Debora Migliucci, Rappresentare il lavoro. Donne e Camera del lavoro a Milano (1945-1963)

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Debora Migliucci

Rappresentare il lavoro. Donne e Camera del lavoro a Milano (1945-1963)

 

L’indagine sull’azione delle donne nel sindacato ha beneficiato negli ultimi anni di alcuni importanti lavori di ricerca che hanno ricostruito l’operato femminile a livello confederale nazionale e in alcuni contesti locali. Si è trattato spesso di studi promossi dalle stesse centrali sindacali in occasione di anniversari e celebrazioni e a cui va riconosciuto il merito di aver contribuito a decostruire stereotipi e luoghi comuni e a scalfire il silenzio attorno all’attivismo e alla militanza femminile (Nota 1).
La storia delle sindacaliste milanesi, tuttavia, soffre ancora di un vulnus storiografico rilevante, se si considera l’importanza del contesto industriale ed economico in cui esse operarono, e dovuto solo in parte alla carenza di fonti specifiche e di repertori diversificati per sesso. La sporadicità della documentazione colpisce in particolare l’operato delle cattoliche e delle socialiste (Nota 2). La vita e l’attività delle militanti di area comunista è analizzabile, invece, attraverso una documentazione cartacea e orale più frequente, che incrocia la militanza sindacale e quella politica, e che è rintracciabile in diversi luoghi di conservazione della memoria: gli archivi del sindacato, in primis, gli istituti per la storia della Resistenza e, infine, le istituzioni che preservano la documentazione del Partito comunista italiano (Nota 3).
Nondimeno, sull’attività sindacale delle donne, anche di quelle più note, si è indagato raramente e non in modo organico, e sicuramente si è scritto meno rispetto all’operato dei colleghi maschi. Le motivazioni traggono fondamento da diversi aspetti: il ruolo non sempre di primo piano e spesso discontinuo che le donne hanno rivestito nell’organizzazione; il minore impegno profuso dalle sindacaliste nel lasciare sistematicamente traccia e memoria della propria attività. Più spesso, infine, hanno influito la mancanza di riconoscimento di un ruolo politico adeguato al profilo e alla competenze delle donne e il conseguente minor investimento nel ricordarne l’operato e ricostruirne l’attività, come parte di un gruppo dirigente.
È indubbio che la stratificazione della memoria o, al contrario, la sua assenza costituiscano già una traccia delle condizioni culturali e organizzative in cui le sindacaliste agivano nell’immediato dopoguerra.
Per i motivi fin qui enunciati, le vicende descritte in questo saggio, non possono che ripercorrere solo alcuni dei profili biografici e dei temi sviluppati dalle sindacaliste milanesi nel ventennio successivo alla guerra, con la speranza di contribuire ad aprire nuove prospettive di ricerca per gli anni a venire.

 

Sindacaliste milanesi: dalla Resistenza alla Camera del lavoro

La città culla dell’emancipazionismo italiano ha rappresentato anche nell’immediato dopoguerra un punto di osservazione originale nel panorama della storia del lavoro nel suo insieme, e di quella sindacale, nello specifico. Le donne milanesi erano stabilmente inserite nel mercato occupazionale dalla fine dell’Ottocento: rappresentavano la metà della manodopera in agricoltura, avevano raggiunto la maggioranza in industrie simbolo come la Pirelli e la Borletti, erano largamente prevalenti nel lavoro a domicilio. Negli anni qui considerati – quelli del cosiddetto “miracolo economico” – trovavano, inoltre, bacino fertile nel pubblico impiego e nella scuola, dove si moltiplicavano le richieste di segretarie, dattilografe e insegnanti (Nota 4).
Alla fine della guerra la presenza femminile era molto elevata nell’industria metalmeccanica sia nel settore della radiotelefonia – alla Safar, alla Geloso, alla Magneti Marelli, alla Philips, alla Siemens, alla Face Standard – sia nella meccanica di precisione – alla Borletti, alla Singer, alla Bianchi, alla Breda III – sia in quella pesante – alla Isotta Fraschini, alle Trafilerie, alla Osva, alla Motomeccanica, alla Vanzetti. Non vi è quindi di che stupirsi, se proprio dalle metalmeccaniche, forti di una sindacalizzazione che nel 1947 contava 20.584 tesserate su un totale di 37.000 operaie del settore, provenivano molte delle richieste di uguali diritti (Nota 5). Altro distretto in fermento – ma meno studiato – era senz’altro quello dell’agricoltura, che assorbiva lavoro femminile in prevalenza stagionale, come nel noto caso delle mondine.
Il desiderio di cittadinanza femminile, a pochi mesi dall’allargamento del suffragio, veniva infatti alimentato dall’attivismo sindacale e forniva alle donne una scelta di campo ideale e politica, sovente espressa tramite la doppia militanza nella Cgil (Confederazione generale del lavoro) e nei partiti di riferimento: Pci (Partito comunista italiano), Psi (Partito socialista italiano), Dc (Democrazia cristiana).
Molte delle appartenenti alla prima generazione del dopoguerra (nate negli anni Dieci e Venti del Novecento) provenivano direttamente dalle file della Resistenza: erano state staffette partigiane, gappiste, animatrici dei Gruppi di difesa della donna, dattilografe al servizio del Comitato di liberazione Alta Italia, e, nei casi più noti, come quello di Teresa Noce o di Nella Marcellino, fuoriuscite in Francia nel periodo clandestino. Esse, quindi, erano attive ben prima della ricostituzione del sindacato libero e possedevano un profilo spiccatamente politico.
Alcune di loro, troppo spesso dimenticate nelle ricostruzioni storiche e poco valorizzate all’interno dello stesso sindacato, erano state perseguitate, schedate e arrestate per attività sovversiva durante il fascismo: così era stato, ad esempio, per Ida Rovelli, nome di battaglia Laura, militante comunista, partigiana e sindacalista. La Rovelli aveva conosciuto il carcere, militato nei Gap ed era stata staffetta partigiana tra Milano e la Valtellina (Nota 6).Nel dopoguerra venne eletta nella commissione interna della Innocenti e a seguito del licenziamento per rappresaglia antisindacale cominciò la sua collaborazione alla Fiom-Cgil (Federazione impiegati operai metallurgici). Rimase sempre inquadrata come “apparato tecnico” fino alla pensione, senza accedere mai alla più prestigiosa qualifica di “apparato politico”. Piera Antoniazzi, staffetta partigiana con lo pseudonimo di Italia, fu una delle organizzatrici degli scioperi del 1943 e del 1944 alla Borletti, si iscrisse alla Cgil nel 1945, ma non ebbe mai incarichi politici. Pina Zanaboni era stata attiva come antifascista alla Pirelli fin dal 1937; nel secondo dopoguerra condusse un’incessante opera a sostegno dei diritti delle donne nelle campagne ricoprendo il ruolo di segretaria e di responsabile femminile per la Federbraccianti milanese (Nota 7).
Sovente, le sindacaliste condividevano la passione politica col marito; è il caso di Onorina Brambilla, conosciuta come la Nori, partigiana, responsabile della commissione femminile della Fiom negli anni Cinquanta e moglie del gappista Giovanni Pesce; e della staffetta Stella Vecchio – detta Stellinaper distinguerla dalla più nota Estella (Teresa Noce) – prima donna ad entrare nella Segreteria camerale in qualità di “vicesegretario”, sposata con il comandante partigiano Alessandro Vaja.
L’attivismo politico era in altri casi, un’eredità di famiglia, come per Giuseppina Re, soprannominata da tutti la Pinarè, tra le prime responsabili femminili della Camera del lavoro di Milano, di tradizione antifascista e figlia di un ferroviere perseguitato durante il ventennio. La stessa sorte era toccata a Maria Pia Lucini, che a sei anni girava in bicicletta per diffondere la stampa clandestina nelle scuderie vicino all’ippodromo e nel 1966 fu la prima donna ad essere eletta nella commissione interna dell’Alfa Romeo (Nota 8).
Non per tutte, però, la militanza era stata una scelta di continuità con l’ambiente familiare o con l’estrazione sociale. Per Franca Maniacco, militante del sindacato dei vetrai e dei ceramisti fin dall’aprile 1945 e componente della commissione femminile della Camera del lavoro, l’adesione alla Cgil era stata dolorosa e pagata personalmente per via della rottura dei rapporti con la famiglia di origine. Adele Del Ponte, partigiana e di famiglia socialista, aveva scelto la militanza nella Fiom-Cgil dimettendosi da un lavoro sicuro e ben pagato, ma non corrispondente alla spinta ideale di cambiare il mondo. Anche Jone Bagnoli, di estrazione borghese, aveva abbandonato il “posto fisso” per seguire la fede politica impegnandosi prima nel Pci e poi nella Cgil e diventando negli anni Cinquanta una dirigente del sindacato dell’industria alimentare, prima, e dei metalmeccanici, in seguito.
Stella Zuccolotto, infine, pagò con la vita la propria militanza: fu uccisa in un attentato di matrice fascista nell’aprile 1946 in Camera del lavoro, mentre partecipava a una riunione sindacale della lega dei portieri. A ricordarla per diversi anni è stata una lapide sbagliata affissa sul piazzale della Camera del lavoro che ne faceva risalire la morte alla lotta di Liberazione e non, come invece avvenne, al suo impegno sindacale.
Accanto a queste figure, caratterizzate da un marcato profilo politico – benché non sempre adeguatamente riconosciuto – vi erano donne reclutate per funzioni amministrative. La selezione avveniva per lo più nelle sezioni del Pci o attraverso parenti e conoscenti, appartenenti allo schieramento antifascista. Fu, questo, il caso di Maria Luisa Magni, impiegata presso la Fiom dal 1948 e segnalata da un “compagno” della sezione del Pci di via Padova; di Luigia Vertemara giunta al sindacato di Sesto San Giovanni grazie alla suocera, componente della commissione interna della Breda; e di Vittorina Rebosio assunta dal sindacato metalmeccanici su segnalazione della Commissione interna della Isotta Fraschini (Nota 9).
Elide Pacini, che per trent’anni sarebbe stata il braccio destro dei segretari generali della Camera del lavoro di Milano, ricordava il suo arrivo al sindacato come il coronamento di un sogno:

