Pantaleone Sergi, Da Villa Regina a Villasboas. Progetti di colonizzazione in Sud America negli anni del primo fascismo

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Pantaleone Sergi

Da Villa Regina a Villasboas. Progetti di colonizzazione in Sud America negli anni del primo fascismo

 

Prologo, obiettivo e materiali

Quando Mussolini arrivò al potere non pensava ancora a colonie di diretto dominio o a porre paletti all’emigrazione per mostrare i muscoli al mondo intero; tuttavia con l’assenso del governo furono elaborati diversi progetti e messi in atto vari esperimenti di colonizzazione, non sempre riusciti, in paesi del Sud America che, fin dall’Ottocento, quale più e quale meno, erano stati interessati da flussi migratori dall’Italia. Era stato lo stesso Duce, in tale contesto, ad affidare al vecchio amico e confidente Ottavio Dinale, giornalista del «Popolo d’Italia», ex anarco-sindacalista spedito a Buenos Aires per organizzare i Fasci di combattimento, l’incarico di fondare nell’alta Patagonia, con progetti finanziati da capitale pubblico e privato italiano, colonie agricole dove poter trasferire famiglie di ex combattenti (Nota 1). Il fascismo degli esordi, è ormai chiaro, non aveva una propria politica migratoria ma dovette subito misurarsi con il problema (Nota 2). Andò avanti, a lungo, in sostanziale continuità con i governi liberali, affidandosi al Commissariato generale per l’emigrazione (Cge) governato da una forte personalità come quella di Giuseppe De Michelis. Ancora alla fine del 1925 – ed erano passati ben tre anni dalla marcia su Roma – Mussolini sembrava rassegnato all’ineluttabilità del fenomeno (Nota 3) e riteneva che l’emigrazione fosse «una necessità del popolo italiano» per contenere l’esuberanza demografica, pur consapevole che privasse il paese di elementi attivi (Nota 4). Quantunque il Duce, nell’ambito di un’emigrazione «tutelata», rivendicasse al suo governo di avere portato «al massimo grado la conversione di espatri disordinati di masse sfiduciate, in consapevoli spostamenti di energie produttive, strumento di valorizzazione nazionale» (Nota 5), tra il 1922 e 1928 il regime attuò una cosiddetta politica «a vista», a conferma del rapporto ambiguo con l’emigrazione (Nota 6). Si prendevano, insomma, decisioni estemporanee, a volte umorali e spesso contraddittorie, stabilendo accordi caso per caso.
Le rotte verso il Plata, in quegli anni, furono molto affollate da emissari del fascismo, personalità politiche, militari e diplomatici che viaggiarono nei paesi latino-americani per studiare ipotesi e proporre progetti di colonizzazione. Per molti di loro l’obiettivo era di accrescere il prestigio dell’Italia e difendere al contempo gli interessi nazionali, come aveva spiegato De Michelis in un’intervista del 1923 al quotidiano coloniale «La Patria degli Italiani» di Buenos Aires (Nota 7). Tra essi c’era anche Ottavio Dinale (Nota 8). A lui si deve – in tandem con l’ingegner Filippo Bonoli che si occupò degli aspetti tecnico-economici del progetto – la fondazione di Villa Regina, la più italiana delle città patagoniche. Nei suoi due lunghi soggiorni in Sud America, avvenuti tra ottobre 1922 e maggio 1924, su mandato del Duce (Nota 9), Dinale si dedicò anche all’elaborazione di originali progetti