Paolo Sorcinelli, Ritratti senza sorrisi

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Paolo Sorcinelli

Ritratti senza sorrisi 

 

Fiorenza – nel 1999 – mi coinvolse (io ero riluttante) nella stesura de Il tempo libero per la collana “Storia fotografica della società italiana” degli Editori Riuniti. Mi sembrò dunque scontato che fosse proprio lei, nel novembre del 2015, a presentare, un libro di storie di vita e di fotografie sul paese dove sono nato che del resto Fiorenza negli ultimi anni aveva frequentato abbastanza e volentieri. Così fu e in quell’occasione ci demmo appuntamento per la presentazione di un altro fotolibro che sempre noi, io e Paolo Alfieri, avevamo già in programma per un prossimo futuro. Purtroppo le cose presero un’altra piega e quando Il paese in posa fu presentato (all’inizio del 2017) Fiorenza aveva altri impegni. Ci saremmo rivisti però alla fine di marzo e poi ogni tanto una telefonata, per dirmi che, passata la bufera, anche per quell’estate lei e William sarebbero venuti a Pesaro, in quel rifugio lungo il viale che a lei e a lui piaceva tanto. Proprio in quel viale, in cui mi capita di passare almeno una volta al giorno con Bach, per questo libro collettaneo dedicato a Fiorenza, amica speciale di tanti giorni, accademici e non, ho deciso di scrivere ancora una volta di fotografia e di fotografie.

 