Lavoravo finalmente per un grande obiettivo: realizzare il socialismo, cambiare la società e il mattino del 13 febbraio 1949 salivo le scale di quel vecchio palazzo che era la Camera del Lavoro. Entrare in quel palazzo voleva dire metalmeccanici, sartine, tessili, braccianti insomma tutto il mondo del lavoro (Nota 10).

Vi erano, infine, le militanti di base, che avviarono e dispiegarono la loro attività nei luoghi di lavoro come componenti degli organismi di fabbrica. Tra queste, e solo per citarne alcune, Angela Crespi, nella commissione interna e nel consiglio di fabbrica della Borletti; Barbara Bertolotti, nella commissione interna della Face Standard, Maria Manfredini, nella commissione interna della Magneti Marelli.

 

Apparato tecnico e apparato politico: il nodo del potere

A dispetto di una buona presenza femminile tra le militanti sindacali, nel primo decennio del dopoguerra erano poche le capo lega o le donne con ruoli di responsabilità. Il lavoro “del” sindacalista era difficilmente conciliabile con l'equilibrio tra vita lavorativa e familiare, e si riscontravano forti resistenze tanto di tipo organizzativo che culturale: gli orari delle riunioni erano concentrati alla sera dopo il lavoro, la militanza veniva vissuta come assoluta dedizione alla causa, l’impegno era costante pure nei fine settimana. Il ruolo delle donne nel sindacato ricalcava per certi versi quello che a loro era attribuito nella società. Molte sindacaliste si ritiravano dall’attivismo dopo avere avuto figli, solo le più tenaci e inserite nel tessuto politico interrompevano qualche anno per poi riprendere l’attività. Pesava molto sui loro destini la percezione delle donne come poco inclini ad assumere incarichi di responsabilità e politici, percezione che di fatto le escludeva in prima battuta dalla selezione per gli organismi dirigenti e difficilmente le metteva in condizione di crescere professionalmente e di venire valorizzate come leader sindacali.
Le “signorine del sindacato”, per usare un’espressione evocativa usata da Aldo Carera (Nota 11), erano per lo più inquadrate quali impiegate. A loro era affidata la gestione amministrativa, che consisteva nella raccolta dei contributi per le tessere, nella consegna dei bollini, nel lavoro di segretarie e telefoniste, nelle convocazioni di riunioni e nella gestione logistica delle sedi. Le donne erano il cosiddetto “apparato tecnico”, gerarchicamente separato e sottoposto a quello “politico”, prevalentemente maschile, ma certo non meno utile e attivo, e spesso maggiormente qualificato. A segnare la distinzione e il confine tra funzionari politici e impiegate tecniche contribuiva anche l’abbigliamento, dal momento che le impiegate della Camera del lavoro di Milano erano tenute, fino agli anni Settanta, a indossare un grembiule.
Nonostante l’inquadramento, le donne dell’apparato tecnico avevano in realtà un profilo molto politico, sia per la totale adesione alla linea sindacale sia per l’esperienza maturata all’interno di un partito sia, infine, per il tempo di vita dedicato al sindacato. La maggior parte di esse affiancava costantemente i compiti tecnici con il lavoro militante. A questo proposito Elide Pacini, all’epoca inquadrata come addetta alle pratiche dell’Istituto nazionale confederale di assistenza (Inca-Cgil), partecipava al reclutamento dei braccianti: «era il mese di maggio 1949, si partiva al mattino col pullman, ognuno coi panini portati da casa, e si andava nelle cascine per parlare coi braccianti perché si stava preparando una grande lotta per conquistare il contratto di lavoro che non avevano» (Nota 12).
Analogamente Luigia Vertemara, che sin dagli anni Quaranta si occupava dell’amministrazione per i metalmeccanici di Sesto San Giovanni, la domenica andava in risaia a sindacalizzare le mondine. Maria Luisa Larelli oltre a battere a macchina, ciclostilare e raccogliere le adesioni per la Fiom, teneva le assemblee nelle fabbriche a maggioranza femminile sui contratti di lavoro, sulla proposta di legge sulla maternità e sulla parità salariale tra uomini e donne (Nota 13). Liliana Gatti entrata a far parte dell’apparato tecnico della Fiom di Milano all’età di 14 anni, era una presenza costante davanti alle fabbriche milanesi e un punto di riferimento per molti metalmeccanici. Fu emblematicamente promossa ad “apparato politico” dopo trent’anni di incessante attività e ricevette una medaglia di riconoscimento per il lavoro svolto (Nota 14). Lei stessa in un’intervista chiariva la natura della sua militanza:

Non ho mai concepito il lavoro della Fiom come semplice lavoro: fare parte della Fiom non è solo scrivere a macchina, archiviare o altro. Anche se battere un volantino, impostarlo in un certo modo, aiutare i compagni che hanno bisogno è comunque fare sindacato, quando non ero impegnata in altro ho sempre fatto attività di proselitismo (Nota 15).

