, invitando a considerarla: «un agglomerato di quartieri, un arcipelago di isole; completamente isolati e reciprocamente inconsapevoli ma anche, per chi ne conosceva la chiave d’accesso, collegati da una fitta rete di invisibili e misteriosi fili» (Nota 18).
Seguendo questa definizione il convegno del 2005 svelava quindi una fioritura di studi sulla lotta di liberazione a Roma che procedeva non più con approcci unitari e totalizzanti su singoli movimenti politici, istituzioni religiose o laiche e personaggi di forte spessore politico e carismatico, ma piuttosto operava per «“carotaggi” campione che certo non esauriscono l’analisi di una città fatta, appunto, di molte realtà differenti, a cominciare da una divisione profonda tra centro e periferia, due dimensioni distanti non solo fisicamente ed egualmente complesse» (Nota 19). Da questa operazione è emerso un panorama di indagini molto più ampio e sfaccettato di quanto la storiografia resistenziale tradizionale avesse individuato fino a questo momento.
Si pensi alla sempre più marcata fisionomia dicotomica della città, spaccata fra centro e periferia: il primo, “immune” dai bombardamenti, ma rigidamente controllato da nazisti e fascisti, il cui tessuto urbano diviene un reticolo di relazioni istituzionali e diplomatiche, sul quale si snodano, senza soluzione di continuità, i luoghi visibili del terrore nazista e quelli clandestini delle riunioni dei partiti antifascisti, gli spazi della repressione e del controllo di polizia e quelli degli scambi con gli Alleati; il secondo, la periferia nella quale la città si frantuma, solo apparentemente, in tante isole, ma che resta in qualche modo coesa; nel cui reticolato di strade i confini fra quartieri si sfaldano e la lotta partigiana perde la sua caratteristica monolitica frammentandosi in bande, gruppi, azioni isolate e fulminee, insurrezioni collettive, diventando un terreno incontrollabile per i nazifascisti e di difficile interpretazione da parte degli Alleati. Riletture della città che aprono sempre nuove strade.
Si pensi al rinnovato interesse per il ruolo delle donne e le azioni di sabotaggio e di renitenza ai comandi tedeschi che esse hanno svolto; si guardi ai piccoli gruppi studenteschi che hanno sostenuto l’attività di volantinaggio e di circolazione delle informazioni fra organizzazioni partigiane e Alleati; si pensi alle azioni di sabotaggio dei ferrovieri delle stazioni romane (sulle quali insistevano i bombardamenti angloamericani), alle attività di stampa clandestina dei tipografi, al sostegno materiale e pratico dei fabbri ai Gap di periferia per la costruzione dei chiodi a tre punte e la riparazione delle armi, all’impegno di medici e infermiere nel soccorso alla popolazione ferita dai bombardamenti. Un lungo elenco di protagonisti di quella che la storiografia oggi racchiude solo parzialmente (e non senza difficoltà) nella categoria di resistenza civile, che nelle vicende romane rivoluziona l’immagine tradizionale della lotta per la liberazione e spinge a percorrere nuove strade di ricerca.
Sono dunque temi che lasciano spazio a nuovi protagonisti (per lo più riconducibili all'ampia categoria della reistenza civile), la cui emersione è resa possibile dalla “scoperta” (ma in alcuni casi sarebbe più corretto parlare della “rilettura”) di fonti della memoria o archivistiche. Dopotutto il territorio si mostra particolarmente generoso per coloro che lo “provocano”. In questi ultimi anni, da esso sono emerse fonti archivistiche e della memoria del tutto inedite: registri scolastici, cronache parrocchiali, archivi di piccole industrie, raccolte iconografiche familiari, diari e testimonianze private. In conclusione, mi pare particolarmente valida la definizione che ha dato Lidia Piccioni a questa nuova lettura della Resistenza romana e del ruolo della popolazione civile, come un processo che si sviluppa «per laboratori da cui ripartire», cogliendo l’opportunità che questa prospettiva di ricerca offre alla storiografia come alla didattica della storia, consentendo «una più interna comprensione del “mestiere” dello storico e delle sue metodologie» (Nota 20).