di emigrazione, conservandone traccia nel proprio archivio personale. Incaricato in primo luogo della missione politica di fascistizzare la colonia italiana in Argentina – che non riuscì né a lui né ad altri come lui inviati nel corso del Ventennio – anche Dinale tentò di «fare l’America», come ottimista scriveva al figlio Neos e alla moglie Marcella Vendramin (Nota 10). Ed essendo ben nota e documentata la sua influenza su Mussolini, al quale fu a fianco con incrollabile venerazione dai tempi dell’esilio comune in Svizzera fino agli ultimi giorni della Repubblica di Salò (Nota 11) si possono spiegare alcune decisioni del Duce in materia di emigrazione, soprattutto prima della deriva totalitaria.
Sulla base di documenti del Fondo Dinale e con il supporto di notizie tratte dalla stampa d’emigrazione e dalla bibliografia sull’argomento, in questo lavoro si cercherà di ricostruire un quadro di progetti d’insediamento di famiglie italiane, specialmente di ex combattenti, in Argentina e in alcuni stati minori del Sud America, di cui in qualche modo si occupò l’amico di Mussolini. In particolare saranno utilizzati un lungo rapporto di Dinale del 16 febbraio 1924 che riguardava «le possibilità di colonizzazione in Provincia di Buenos Aires e nella Pampa» e un documento che per comodità di seguito indicheremo come «Relazione Dinale»: si tratta di cinque pagine dattiloscritte, anonime e senza data, suddivise in capitoletti, nelle quali si fa il punto sulle possibilità di colonizzazione in Uruguay, Paraguay e nell’Oriente Boliviano, regione già soggetta a sfruttamento minerario e agricolo da parte di una compagnia inglese. Visti i riferimenti all’anno di «relativa calma» seguito alla guerra civile in Paraguay terminata a metà del 1923, al viaggio in Bolivia del ministro plenipotenziario italiano residente ad Asunción compiuto nel luglio 1924 e alla costituzione nel 1923 di una cooperativa per un progetto di colonizzazione in Uruguay all’epoca in fase di attuazione, le cinque pagine furono scritte presumibilmente verso la fine del 1924.
Sulla paternità di tale relazione si possono fare soltanto delle congetture. Dovrebbe trattarsi di un documento di sintesi (articolo, capitolo per un libro, informativa?) elaborato da Dinale, magari per conto del Cge (il commissario stava preparando i volumi-resoconto della propria attività e della realtà emigratoria da consegnare a Mussolini). La presenza di riferimenti a progetti presentati al Cge deporrebbe in tal senso. Potrebbe, però, anche essere una stesura, solo in alcune parti poi utilizzata, del curatore del volume del Cge sull’emigrazione italiana dal 1910 al 1923, per qualche motivo finita tra le carte di Dinale, il quale, rientrato in Italia (giugno 1924) continuò a occuparsi di problematiche legate all’emigrazione.
La questione della paternità dello scritto, in ogni caso, è secondaria. Il documento, infatti, è importante, e solo per questo viene utilizzato, per le novità in esso contenute, utili a documentare l’interesse del governo fascista da poco arrivato al potere a promuovere l’emigrazione e a favorire la fondazione di nuove colonie non solo nelle tradizionali terre argentine e uruguayane, ma anche in realtà come il Paraguay e la Bolivia, poco o niente toccate da correnti migratorie. 