La divisione tra apparato tecnico e politico riguardava la questione fondamentale del potere: sanciva il riconoscimento sociale e non lo spessore e l’intensità della militanza e dell’impegno. La partecipazione politica era, in effetti, totalizzante anche tra coloro che non avrebbero mai ottenuto lo status di “apparato politico”, rimanendo relegate nel ruolo fondamentale, ma meno prestigioso, di impiegate o di segretarie tecniche. Tuttavia non erano esenti da tentativi di subordinazione neppure le donne che assurgevano a ruolo politico, se – come ricordava Nella Marcellino –:

gran parte [dei sindacati di categoria] erano diretti solo da uomini che consideravano le donne della loro Segreteria un po’ l'appendice delle segretarie e non come delle vere dirigenti. Questo [era] dovuto all'atteggiamento ancora degli uomini nei confronti delle donne, ma [era] dovuto anche alle donne, le quali qualche volta si accontentavano di un ruolo secondario senza esigere un ruolo di primo piano, un ruolo più pregnante nell'organizzazione (Nota 16).

Di fatto le sindacaliste lavoravano per due, ma non avevano uguale riconoscimento e potere. Il loro percorso era certamente meno lineare e progressivo rispetto quello compiuto dai sindacalisti uomini; a volte interrotto per motivazioni personali, altre volte penalizzato dallo scarso interesse dei dirigenti sindacali nel trattenerle.
Le più attive politicamente lasciarono l’impegno sindacale per dedicarsi a tempo pieno all’attività nel partito e nelle istituzioni, solo le dirigenti più in vista mantennero il doppio incarico. Pina Re ricoprì il ruolo di parlamentare per tre legislature e fu poi tra le fondatrici del Sindacato unitario nazionale inquilini ed assegnatari (Sunia) legato alla Cgil; Stella Vecchio portò avanti per tutta la vita la militanza nel Pci e in numerose associazioni legate al mondo comunista; Nori Pesce conclusa l’attività sindacale, non abbandonò mai l’impegno politico e l’attività nelle associazioni partigiane e antifasciste.
Dopo la prima fase di reclutamento di donne nel sindacato (1945-1955), si registrò alla fine degli anni Cinquanta un calo di rappresentanza femminile, per via delle difficoltà economiche che portarono alla riduzione dell’apparato e le sindacaliste furono le prime a farne le spese (Nota 17).

 

Rappresentare “solo” le donne: le commissioni femminili

Inserite nell’organizzazione sindacale come “altro” rispetto agli uomini, le sindacaliste svilupparono subito istanze particolari facendosi sostenitrici di proposte specificatamente femminili, che spesso non incontravano l’interesse o l’adeguato sostegno tra gli uomini. I luoghi dove era confinata la “questione femminile” erano le commissioni femminili (o commissioni femminili sindacali), strutture separate confederali e di categoria, diffuse su tutto il territorio nazionale. Il loro compito era di analizzare la condizione delle lavoratrici ed elaborare proposte politiche conseguenti. Questa scelta evidenziò fin da subito la chiara convinzione che i problemi delle lavoratrici fossero una questione solamente femminile che non riguardava l'intero corpus dei lavoratori. Proprio per questo le commissioni furono oggetto di una querelle tra comuniste e cattoliche: le prime ritenevano le commissioni femminili un mezzo di promozione della militanza femminile e un sostegno alle loro rivendicazioni; le seconde le consideravano, al contrario, un recinto che impediva l'inserimento delle donne allo stesso livello gli uomini (Nota 18). Le comuniste erano, quindi, più inclini ad accettare una separatezza, che era peraltro speculare all’organizzazione interna al Pci.
Nonostante le implicazioni filosofiche, la commissione femminile della Camera del lavoro di Milano si rivelò una fucina di quadri femminili e le sue responsabili accedevano di diritto agli organismi esecutivi. Fino alla scissione del 1948, erano rappresentate le tre aree politiche e Pina Re, Vera Ciceri e Maria Azzali furono le prime donne ad assumere l’incarico politico. Gran parte dell’attività svolta dalla commissione femminile consisteva in azioni di proselitismo, che raggiungevano un picco massimo in occasione dell’annuale “mese del reclutamento femminile”, e nella pubblicazione di bollettini dedicati alle lavoratrici.
Molte attiviste lamentavano, tuttavia, che la creazione di strutture separate aveva sollevato i sindacalisti maschi dalla responsabilità di rappresentare uomini e donne. Così si esprimeva in proposito Carla Acquistapace:

Non capivo la necessità di andare a studiare delle cose particolari, anche se capivo che per le donne bisognava rendersi conto anche della loro doppia vita, della vita di lavoro e della vita di casalinga [...] comunque non ritenevo che si dovesse fare un lavoro organizzativo sempre separato. Anzi io ritenevo che questo portasse meno interesse negli uomini e più assenteismo nelle donne (Nota 19).

La prima battaglia delle donne del sindacato fu, quindi, quella condotta per “l’esistenza”, per essere rappresentative e rappresentate, per avere ruoli di responsabilità, che permettessero di inserire le esigenze femminili nella politica sindacale. Non a caso, Stella Vecchio, chiamava all’impegno le lavoratrici, con queste parole:

Gli ostacoli ci sono ma dobbiamo superarli. Dobbiamo essere attive nel sindacato, entrare nella C.I. [commissione interna], nei direttivi di lega e di categoria, dobbiamo avere il coraggio di sottrarre qualche ora alle faccende di casa, se è necessario, perché i padroni non ci sottraggano quello che ci è dovuto, non ci rubino ogni giorno un po’ di salute e di vita, perché non possano toglierci domani la libertà e la pace (Nota 20).

A Milano non si viveva quel clima di disillusione e ripiegamento che da studi recenti si registra, invece, a livello nazionale nell’immediato dopoguerra (Nota 21); la presenza femminile nei luoghi di lavoro conobbe una flessione per via dei licenziamenti, ma rimase comunque ragguardevole e la commissione femminile svolse un ruolo politico e sindacale continuo. Al congresso del 1953 le lavoratrici milanesi impegnarono la Camera del lavoro a bloccare i licenziamenti ai danni delle donne, a contrattare retribuzioni maggiori, a chiedere asili aziendali e interaziendali, colonie estive per i figli e infine a rivendicare miglioramenti nelle tariffe del cottimo (Nota 22).
La forza delle sindacaliste era l'organizzazione capillare e il coinvolgimento di un numero ragguardevole di lavoratrici e di lavoratori attraverso l’opera incessante di informazione e propaganda svolta nelle commissioni interne, negli attivi dei delegati e nelle assemblee. Le commissioni femminili organizzavano momenti di incontro tarati sull’esigenze delle donne: riunioni in risaia per le mondine, delegazioni che dalla campagna si recavano nelle fabbriche per alimentare la solidarietà tra i lavoratori, riunioni di caseggiato, consultazioni nell'ora della mensa; tutto per dare l'opportunità alle lavoratrici di partecipare senza togliere tempo agli impegni familiari. L’azione di proselitismo e informazione venne svolto anche tra le impiegate attraverso un’attività specifica e ramificata che prevedeva l’organizzazione delle “Mattinate dell’impiegata milanese” e la pubblicazione sul «Giornale degli impiegati» di una pagina dedicata alla valorizzazione delle conquiste sulla parità (Nota 23).
Proprio dalle assemblee mattutine tra le impiegate nacque una delle battaglie simbolo degli anni Cinquanta e Sessanta, quella contro i licenziamenti per matrimonio (Nota 24).