 

NOTE:

Nota 1 N. Gallerano, La Resistenza tra Storia e memoria, Mursia, Roma 1999, p. 7; Id. (a cura di) L’uso pubblico della storia, FrancoAngeli, Milano 1995. In particolare vanno ricordate le molte riflessioni di Anna Rossi Doria sul tema della memoria ebraica e l’uso nella ricostruzione e trasmissione della Shoah. Per un quadro esemplificativo delle sue posizioni cfr. Uguaglianze/Differenze. Riflessioni per Anna Rossi-Doria, in «L’Annale Irsifar» (2013). Torna al testo

Nota 2 A titolo d’esempio, si indicano alcuni dei testi più significativi, pubblicati in quegli anni, per l’avvio del dibattito: J. R. Gillis, Introduction. Memory and Identity: the History of a Relationship, in J. R. Gillis, Commemorations. The Politics of National Identity, Princeton University Press, Princeton, New Jersey 1994; P. Jedlowski, M. Rampazi (a cura di), Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, Franco Angeli, Milano 1991; Leonardo Paggi, Le memorie della Repubblica, Firenze, La Nuova Italia 1999, citati in A. Rossi Doria, Una storia di memorie divise e di possibili lutti, in Studi e ricerche, in «L’Annale Irsifar» (1999). Torna al testo

Nota 3 Anche l'Irsifar, costituito nel 1964, annovera fra le prime ricerche delle raccolte di interviste e memorie di partigiani, aderenti al Partito d'Azione. Torna al testo

Nota 4 C. Bermani, Introduzione alla storia orale, Odradek, Roma 2003; A. Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Roma 2007. Più recentemente è stato pubblicato sull'uso delle fonti orali nella storiografia il volume di B. Bonomo, Voci della memoria. L'uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci, Roma 2013. Torna al testo

Nota 5 P. Burke, Venezia e Amsterdam. Una storia comparata delle élite del XVII secolo, Transeuropa, Bologna, 1988. Prima edizione in inglese 1974, p. 21. Torna al testo

Nota 6 Nello specifico sul tema della memoria si veda anche: G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; G. Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Laterza, Roma-Bari 1999; L. Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, La Nuova Italia, Firenze 1997. Torna al testo

Nota 7 Va ricordato che la storiografia resistenziale romana giunge in ritardo rispetto al contesto nazionale. Le due ricerche che, si potrebbe dire, risultano centrali nel filone della storiografia della Resistenza romana, sono state pubblicate solo alla metà degli anni Sessanta.  Ci si riferisce al volume di L. D'Agostini, R. Forti, Il sole è sorto a Roma, Anpi, Roma 1964, edito dall'Associazione nazionale partigiani d'Italia, che utilizza principalmente fonti redatte dalle relazioni presentate da membri dei Gap romani, richiedenti il riconoscimento. Il secondo volume E. Piscitelli, Storia della Resistenza romana, Laterza Roma-Bari, 1965, presenta invece un'analisi storiografica condotta su differenti tipologie di fonti archivistiche e della memoria.  Torna al testo

Nota 8 A. Bravo, Alcune riflessioni sulla resistenza civile, in N. Gallerano, La Resistenza tra Storia e memoria, cit., p. 385.  Torna al testo

Nota 9 In proposito si veda: A. Parisella, La lotta non armata nella resistenza. Riflessioni un anno dopo, in G. Giannini (a cura di), La resistenza non armata, in «Quaderno» del Centro studi difesa civile, 2 (1995). Inoltre G. Sharp, Politica dell’azione non violenta, Gruppo Abele edizioni, Torino 1985-1986; A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senz’armi. Storie di donne, 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995.  Torna al testo

Nota 10 Vanno certamente ricordati i pionieristici lavori di Nuto Revelli e via via quelli di Cesare Bermani, Alessandro Portelli, Anna Bravo, Gabriella Gribaudi, Giovanni Contini. Per un quadro bibliografico di riferimento si rimanda a B. Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci, Roma 2013, pp. 122-134.  Torna al testo