Le indagini di mercato, la sociologia, la psicologia erano campi ancora sconosciuti, ma c’era chi aveva capito tutto. Erano passati una decina d’anni dal dagherrotipo, ma Desderi aveva inquadrato perfettamente la situazione: con la fotografia non solo si poteva vivere, ma vivere bene e addirittura fare dei soldi. Bastava un po’ d’intraprendenza ed essere convinti che pochi avrebbero resistito alla tentazione di essere immortalati in un ritratto. Una prerogativa fino ad allora riservata ai nobili aristocratici e ai ricchi borghesi che potevano ingaggiare ritrattisti più o meno famosi e avere così la propria effigie o quella dei figli o della moglie o dell’intera famiglia da esporre nel salotto di casa. Invece, con quell’aggeggio appena inventato e che lo stesso Desderi aveva adattato ai suoi scopi migliorandone le prestazioni, quasi tutti avrebbero potuto godere della  propria effigie senza la scocciatura di lunghe sedute, immobili e compunti, e per di più senza sborsare cifre esorbitanti.
Sto parlando di André-Adolphe-Eugène Disdéri che nel 1854 ebbe l’idea di lanciare sul mercato la carte de visite fotografica e che nel giro di qualche anno mise in piedi studi fotografici a Parigi, a Londra e a Madrid. Con un solo franco forniva una dozzina di biglietti da visita in cui, oltre alle generalità e alle referenze professionali, faceva bella mostra un’accattivante immagine dell’interessato. Desderi aveva colpito nel segno, tant’è vero che pochi anni dopo, nel 1861, era celebrato e invidiato come il fotografo più ricco del mondo. Ma le ricadute economiche della fotografia non beneficiavano il solo Desderi perché in quel tempo a Parigi c’erano almeno 33.000 persone che si guadagnavano la vita in questa ramo. E Londra non era da meno: se nel 1855, gli studi fotografici specializzati in ritrattistica e carte da visita erano 66, sei anni dopo erano diventati 200 e nello spazio dei successivi cinque anni avrebbero raggiunto quota 284. E pensare che erano passati solo trent’anni dall’invenzione dei francesi Daguerre e Bayard, ma ormai, rispetto alle lunghissime pose necessarie nel 1851, l’impressione su una lastra di vetro era diventata una questione di pochi minuti; ancora qualche anno e ogni fotografia sarebbe stata riproducibile in più copie. I progressi di quella che Ando Gilardi ha avuto modo di definire «la prima delle meravigliose invenzioni della civiltà industriale», aveva coinvolto non solo l’interesse di un «largo pubblico» ma aveva suscitato un interesse paragonabile soltanto alle «imprese spaziali di un secolo dopo». E volendo attualizzare questa comparazione, che è del 1976, oggi potremmo tirare in ballo il web e il cellulare.
Una cosa è certa: gli anni che vanno dal 1830 al 1860 suscitarono “entusiasmi fotografici” non soltanto nell’ambito della ritrattistica, ma un po’ in tutti i campi. Il dottor Diamond, che nel 1850 dirigeva il manicomio del Surrey, intravvide da subito le potenzialità della fotografia per catturare «con irrefutabile precisione le manifestazioni esteriori di ogni passione, quale autentica indicazione della ben nota corrispondenza che lega la mente malata agli organi e alle fattezze del corpo». Intuizione messa in pratica e portata al successo qualche anno dopo da Cesare Lombroso con le sue teorie sull’an- tropologia criminale e sulle patologie organiche. Intanto, nel 1855, l’inglese Roger Fenton aveva puntato il suo obiettivo sui campi di battaglia della guerra di Crimea, guadagnandosi il primato di “primo fotoreporter di guerra”. Nel 1863 Mathew Brady si armò di tutto il necessario e percorse i luoghi in cui si fronteggiavano unionisti e confederati per fissare con incredibile realismo i morti della guerra civile americana. Un paio di decenni ancora e Alphonse Bertillon in Francia e Pietro Ellero in Italia applicarono la schedatura fotografica per il controllo sociale dell’identità dei criminali e dei sovversivi o di chiunque altro avesse avuto dei guai con la giustizia. E che dire della fotografia erotica? Nata in sordina con i primi dagherrotipi, alla fine dell’Ottocento aveva assunto proporzioni impensabili tanto che le autorità francesi giunsero a proibire la vendita di queste immagini e nell’Italia giolittiana, in un solo anno, 1909, le autorità di pubblica sicurezza sequestrarono 200.000 immagini di nudi e di pose ritenute pornografiche. Ma a quel punto l’immagine fotografica aveva conquistato anche la cronaca giornalistica dando ai lettori la possibilità di rendersi conto visivamente di eventi che prima era giocoforza soltanto immaginare. Come ad esempio in occasione del sisma messinese del 1908 quando i resoconti fotografici comparvero su tutti i giornali del mondo provocando un moto di solidarietà internazionale fino a quel momento impensabile.
Ritornando però al nocciolo della questione, lo sviluppo della ritrattistica fotografica non si limitò alle grandi città, ma dilagò a macchia d’olio nella provincia e nelle campagne più periferiche, sia con la proliferazione degli studi fotografici sia ad opera dei fotografi ambulanti. Nel 1869, ad esempio anche in Ancona, un medio capoluogo di provincia, erano operanti ben sette studi fotografici e qualcuno aveva pensato bene anche di reclamizzare la sua attività facendo presente che era in grado di ottenere ottime pose anche in caso di cielo nuvoloso. E poi c’erano i fotografi più intraprendenti che non aspettavano i clienti in laboratorio, ma li andavano a cercare nei paesi e nelle campagne, appendevano un telo alle loro spalle, sistemavano qualche seggiola e, oplà, il gioco era fatto. Dalla frontiera americana, ai deserti africani; dai latifondi siciliani, ai coloni padani, dai braccianti maremmani, ai mezzadri toscani, compresi i ladri di cavalli impiccati nel Far West e i briganti lucani giustiziati dai soldati piemontesi, fino a Monti e Tognetti, ghigliottinati nel 1866 nella Roma papalina, pochi rimasero immuni dall’intraprendenza dei fotografi stanziali o viaggianti e chi più chi meno tutti rimasero imbrigliati in quella nuova forma di rappresentazione del reale e di democratizzazione del ritratto.
Senza arrivare all’estremizzazione di Walter Benjamin, che nella sua Piccola storia della fotografia (1931) vedeva in questo mezzo espressivo la vittoria dell’arte di massa sull’arte aristocratica del passato, per la prima volta gli uomini di qualunque ceto (e non soltanto gli aristocratici) riuscirono nello spazio di qualche decennio ad accedere alla propria immagine e a pervenire al riconoscimento sociale della propria individualità. Negli studi fotografici si eseguivano ritratti individuali o di gruppo, prima su sfondi uniformi, poi su fondali dipinti, che man mano si arricchirono di finte colonne classicheggianti, di tende, di mobili, di poltrone, secondo canoni scenografici in grado di enfatizzare al meglio il soggetto rappresentato. Anche la posa era studiata e calcolata: dagli sguardi, alla posizione delle mani, dalle vesti agli ornamenti. Così gli album di famiglia ci consegnano le fotografie di uomini impacciati e fieri, con le braccia lungo il corpo, la sigaretta spenta fra le dita; le donne tengono in mano un ombrellino, una borsetta, o stanno in secondo piano, vicino al marito seduto, appoggiandogli una mano sulla spalla. Il gruppo familiare è disposto secondo precise norme gerarchiche: i nonni seduti al centro, dietro i figli e le nuore, a fianco i nipoti. L’immagine che ne scaturisce amplia la percezione del corpo e del suo aspetto fisico; introduce «una rappresentazione della bellezza senza più connotati morali». Attraverso le fotografie che si succedono nel tempo l’individuo può rendersi conto delle trasformazioni e della coesione del suo entourage parentale e può seguire il passaggio fra le diverse fasi del suo ciclo esistenziale: emblematica in questo senso è la foto di un’adolescente con le trecce sciolte fino alle ginocchia, scattata prima del loro sacrificio, secondo una prassi che segnava l’entrata della ragazza nell’età adulta.