 

La conquista della parità e della dignità

La manodopera femminile era apprezzata dai datori di lavoro, perché meno costosa: le lavoratrici dell’industria erano escluse per legge dalle mansioni specializzate, che erano anche le meglio retribuite e più prestigiose, e una rigida gerarchia tra i sessi disponeva che le donne guadagnassero meno dei colleghi maschi; in agricoltura, poi, le salariate assolvevano parte degli obblighi di compartecipazione – quindi non monetizzati – verso il proprietario terriero.
Al termine del secondo conflitto mondiale i problemi più sensibili da risolvere riguardavano pertanto: la parità di salario e di inquadramento con gli uomini, l'accesso alla qualifica di “capo famiglia” per le mamme single o con genitori a carico, la difesa del posto di lavoro, la tutela della maternità e il diritto a non essere licenziate in caso di matrimonio.
I diritti delle lavoratrici erano entrati a far parte degli obiettivi della Cgil già nel primo congresso dell'Italia liberata (Nota 25), tuttavia gli accordi sul carovita siglati nel luglio 1945 prevedevano un’indennità differenziata minore per le donne e il decreto governativo del 4 agosto 1945 deliberava il licenziamento di coloro il cui stipendio avesse nell’economia familiare una funzione “complementare” per far spazio ai reduci.
A seguito della scissione sindacale, pur non modificandosi, gli impegni presi nei confronti delle lavoratrici furono perseguiti dalle tre confederazioni con sensibilità differenti e strumenti di azione a volte contrastanti. La Cisl (Confederazione italiana sindacati lavoratori) si dimostrò più attenta alla tutela della maternità che alla difesa dei posti di lavoro, e la sua azione fu il risultato della mediazione tra la richiesta di un salario familiare, confacente alla visione tradizionale del ruolo femminile, e quella della parità salariale di stampo emancipazionista. Inoltre, il sindacato “cattolico” privilegiò anche in questo campo la via contrattuale rispetto a quella legislativa e preferì la pratica della mediazione all’utilizzo dello sciopero. La Cgil, invece, seguì una politica nettamente paritaria su tutti i fronti, interpretò l’astensione lavorativa e il ricorso alla piazza come strumenti prioritari e premette per l'attuazione universale dei diritti attraverso leggi statali (Nota 26).
Difficile ipotizzare quanto abbia pesato la scissione sindacale sulle battaglie delle sindacaliste milanesi, di certo contribuì a creare una differenziazione delle posizioni e qualche accentuazione di tradizionalismo; le divisioni furono presto risolte, però, sul terreno delle battaglie concrete per la difesa della maternità, per la parità salariale e per la richiesta di servizi per l’infanzia.
Il diritto al lavoro delle donne e la conquista della parità salariale divennero, pertanto, i capisaldi dell’azione femminile nel ventennio post bellico e si affermarono come segno di rottura e discontinuità con le discriminazioni e le violazioni imposte dal regime fascista. L’unione del fronte democratico portò la commissione femminile della Camera del lavoro di Milano a partecipare attivamente al Comitato permanente per la parità di retribuzione, organismo che aveva sede presso la Casa della laureata ed era composto da associazioni femminili di diverso orientamento politico e culturale, legate dal comune obiettivo del raggiungimento dell’eguaglianza salariale.
Nel 1957 Milano confermava la sua vocazione anticipatrice di orientamenti nazionali, ospitando presso la Società umanitaria il primo convegno per la parità salariale (Nota 27) a cui sarebbe seguito nel 1961 quello contro i licenziamenti per matrimonio (Nota 28). Furono due momenti d’importanza fondamentale per il sindacato, e segnarono la presa in carico dell’obiettivo della parità tra uomo e donna. Come scrisse Jone Bagnoli, che di quella battaglia fu tra le protagoniste:

Questa diventa una delle rivendicazioni che segna in sé l’insieme del movimento sindacale; ne accresce la maturità, la capacità di elaborazione, l'iniziativa di lotta; lo induce a misurarsi su tutta l'importante partita delle qualifiche professionali ed acquisire una più ampia consapevolezza sul ruolo e la condizione delle masse femminili nella produzione e nella società (Nota 29).

 

«Donna innamorata è mezza licenziata» (Nota 30)