Nota 11 Sul concetto di guerra totale e coinvolgimento dei civili si vedano: M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro, Toscana. 1944, Marsilio, Venezia 1997; G. Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Bollati Boringhieri, Torino 2005; J. Winter, E. Sivan, War and Remembrance in the Twentieth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1999.  Torna al testo

Nota 12 A. Bravo, Alcune riflessioni sulla resistenza civile, cit., p. 388.  Torna al testo

Nota 13 Ivi, p. 387.  Torna al testo

Nota 14 A. Parisella, Opposizione popolare e opposizione politica. Antagonismi non conflittuali e conflitti non antagonistici, in G. Giannini, L’opposizione popolare al fascismo. Atti del Convegno del 27-28 ottobre 1995, «Quaderno n° 3», Centro Studi Difesa Civile, Edizioni Quale Vita, Torre dei Nolfi 1996, pp. 13-28.  Torna al testo

Nota 15 F. Piva, Presentazione, in Roma durante l’occupazione nazifascista. Percorsi di ricerca, Franco Angeli, Milano 2006, p. 7.  Torna al testo

Nota 16 Si vedano, a titolo d'esempio, i volumi su singoli quartieri della periferia romana, nei quali alle tradizionali fonti documentarie si sono affiancate quelle della memoria e della stampa locale: E. Camarda, Pietralata. Da borgata a isola di periferia, Franco Angeli, Milano 2007; S. Ficacci, Tor Pignattara. Fascismo e Resistenza di un quartiere romano, Franco Angeli, Milano 2007; A. Portelli, B. Bonomo, A. Sotgia, U. Viccaro, Centocelle. Città di parole, Donzelli, Roma 2007; A. Portelli (a cura di), Il borgo e la borgata. I ragazzi di Don Bosco e l’altra Roma del dopoguerra, Donzelli, Roma 2002; U. Viccaro, Borgata Gordiani. Dal fascismo agli anni del boom, Franco Angeli, Milano 2007. Inoltre in questi ultimi anni sono stati pubblicati numerosi diari e memorie redatti da semplici cittadini o rappresentanti di categorie professionali. Per un panorama il più possibile esaustivo della diaristica si rimanda al pregevole lavoro di raccolta e conservazione condotto dall’Archivio Diaristico di Pieve di Santo Stefano, che conserva una proficua sezione romana. A titolo d’esempio si vedano: Carla Capponi, Con cuore di donna: il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, Il Saggiatore, Milano 2000; Corrado Di Pompeo, Più della fame e più dei bombardamenti: diario dell'occupazione di Roma, il Mulino, Bologna 2009; Suor Therese Marguerite, Sperare contro ogni speranza, a cura di S. Ficacci, in «Annale Irsifar 2006» (2007); L. Raganella, Senza sapere da che parte stanno. Ricordi d'infanzia e “diario” di Roma in guerra 1943-1944, a cura di L. Piccioni, Bulzoni, Roma 2000.  Torna al testo

Nota 17 Va ricordato il decennale lavoro di raccolta e conservazione di fonti orali condotto dal Circolo Gianni Bosio di Roma e organizzato nell'Archivio Sonoro Franco Coggiola. Si segnala anche il lavoro di conservazione condotto dall'Archvio Audiovisivo del Movimento Operaio.  Torna al testo

Nota 18 Enzo Forcella, La resistenza in convento, Einaudi, Torino 1999, p. 45; L. Piccioni, Introduzione, in Roma durante l’occupazione nazifascista, cit., p. 12.  Torna al testo

Nota 19 Ivi, pp. 12-13.  Torna al testo

Nota 20 L. Piccioni, Introduzione, cit., p. 13. Torna al testo

 

 

Questo contributo si cita S. Ficacci, Rileggere la Resistenza romana. Nuovi strumenti metodologici e di analisi del ruolo e del contributo della popolazione civile, in «Percorsi Storici», 2 (2014)

 

 

 

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