 

La Colonizzazione dell’Argentina. Il caso modello di Villa Regina

Tra i paesi d’emigrazione che pure accolsero centinaia di migliaia di emigrati, anche negli anni Venti l’Argentina continuò a essere una meta privilegiata dei flussi migratori italiani che non trovarono reali ostacoli anche perché il governo del radicale Marcelo T. de Alvear, insediatosi nell’estate del 1922, era interessato a sviluppare i rapporti con l’Italia (Nota 12). È ben noto che tra le due guerre in Argentina furono elaborate politiche agrarie tendenti a promuovere l’immigrazione mediante la colonizzazione. Come ha segnalato Alejandro E. Fernández, però, gran parte dei progetti governativi non sortirono grandi effetti. Un’occasione, tuttavia, fu rappresentata dalla riforma che assegnava al Banco Hipotecario Nacional la possibilità di concedere prestiti agli agricoltori per trasformarli in piccoli proprietari, un obiettivo che avrebbe dovuto attrarre nuovi emigranti e radicarli nella campagna ma che incontrò non pochi ostacoli nell’attuazione pratica (Nota 13).
Durante il governo Alvear (1922-1928), inoltre, nonostante un maggiore protagonismo dello Stato, lo sviluppo dei territori, come nel caso del Río Negro, fu frenato anche dalla mancata realizzazione di opere pubbliche e dalla carenza di fondi per lavori strutturali (Nota 14).
Crisi economica e restrizioni a parte, all’epoca il mito dell’Argentina come terra promessa era ancora intatto, nonostante le notizie, veri e propri «avvertimenti», fornite dal Cge e dagli stessi giornali locali sulle difficoltà che si potevano incontrare. Al grande paese sudamericano, tuttavia, si guardava per nuovi interventi di colonizzazione. Anche Ottavio Dinale era convinto che il governo italiano avrebbe dovuto porre l’Argentina al centro della sua politica estera ed emigratoria in Sud America (Nota 15). La fondazione programmata di colonie, infatti, avrebbe depotenziato l’esplosiva situazione demografica e, allo stesso tempo, dato lustro al governo di Mussolini. Quel che non rientrava in questa logica propagandistica doveva essere combattuto. In tale ottica Dinale espresse forti critiche al Cge e a quanti arrivavano dall’Italia in Argentina per quelli che giudicava improbabili programmi di colonizzazione. Si mostrò feroce, per esempio, nei confronti di un’iniziativa dell’onorevole Teofilo Petriella, deputato del Partito popolare per la circoscrizione del Sannio, esule in Argentina per sfuggire ai pestaggi squadristici. Petriella, che secondo Dinale millantava incarichi ufficiali e agiva per conto «di non si sa quali cooperative beneventane», era impegnato a fare affluire famiglie campane per sfruttare un terreno di diecimila ettari nei paraggi di Luan Toro, stazione di diramazione della ferrovia dell’Ovest (Nota 16). Il progetto che l’onorevole Petriella «ha ripetuto ovunque e lo ha dichiarato anche nei giornali» prevedeva che ogni colono dovesse avere la sua «linda casetta»: cosa che, per Dinale, rientrava «nel campo dell’assurdo e del fantastico», in quanto il parlamentare campano intendeva insediare lavoratori italiani su un terreno preso in affitto nella Pampa «all’estremità occidentale della zona coltivata», un’area dove, secondo un informatore del dirigente fascista, i cinquanta centesimi pagati di affitto per ettaro erano indice di una scadente qualità, poiché scarseggiava l’acqua e i terreni erano da disboscare (Nota 17). Nonostante l’ostilità e le perplessità di Dinale, l’onorevole Petriella riuscì a far trasferire famiglie italiane nella zona prescelta.
Nulla Dinale obiettò, invece, su un altro progetto di colonizzazione proposto dal generale Enrico Caviglia, che all’epoca aveva aderito al fascismo e godeva di ottima reputazione in Italia e tra gli italiani all’estero per la gloria di cui si era coperto nel corso della Grande Guerra come comandante di corpo d’armata. Il progetto di Caviglia, oltretutto, era stato approvato dalla Confederazione generale del lavoro, dai sindacati fascisti e da altre organizzazioni operaie (Nota 18). Dopo un suo soggiorno in Argentina dall’aprile all’ottobre 1922, il generale coinvolse nella sua impresa anche il Cge (Nota 19). Pronto già nel marzo 1923, il progetto prevedeva la costituzione di un istituto italo-sudamericano per la colonizzazione del Brasile, dell’Uruguay e dell’Argentina dove si sarebbero dovute richiedere concessioni di terre idonee alla coltivazione ai governi di quei paesi (Nota 20).
Vediamo, adesso, quali possibilità di colonizzazione Dinale aveva autonomamente individuato per l’Argentina, anche se alla fine si concentrò sulla fondazione programmata di alcune colonie nell’Alta Valle del Rio Negro, di cui una soltanto, Villa Regina, fu portata a compimento: dopo un lungo viaggio effettuato in treno tra steppa e deserto, quella regione nel nord della Patagonia gli era apparsa «con la prospettiva emozionante del paesaggio italiano», una «terra meravigliosa» che aveva nell’acqua «il segreto della feracità» (Nota 21).