Alla fine degli anni Cinquanta era uso di alcune aziende sottoporre «il personale femminile a pesanti pressioni ricattatorie» (Nota 31) per costringerlo al licenziamento. Le lavoratrici della Borletti denunciavano, ad esempio, la pratica del trasferimento in reparti poco ambiti, dove, ad esempio, si utilizzavano trattamenti chimici o dove l’impiego di trance e presse comportava spesso la perdita delle prime falangi.
Spesso, inoltre, le lavoratrici lamentavano l’atteggiamento poco corretto dei datori di lavoro, la mancanza di rispetto e di considerazione andava dall’utilizzo del confidenziale “tu”, al rigido controllo sul corpo femminile (imposizioni nel vestire, divieto di portare il rossetto o i tacchi), fino ad apprezzamenti sessuali, avances esplicite e molestie.
Le sindacaliste, dal canto loro, denunciavano a più riprese la «propaganda morale per il ritorno della donna al casolare» e la concezione del lavoro femminile non come un «diritto, ma una “gentile concessione” che permett[eva] ogni sopruso» (Nota 32).
In periodi di crisi e di esuberanza di manodopera le ragioni di quanti sostenevano il licenziamento delle donne si fondavano sull’opinione che il lavoro femminile non fosse dedito a soddisfare bisogni primari. Il ritorno a casa dei reduci e dei partigiani era diventato, quindi, nella crisi del dopoguerra, una leva importante per ridimensionare l'occupazione femminile, si trattava talvolta anche di una battaglia interna al sindacato dove c’era chi sosteneva con convinzione il diritto al lavoro per le donne «e chi viceversa lo considerava un’opportunità da subordinare, da utilizzare in presenza della piena occupazione, in altre parole, quando non vi fosse disoccupazione maschile» (Nota 33).
«Alcuni dirigenti – testimoniava Pina Re – paradossalmente proponevano di elevare al massimo le paghe femminili per indurre i padroni a liberarsi delle donne» (Nota 34). A volte mancava la solidarietà tra le donne stesse, che non avevano la percezione dell’importanza del proprio lavoro, consideravano comunque “primario” quello maschile. Ricordava, a proposito, Jone Bagnoli, che le lavoratrici le dicevano «si, le l’ha ga resun. Ma l’è el me om che cumanda. Mi stu anca a ca’» (Nota 35).
La strategia individuata dalle commissioni femminili, per non trovare ostacoli almeno all’interno del sindacato, fu quella del tesseramento in massa delle lavoratrici, poiché ovviamente, più donne si associavano più sarebbe risultato difficile e controproducente estrometterle dai posti di lavoro. Per raggiungere lo scopo venivano organizzate assemblee e sit-indavanti alle fabbriche a maggioranza femminile, per fare proselitismo e per sensibilizzare e informare le lavoratrici sui pericoli del licenziamento.
Per tutti gli anni Cinquanta scioperi, vertenze e manifestazioni contro i licenziamenti delle lavoratrici erano all’ordine del giorno; in alcune fabbriche a maggioranza femminile le vertenze durarono anche cento giorni come nel caso della Marzotto di Brugherio (Nota 36).
Il momento di maggiore difficoltà per il lavoro delle donne coincideva con il periodo della maternità, e su questo punto le sindacaliste si cimentarono concretamente. La predisposizione dell’articolato e l’iter legislativo di quella che si sarebbe chiamata legge “Noce-Di Vittorio” (legge n. 860 del 1950 per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri) furono sostenuti e discussi con le lavoratrici nelle fabbriche e nelle sedi sindacali decentrate nei quartieri. «Un corpo di combattenti» (Nota 37), come le chiamava Carla Acquistapace, che attraverso un’opera instancabile, coordinata da Teresa Noce – all’epoca contemporaneamente deputata e segretaria generale della Federazione italiana operai tessili (Fiot-Cgil) – scrissero e ottennero l’applicazione del principio di maternità come «funzione sociale».
Dietro l’angolo, tuttavia, si presentava immediatamente una soluzione per sfuggire agli obblighi imposti dalla legge: la clausola di nubilato. Era pratica diffusa in molte aziende inserirla nei contratti, che venivano così automaticamente annullati, oppure si pretendevano dalle lavoratrici, all’atto dell’assunzione, dichiarazioni di dimissioni in caso di matrimonio. La Camera del lavoro di Milano stilava un elenco di aziende che avevano in uso queste pratiche, tra le quali figuravano tutti i settori: «le aziende farmaceutiche Robin, Beuty, Ilce, Lepetit-Ledoga; le industrie alimentari Zaini, Motta, le fabbriche metallurgiche Ercole Marelli, Stigler-Otis, Rem; gli istituti di credito come la Banca commerciale italiana, il Banco di Roma, la Banca nazionale del lavoro, la Banca popolare di Milano, la Banca popolare di Novara» (Nota 38).
La battaglia sui licenziamenti per matrimonio, condotta palmo a palmo sul territorio e nei luoghi di lavoro, avrebbe trovato soluzione nel 1963 grazie all’impegno di una ex-sindacalista milanese, Giuseppina Re, con l’approvazione della legge che li rendeva illegittimi e che fu anche primo provvedimento di limitazione dei licenziamenti ad nutum.
In quegli stessi anni, l’Unione donne italiane (Udi) proponeva un’inchiesta tra le lavoratrici a sostegno di tutte le leggi che avevano come scopo la parità tra uomo e donna: nel campo della retribuzione, contro i licenziamenti per matrimonio, nell’accesso alla magistratura e alle carriere pubbliche.
Ne usciva un interessante sondaggio sulle aspirazioni femminili: si chiedeva alle donne se lavorassero per necessità, per assolvere a un bisogno di indipendenza economica personale, o per soddisfazione. Erano indagati pure i loro desideri di consumo: lavatrice, frigorifero, aspirapolvere (Nota 39). Sebbene la maggior parte delle donne milanesi dichiarò di lavorare per necessità economica (64%), solo una minoranza avrebbe preferito stare a casa (18%) e in prevalenza (62%) rispondeva di voler continuare a lavorare anche dopo il matrimonio. Il 71% delle casalinghe, inoltre, dichiarava di non esserlo per scelta, ma per la necessità di far fronte ai bisogni dei figli piccoli e del marito oppure per mancanza di occupazione.
Le principali richieste avanzate dalle lavoratrici riguardavano, invece, la riduzione dell’orario di lavoro, l’accesso alla formazione professionale e la possibilità di accedere alla pensione prima degli uomini.
La tensione tra il ruolo di madre e quello di lavoratrice era rintracciabile anche nelle parole d’ordine delle sindacaliste, che richiedevano sia l’istituzione di asili nido (o un’indennità di mancato asilo) sia la riduzione dell’orario di lavoro a paga invariata per consentire alle donne di dedicare il tempo necessario alla propria famiglia (Nota 40).

 

Per la parità salariale: «La forza-lavoro non ha sesso» (Nota 41)

La battaglia simbolo degli anni Sessanta fu quella per il raggiungimento della parità salariale. Uomini e donne, infatti, lavoravano fianco a fianco ma appartenevano a differenti mercati del lavoro: da un lato quello maschile della specializzazione e della professionalità e dall’altro quello femminile che richiedeva manualità adattamento e rapidità. Il lavoro delle donne era necessario, ma non riconosciuto come qualificato.
La disuguaglianza riguardava la paga base, la contingenza, i premi, le gratifiche e l’inquadramento professionale. Le donne guadagnavano in media il 70% del salario maschile, erano marginalizzate nei settori meno redditizi e inquadrate nelle categorie più basse. Tutto questo avveniva in deroga al principio di parità tra i sessi presente nella Costituzione italiana (art. 37), nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea (art. 119) e nella Convenzione di Ginevra ratificata dall’Italia nel 1956.
Così accadeva che alla Tecnomasio Brown Boveri (Tibb), che aveva sede in piazzale Lodi e in via De Castilla, lavorassero donne tranciatrici e uomini tranciatori, che entrambi maneggiassero trance di uguali dimensioni e di identica potenza, ma al lavoratore veniva corrisposta la qualifica di operaio qualificato, mentre alla lavoratrice quella di seconda categoria. Il lavoro svolto, pertanto, era uguale, ma la retribuzione oraria maschile era superiore di 42 lire. Nella sala di controllo degli strumenti di misura della Borletti, in via Washington, uomini e donne lavoravano al collaudo e alla taratura dei micrometri. Tuttavia i lavoratori erano “specializzati”, le lavoratrici inquadrate come “prima categoria”, con la conseguenza che i primi guadagnavano ben 88 lire in più all’ora (Nota 42).
Le lavoratrici chiedevano il giusto riconoscimento della propria professionalità: «la forza-lavoro non ha sesso» si legge in un documento del 1965 (Nota 43). Rivendicavano inoltre l'accesso ai corsi professionali per restare al passo con l'avanzare della tecnologia; denunciavano che con la scusa della nocività di certe lavorazioni si allontanavano le donne dai mestieri più qualificati, sebbene la salute dovesse essere salvaguardata con criteri unitari sia per donne sia per uomini, pena misure paternalistiche e discriminatorie. Le lavoratrici dell’editoria lamentavano, poi, «dei forti limiti nel considerare la donna ad uguale livello dei lavoratori [...] sia sul piano professionale che in quello della rappresentanza sindacale» (Nota 44).
Tutte replicavano offese a chi metteva in dubbio la loro necessità di lavorare e di guadagnare quanto gli uomini: «nella classe operaia si lavora per mangiare e non per arrotondare il bilancio familiare» (Nota 45); «voglio essere pagata secondo il lavoro che faccio. Cosa c’entra se lavora anche mio padre» (Nota 46); «il mio lavoro deve essere pagato per il lavoro non perché donna» (Nota 47), 
si legge nei questionari distribuiti dalla Camera del lavoro nelle fabbriche milanesi.
In un primo momento le stesse Confederazioni calmieravano le richieste di parità avanzate dalle categorie, soprattutto quelle provenienti dai settori ad alto impiego di donne quale la Fiot (Nota 48).