 

 

Con la fotografia nasce anche un’inedita percezione della nostalgia e della lontananza e in questo senso non è casuale che la maggior diffusione della fotografia abbia coinciso con la grande emigrazione d’inizio secolo e con la guerra del 1914-1918. La separazione di milioni di giovani dalla loro famiglia provocò fra chi partiva e chi restava la celebrazione di uno scambio iconologico che aveva il compito di perpetuare, malgrado la lontananza, un rapporto di consuetudine che le vicende della vita cercavano di interrompere. In questo caso infatti la fotografia non affermava soltanto l’identità personale rispetto alla società, ma legittimava un possesso simbolico, canalizzava visivamente un flusso emotivo fra chi guardava la foto e il soggetto, materialmente assente, rappresentato nella foto. Costituiva la prova tangibile di un legame di sangue o di affetto. E non è infrequente che in qualche ritratto familiare, si potesse addirittura pretendere dal fotografo l’inserimento di una presenza “virtuale”, qualcuno che non c’era più, ma che doveva ancora esserci. Come nella fotografia che ritrae una giovane signora e i suoi figli  ma in cui compare, in alto a sinistra, il tondo del marito in uniforme probabilmente morto in guerra (FOTO n. 2).

 

E in quella in cui in primo piano è raffigurato il capofamiglia, seduto al centro di un folto manipolo di fratelli, cognate, figli, nuore e nipoti, che mostra in bell’evidenza il ritratto di una figlia, scomparsa o forse lontana (FOTO n. 3).

 

 

Ma su certe foto poteva anche abbattersi la damnatio memoriae, in quanto testimonianze di un momento o di una persona divenuti ingombranti e da dimenticare. Allora le fotografie erano occultate allo sguardo degli altri, oppure, con una scelta più radicale, le si faceva a pezzettini, o, in maniera più soft, si ritagliava con accortezza il soggetto che disturbava (ad esempio, il fidanzato/a fedifrago/a), oppure, in maniera più ambigua, si cancellavano con pazienza i volti, come succede ad esempio nel caso di un matrimonio fallito.

Fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento quasi tutti gli italiani hanno avuto a che fare con uno studio fotografico in cui sono entrati da soli, con la moglie, con qualche figlio oppure con tutto il gruppo familiare. Lo si faceva per lasciare un ricordo, per trasmettere un messaggio, per affermare il proprio status, per ribadire un affetto, per coltivare un legame. O semplicemente per la pura vanagloria di apparire. In ogni caso le varie motivazioni che hanno portato i clienti in uno studio fotografico o hanno indotto i fotografi a ricreare il proprio studio nelle piazze dei paesi e addirittura nelle case dei potenziali clienti, hanno avuto il merito di aver prodotto una marea di rettangoli di carta, spesso appesi fra il vetro e la cornice dei mobili in cui si conservavano bicchieri, tazzine, qualche bottiglia di liquore. Le credenzine si ornavano così, generazione dopo generazione, di nonni scomparsi, di matrimoni celebrati, di nipoti arrivati e di figli partiti, finché, quando sulle ante non c’era più posto, le immagini più vecchie erano sostituite con quelle più recenti.

 

 

 

Con il passare di moda delle credenzine e con l’accumularsi di questi rettangoli, le fotografie finirono in un cassetto del comò, in una scatola di scarpe da conservare nell’armadio o in un vero e proprio album. Gli anni ne hanno provocato una selezione naturale e i casi della vita le hanno rarefatte, consumate, sbiadite, fino al punto che oggi chi se le ritrova in casa spesso non è più in grado di dire chi siano quegli uomini austeri e impacciati, quelle signore eleganti o rassegnate, quei ragazzi curiosi o speranzosi. Sono soggetti di cui si è persa perfino l’identità e il grado di parentela, ma che hanno in comune la particolarità di non lasciar trasparire nessun accenno di sorriso. Sul perché si potrebbe disquisire a lungo, ma forse il motivo principale è che in quel momento avevano altro a cui pensare e, di fronte al fotografo, avevano poca voglia di sorridere.

 

BIBLIOGRAFIA MINIMA

Abele Cerasoli e il suo tempo. Fotografia e società di massa, Edizioni Università dei Saperi, Fano 2015

Pierre Bourdieu, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, Rimini 2000

Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2000

Vincenzo Marzocchini, Ritratti al plurale, Polyorama, Modena 2015

Angelo Schwarz, La commedia del ritratto, Laterza, Roma-Bari 1986

 

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