C'erano due inquadramenti distinti» – ricordava Alessandra Codazzi (1921), partigiana, sindacalista Cisl e senatrice – «gli uomini, per i quali venivano utilizzati criteri professionali per specificare mansioni e motivare le retribuzioni, come ad esempio, operaio generico e operaio specializzato. Per le donne nessuna aggettivazione, ma solo tra categorie: la prima, la seconda e la terza E, anche quando svolgevano mansioni di operaio specializzato, prendevano quanto un manovale. Questa questione però non era molto sentita. Noi sindacaliste a suscitare una sensibilità al riguardo (Nota 49).

Per sensibilizzare il sindacato e rendere palese la discriminazione ai danni delle lavoratrici, la commissione femminile e il centro studi economici della Camera confederale del lavoro promossero ricerche e acquisizione di dati. Si scoprì così che le lavoratrici erano concentrate in alcune importanti aziende del territorio: la Magneti Marelli, la Siemens Olap, la Fiar, la Cge, la Geloso, la Philips, la Face, la Tibb, la Borletti, la Cgs, la Singer e la Bianchi e che in tutte queste fabbriche le retribuzioni femminili erano in media inferiori del 18 e del 21%. All'Alfa Romeo, poi, le lavoratrici percepivano 15 lire in meno per lo “sforzo fisico” pur svolgendo le stesse mansioni degli uomini (Nota 50). Nell'industria chimica un’operaia di prima categoria percepiva una retribuzione inferiore di L. 8 all'ora rispetto all’operaio semplice maschio, differenza che saliva a L. 26,50 all'ora rispetto alla paga dell’operaio qualificato. Nel settore della gomma, alla Pirelli, la differenza di salario tra un lavoratore e una lavoratrice era di L. 10.000 al mese.
Paghe minori erano, poi, corrisposte nei settori a maggioranza femminile, che avevano tabelle salariali più basse: se nel settore tessile, dove il 70% della manodopera occupata era costituito da donne, un operaio specializzato percepiva L. 192,35 all'ora; nel settore grafico, dove la presenza femminile era minoritaria, un operaio ugualmente specializzato percepiva invece una paga oraria di L. 255,50. Così come gli operai, o meglio le operaie nel settore tessile erano pagate meno di quelli del settore metalmeccanico, che impiegava un maggior numero di uomini. I dati confermavano che non era certo il mestiere a fare la differenza, ma piuttosto la sottovalutazione e lo svilimento del lavoro femminile; volutamente si creava una gerarchia delle mansioni e dei settori produttivi basata sul sesso (Nota 51).
I datori di lavoro avevano buon gioco nel mantenere le paghe femminili più basse, poiché rappresentavano per loro una fonte di risparmio. Si trinceravano dietro il minor rendimento e il maggior numero di assenze delle donne. A queste supposizioni rispondeva icasticamente Stellina Vecchio, “vicesegretario” della Camera del lavoro di Milano notando che «se ci si riferisce come pare prevalentemente alle assenze per maternità, non vediamo perché non si lamentino, ad esempio, le assenze fatte dall'uomo quando va al servizio militare» (Nota 52).
La diffidenza maschile nei confronti della parità era generalizzata, vi era la contrarietà degli imprenditori, la cautela dei dirigenti sindacali e la reazione negativa dei lavoratori. Cosi ricordava Nori Brambilla:

Era una battaglia che conducevamo su due fronti: contro il padrone innanzitutto. Però anche sul fronte interno [...]. E poi [contro la convinzione] della superiorità maschile sulle donne che è una cosa antica che ha radici proprio nella storia del mondo. A volte a me capitava di andare nelle fabbriche e discutere coi compagni e a un certo punto sentirmi dire dal compagno della commissione interna “macome tu vuoi che una donna guadagni come un uomo?” Così come dire “Ma cosa pretendi è impossibile, è giusto che l'uomo guadagni di più”. Poi dopo, quando gli chiedevo il perché non sapevano spiegarmelo (Nota 53).

Nonostante i distinguo proposti delle tre centrali sindacali, divise nell’approccio e nei metodi di lotta, le sindacaliste facevano invece fronte comune. L’Alemagna in via Torino era il teatro delle trattative per la piattaforma unitaria femminile. Le confederazioni le lasciavano fare, poco convinte della vittoria finale. Al contrario le donne del sindacato era sicure e determinate, molte provenivano da esperienze politiche comuni, erano state partigiane, avevano vissuto il clima di esclusione delle donne dalla vita pubblica, avevano già combattuto per le proprie convinzioni.
Le sindacaliste si mossero su due piani: da una parte promuovevano la parità nei rinnovi dei contratti collettivi nazionali di categoria e dall'altra stimolavano l'azione sindacale a livello aziendale, rivendicando un’unica classificazione indipendente dal sesso; la parità della contingenza per uomini e donne; l'avvicinamento delle retribuzioni sulle tabelle minime a parità di qualifica; una uguale corresponsione dei premi di produzione; la parità nelle tariffe di cottimo e la parità di stipendio a parità di mansione.
In alcune aziende, l'affermarsi di queste richieste presupponeva che per le lavoratrici si rivendicassero aumenti superiori in cifra rispetto a quelli avanzati per i lavoratori, proprio al fine di ridurre le discriminazioni in atto. Sul finire degli anni Cinquanta attraverso la contrattazione aziendale si ottenne, quindi, un primo graduale avvicinamento dei salari tra i due sessi, garantendo maggiori aumenti per le donne: le lavoratrici della Geloso, ad esempio, conseguirono un incremento del 5,5% del salario base, riducendo così la differenza con gli uomini (Nota 54).
Dopo tre anni di trattative, battaglie e opera di persuasione, il 16 luglio 1960 veniva siglato a Milano il primo accordo interconfederale unitario per le operaie dell’industria sulla parità salariale, tra i sindacati, Confindustria e Intersind. Seguirono i perfezionamenti di settore per le metalmeccaniche, le impiegate, le tessili, le ospedaliere, e infine per le lavoratrici della campagna. Veniva, così, eliminata la distinzione per sesso, ma permaneva una divisione per mansioni classificate come «maschili» – caso in cui donne e uomini erano retribuiti allo stesso modo –«promiscue» (Nota 55) – in cui le donne guadagnavano circa il 7% in meno – e «femminili» – che erano mansioni comunque inquadrate a livello inferiore e pertanto retribuite meno indipendentemente dal sesso di chi era chiamato a svolgerle (Nota 56). 
L’accordo del luglio 1960, per quanto non accogliesse la richiesta della parità assoluta, ebbe un valore politico e sindacale indiscusso e di portata generale: rappresentava il superamento della sottovalutazione del lavoro femminile e apriva la strada al rinnovo della struttura del salario per tutti i lavoratori.
Abolita per contratto la differenza sessuata del salario, si apriva quindi la battaglia sulle qualifiche, dal momento che le lavoratrici erano spesso inquadrate in categorie minori e quindi, nuovamente, pagate meno.
Attraverso le lotte delle sindacaliste, i diritti delle lavoratrici erano diventati«non più rivendicazioni del movimento femminile soltanto, ma parte integrante della piattaforma rivendicativa di tutto il movimento sindacale» (Nota 57).

 

Il cambio generazionale: una storia ancora da scrivere

La coesione delle donne di Cgil, Cisl e Uil (Unione italiana del lavoro) fece crescere l'azione comune, e fu anch’essa una premessa per le Federazioni unitarie e per le conquiste degli anni Settanta (la legge sulla parità di trattamento tra donne e uomini in materia di lavoro, la normativa sul lavoro a domicilio, lo Statuto dei lavoratori, il riconoscimento delle 150 ore, ecc.). Tale patrimonio politico e organizzativo femminile si esaurì, tuttavia, nell’arco di pochi anni. La vittoria per la parità coincise, infatti, con il declino del movimento sindacale femminile organizzato, o quanto meno del modo in cui era stato interpretato dalla prima generazione di sindacaliste. Le confederazioni decisero, proprio negli anni Sessanta, di sostituire le commissioni femminili con gli uffici lavoratrici, strutture di coordinamento tra sindacaliste camerali e di categoria. Il cambiamento era frutto della convinzione, molto diffusa anche tra le donne, che una volta conquistata la parità salariale non fossero più necessarie strutture separate, ma piuttosto un raccordo tra donne di settori diversi. Poche furono le voci discordi e tra queste quella di Jone Bagnoli, la quale ha sempre considerato un errore eliminare un organismo che aveva alimentato il dibattito, promosso quadri femminili e permesso alle donne di esercitare una forma di potere (Nota 58).
La soppressione di un luogo di confronto ed elaborazione tra donne, che aveva indubbiamente svolto una funzione importante anche se aveva rischiato di segregare l'azione delle sindacaliste, coincise con una perdita momentanea di incisività femminile nel sindacato. Prevalse un progressivo distacco dai problemi della condizione delle lavoratrici e ne furono conferma sia la contrazione dell’occupazione femminile sia la gestione passiva con cui si produssero le ristrutturazioni di settori che occupavano in maggioranza donne (Nota 59).
In sede storica possiamo concludere che la seconda metà degli anni Sessanta comportò una cesura fondamentale, un cambio di fase nella politica sindacale per le donne e la chiusura delle commissioni femminili non fu altro che un passaggio della trasformazione. Il sindacato tutto era inoltre attraversato da un cambiamento più generale e da un rinnovamento generazionale che coinvolgeva l’intera società italiana e che nel campo della rappresentanza del lavoro passò per le vicende dell’autunno caldo, prima, e del fenomeno tipicamente italiano del femminismo sindacale, poi. L'azione sindacale di uomini e donne si sposava sul terreno del riconoscimento delle qualifiche, delle politiche attive e del welfare: la formazione professionale, le 150 ore, l’apprendistato, l’ambientalismo, le battaglie per i diritti civili, la pensione e le discussioni sul part time con tutte le contraddizioni che comportava in termini di qualità del lavoro femminile – presero il sopravvento. La generazione attiva durante la Resistenza lasciava il posto a donne, spesso più istruite, che avevano incontrato il sindacato durante gli scioperi, le manifestazioni e le vertenze del cosiddetto “autunno caldo”, oppure a militanti che provenivano dalle file dei femminismi degli anni Settanta. Mutavano, quindi, le richieste, i metodi di lotta e anche il modo di intendere la militanza e la rappresentanza del lavoro. Una storia ancora da scrivere e le cui protagoniste sono spesso ancora in attività.

NOTE:

Nota 1 Tra i più recenti: S. Lunadei, L. Motti, M. L. Righi, È brava ma...Donne nella Cgil (1944-1962), Ediesse, Roma 1999; La Cisl ha bisogno delle donne, Riflessioni su cinquant’anni di storia, Edizioni Lavoro, Roma 2002; L. Motti (a cura di), Donne nella Cgil. Una storia lunga un secolo, Ediesse, Roma 2006; F. Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili e la Camera del Lavoro 1891-1918, FrancoAngeli, Milano2007; G. Chianese (a cura di), Mondi femminili in cento anni di sindacato, Ediesse, Roma 2008; A. Carera, A. Coppola, Ponti invisibili: voci di donne. Storia della Cisl 1950-2000, ©2014. Si vedano anche alcune ricostruzioni biografiche come quelle di M. P. Del Rossi, Donatella Turtura. Rigore, umanità, ragione e passione di una grande sindacalista, Ediesse, Roma 2008; Silvia Bianciardi, Argentina Altobelli e la buona battaglia, FrancoAngeli, Milano 2012; D. Migliucci, La politica come vita. Storia di Giuseppina Re, “deputato” al Parlamento italiano (1913-2007), Unicopli, Milano 2012. Torna al testo

Nota 2 Sono stati prodotti negli ultimi anni alcuni studi promossi dalla Cisl, ma limitatamente all’ambito nazionale. Si vedano: La Cisl ha bisogno delle donne, cit.; A. Carera, A. Coppola, Ponti invisibili, cit. Torna al testo

Nota 3 Per questa ricerca sono stati consultati i fondi conservati presso: Archivio del Lavoro (Cgil Milano), Fondazione Istituto per la storia dell’età contemporanea (Isec) e Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Insmli) “Ferruccio Parri”; per il confronto tra le politiche di Cgil e Cisl in seguito alla scissione è inoltre risultata utile la biblioteca di Bibliolavoro (Cisl Lombardia). Torna al testo

Nota 4 Cfr. Archivio del Lavoro Sesto San Giovanni, Archivio Camera confederale del Lavoro di Milano (d’ora in poi ADL, ACCDLMI), classe 5.2.2.20, fasc. 1. Torna al testo

Nota 5 Cfr. ADL, ACCDLMI, classe 5.2.2.20, fasc. 2. Torna al testo

Nota 6 Cfr. Fondazione Isec, Fondo Ida Rovelli. Torna al testo

Nota 7 M. L. Righi, L’azione delle donne nella Cgil: 1944-1980, in L. Motti (a cura di), Donne nella Cgil: una storia lunga un secolo, cit., pp. 225-245. Torna al testo

Nota 8 Intervista a Maria Pia Lucini, in ADL, Fondo Granelli, Progetto 5. Torna al testo

Nota 9 Si vedano le rispettive interviste in ADL, Fondo Granelli. Torna al testo

Nota 10 E. Pacini, Sessant’anni in Cgil. Una vita tra lavoro, passione e militanza, Liberetà, Roma 2009, p. 26. Torna al testo

Nota 11 A. Carera, A. Coppola, Ponti invisibili: voci di donne, cit., p. 57. Torna al testo

Nota 12 E. Pacini, Sessant’anni in Cgil, cit. Torna al testo

Nota 13 Intervista a Maria Luisa Larelli, in ADL, Fondo Granelli, progetto 1. Torna al testo

Nota 14 La Fiom di Milano. I funzionari 1945-1985, © Fiom, Milano 1985, p. 223. Torna al testo

Nota 15 Intervista a Liliana Gatti, in ADL, Fondo Granelli, Progetto 1, 11.11.1988. Torna al testo

Nota 16 Nella Marcellino, in S. Burchi, F. Riggeri, Noi e la Cgil, Ediesse, Roma 2010, p. 189. Torna al testo

Nota 17 V. Risier, Introduzione in La Fiom di Milano. I funzionari 1945-1985, cit., pp. 7-25. Torna al testo

Nota 18 Sul tema si veda M. L. Righi, L'azione delle donne, in È brava ma..., cit., p. 62; specificamente sul caso milanese cfr. F. Imprenti, D. Migliucci, M. Costa, Breve storia delle conquiste femminili nel lavoro e nella società, Milano, Unicopli, 2012. Torna al testo

Nota 19 Intervista a Carla Acquistapace, in ADL, Fondo Granelli, Progetto 1. Torna al testo

Nota 20 Relazione di Stella Vecchio alla Conferenza provinciale della lavoratrice, 26.1.1958. Cfr ADL, ACCDLMI, classe 5.2.2.20. fasc. 5. Torna al testo

Nota 21 Si fa riferimento a quanto evidenziato da M. L. Righi, L’azione delle donne nella Cgil: 1944-1980, in L. Motti (a cura di), Donne nella Cgil: una storia lunga un secolo, cit., pp. 225-245. Torna al testo

Nota 22 Impegno delle lavoratrici milanesi per il IV Congresso della Camera del Lavoro, [1953] ACCDLMI, classe 5.15.3, fasc.1.12. Torna al testo

Nota 23 Cfr. J. Bagnoli, Le lotte per la parità salariale, in G. Petrillo, A. Scalpelli, Milano. Anni Cinquanta, FrancoAngeli, Milano 1986, p. 381. Torna al testo

Nota 24 Intervista a Stella Vecchio, in ADL, Fondo Giuseppe Granelli, Progetto 9. Torna al testo

Nota 25 Cfr. Interventi di Maddalena Secco al I congresso delle organizzazioni sindacali della Cgil dell’Italia liberata, 29 gennaio – 1 febbraio 1945, in I Congressi della Cgil, Vol. I, Editrice sindacale italiana, Roma 1970. Torna al testo

Nota 26 L’atteggiamento tenuto da Cisl e Cgil nell’affrontare i tema della parità era espressione della più generale divaricazione degli approcci tra le centrali sindacali, caratterizzati dalla cultura della contrattazione espressa dalla Cisl e l’approccio generalista della Cgil. Sul tema si vedano tra gli altri: P. Causarano, L. Falossi, P. Giovannini, Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali: il Novecento italiano, Ediesse, Roma 2008; L. Bordogna, R. Pedersini, G. Provasi, Lavoro, mercato, istituzioni. Scritti in onore di Gian Primo Cella; FrancoAngeli, Milano 2013. Alcuni esempi del caso milanese si trovano in L. Bertucelli, Nazione operaia: cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, Ediesse, Roma 1997. Torna al testo

Nota 27 Società Umanitaria, Retribuzione eguale per un lavoro di valore e eguale. Atti del convegno studi svoltosi nel salone degli Affreschi dal 4 al 6 ottobre 1957, Giuffrè, Milano 1958. Torna al testo

Nota 28 L. Merlin (a cura di), Libro bianco sui licenziamenti per causa di matrimonio in Italia, Roma 1961; Fiom Cgil (a cura di), I metalmeccanici in lotta per la parità salariale, Milano 1961. Torna al testo

Nota 29 J. Bagnoli, Le lotte per la parità salariale, in G. Petrillo, A. Scalpelli, Milano. Anni Cinquanta, cit., p. 373. Torna al testo

Nota 30 Era il titolo di un articolo comparso su «Conquiste del lavoro», 1961, e riportato in La Cisl ha bisogno delle donne, cit., p. 20. Torna al testo

Nota 31 Testimonianza di Fioravante Stell, riportata in G. Gulli, T. Lana, Le lavoratrici e i lavoratori della Borletti. Storie di vita e di lotta 1940-1963, Ediesse, Roma 2005, p. 141. Torna al testo

Nota 32 Volantino per l’8 marzo 1956. Cfr. ADL, ACCDLMI, classe 5.2.2.20, fasc. 2. Torna al testo

Nota 33 I. Gualandi, Un lungo cammino, Liberetà, Milano 2009, p. 33. Torna al testo

Nota 34 D. Migliucci, La politica come vita, cit., p. 43. Torna al testo

Nota 35 «Lei ha ragione. Ma è mio marito che comanda. Io sto anche a casa!». Cfr. Videointervista rilasciata all’autrice. Torna al testo

Nota 36 Nota della commissione femminile milanese sulle “recenti iniziative nazionali per la parità salariale”, 1958. Cfr. ADL, ACCDLMI, classe 5.3.2, fasc. 2. Torna al testo

Nota 37 Intervista a Carla Acquistapace, cit. Torna al testo

Nota 38 ADL, ACCDLMI, classe 5.2.2.20, fasc. 2. Torna al testo

Nota 39 ADL, ACCDLMI, classe, 5.2.2.20, fasc. 2. Torna al testo

Nota 40 Volantino per l’8 marzo [1956]. Cfr. ADL, ACCDLMI, classe, 5.2.2.20, fasc. 2. Torna al testo

Nota 41 Era lo slogan della battaglia per la parità salariale. Cfr. ADL, ACCDLMI, classe, 5.2.2.20, fasc. 2. Torna al testo

Nota 42 ADL, ACCDLMI, classe, 5.2.2.20, fasc. 2. Torna al testo

Nota 43 Filpc Cgil, Conferenza nazionale della lavoratrice, 26.11.1965. Cfr. ADL, ACCDLMI, classe 5.15.3, fasc. 8. Torna al testo

Nota 44 Filpc Cgil, Conferenza nazionale della lavoratrice, cit. Torna al testo

Nota 45 Questionario ACCDLMI [1965], classe 5.15.3, fasc. 8. Torna al testo

Nota 46 Questionario ACCDLMI [1965], classe 5.15.3, fasc. 8. Torna al testo

Nota 47 Questionario ACCDLMI [1965], classe 5.15.3, fasc. 8. Torna al testo

Nota 48 M. L. Righi, L’azione delle donne nella Cgil, cit. Torna al testo

Nota 49 La Cisl ha bisogno delle donne, cit., p. 9. Torna al testo

Nota 50 Intervista a Maria Pia Lucini, in ADL, Fondo Granelli, Progetto 5. Torna al testo

Nota 51 I dati sono riportati in Jone Bagnoli, Le lotte per la parità salariale, cit. Torna al testo

Nota 52 Relazione di Stella Vecchio alla Conferenza provinciale della lavoratrice, in ADL, ACCDLMI, classe 5.2.2.20, fasc. 5. Torna al testo

Nota 53 Intervista a Onorina Brambilla Pesce, ADL, Fondo Granelli, cit., Progetto 1. Torna al testo

Nota 54 Cfr. ADL, ACCDLMI, classe 5.3.2, fasc. 2. Torna al testo

Nota 55 Si definiva promiscuo «il lavoro di contenuto identico svolto di fatto normalmente in modo promiscuo da donne e uomini in consistente aliquota». Cfr. Accordo interconfederale del 16 luglio 1960 per la parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, Supplemento ordinario n. 2 alla Gazzetta ufficiale n. 194 del 2 agosto 1962; si veda anche M. Lorini, Trent’anni di lotte delle lavoratrici italiane, Esi, Roma 1975. Torna al testo

Nota 56 Ad esempio le mansioni operaie inquadrate precedentemente della 1ª categoria femminile, venivano comprese nella 5ª categoria generale; le mansioni della ex 2ª categoria nella 6ª e così di seguito. Cfr Accordo interconfederale del 16 luglio 1960, art. 2. Torna al testo

Nota 57 Intervista a Stella Vecchio, cit. Torna al testo

Nota 58 J. Bagnoli, Donne in lotta, inG. Sacchi, Una lotta storica 1960-1961. Gli elettromeccanici, Editrice Aurora, Milano 2007; Ead., Le lotte per la parità salariale, cit. Torna al testo

Nota 59 Sul punto si veda l’interpretazione data da Nella Marcellino, in Noi e la Cgil, vol. I, Ediesse, Roma 2010, pp. 204-205. Torna al testo

 

Questo saggio si cita: D. Migliucci, Rappresentare il lavoro. Donne e Camera del lavoro a Milano (1945-1963), in «Percorsi Storici», 4 (2016) [www.percorsistorici.it]

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