Come sintesi di precedenti comunicazioni e di quello che personalmente aveva costatato in un secondo viaggio effettuato all’interno dell’Argentina nella tarda estate sudamericana del 1924, il 16 febbraio Dinale inviò un corposo rapporto per le autorità italiane (dodici pagine dattiloscritte) sulle possibilità di colonizzazione nella Provincia di Buenos Aires e nella Pampa. Più che indicare soluzioni tecniche, il documento descrive le caratteristiche produttive di quei territori, soffermandosi sugli aspetti che avrebbero potuto favorire l’immigrazione italiana, e fornisce chiare indicazioni di politica migratoria per evitare che la gran parte della gente che emigrava andasse «perduta» come fino allora era accaduto. Per Dinale era necessario reagire da una parte alla passività economica argentina, che chiudeva gli occhi sulla «qualità» degli emigrati poiché erano utilizzati in attività agricole arretrate, e dall’altra alla tradizione italiana poco attenta al reale destino dei suoi cittadini e che lasciava partire «la sua forza lavoro, preoccupandosi soltanto, senza pur tuttavia raggiungere effettivamente lo scopo, di provvedimenti di polizia e di assistenza, e di studi sociali e statistici».
A giudizio dell’esponente fascista, a ogni modo, in tutta l’Argentina vi era «tanto da fare nei riguardi di una emigrazione ben selezionata, ben diretta, convenientemente finanziata». Le sue valutazioni finali, fatte «con anima e cuore di italiano appassionato» e rivolte a «chi può e deve», affinché «intenda e provveda», costituivano un pressante invito a «passare all’azione, alacremente, fiduciosamente, capitalisticamente, al di sopra e oltre le accascianti lungaggini burocratiche» (Nota 22). Per Dinale, stare a guardare, studiare e ponderare mentre gli altri paesi si davano da fare – la critica al Cge, che in Argentina era considerato inutile e soprattutto un «guasta mestieri» (Nota 23), è abbastanza chiara – poteva far perdere un’occasione unica, viste le favorevoli circostanze sia economiche, sia politiche esistenti in quel momento. 
Nella sua «ricognizione», Dinale visitò terre e città, incontrò emigranti e amministratori locali. «Scoprì» che nella provincia di Buenos Aires, nella vasta pianura che attraversò lungo la linea del quinto meridiano, vigevano criteri di una «primitiva economia agricola» che spiegavano l’instabilità del colono facendone di fatto una «golondrina», una rondinella vagante che non riusciva mai a migliorare la propria condizione di vita. A Bardano, visitò famiglie italiane e annotò che ogni colono impiegava due-tre braccianti più i «peones» per i lavori eccezionali. Da Miray Pampa si recò nella Pampa Centrale, buona per la coltivazione a est e con terreni ingrati a ovest. Questa terra era sempre più popolata da italiani, «i quali compiono dei veri e propri miracoli di tenacia, di sforzi per correggere la natura del terreno». Poi raggiunse General Picco, quindicimila abitanti, spingendosi fino a Trenel, un piccolo centro appena elevato a comune, situato nella cosiddetta «Pampa Húmeda Argentina» e germogliato accanto alla colonia della Compagnia Devoto, lì vicino proprietaria di 500 mila ettari di terra divisa in lotti sempre più piccoli, molti dei quali gestiti da famiglie italiane. E da lì andò a Toledo, cinque ore da La Plata, per visitare alcune aziende agricole. Rientrò a Buenos Aires convinto che l’emigrazione italiana avrebbe dovuto essere «accompagnata».
L’attività di Dinale, negli ultimi mesi di permanenza in Argentina, divenne febbrile. Mentre andava avanti quello che può essere considerato un «capolavoro» – la fondazione di una colonia nel nord della Patagonia di cui ci occuperemo più avanti – Dinale si diede da fare con programmi di colonizzazione ovunque si prospettassero condizioni favorevoli. Il 18 marzo 1924 si trovava così a Colonia Alvear, nei pressi di Mendoza, dove incontrò il sindaco e un folto gruppo di italiani, per illustrare «il programma del Governo Italiano nei riguardi de l’emigrazione» e verificare la possibilità di farvi affluire duecento famiglie italiane. Al termine di un’assemblea svoltasi all’Hotel de Paris trovò tutti d’accordo sul fatto che la realizzazione del progetto illustrato costituisse «un sicuro elemento di ricchezza per i venienti e di prosperità generale per Colonia Alvear» e tutti convennero, in maniera entusiastica, sulla prospettiva di aumentare la presenza italiana nella colonia: clima e produttività della terra costituivano la garanzia di futuro per i nuovi emigrati (Nota 24). In seguito non se ne fece nulla, sebbene l’amministratore della Sociedad anonima «Colonia Alvear» avesse tentato di convincere Dinale della bontà dell’operazione, prospettata come più conveniente di quella da avviare in Rio Negro (Nota 25).
Un’altra idea, che non ebbe alcun seguito, era stata quella di convogliare coloni italiani anche nella valle inferiore del Rio Negro dove, come gli assicurava un proprio corrispondente, c’era possibilità di lavoro nella viticoltura e nella coltivazione della barbabietola da zucchero (Nota 26).
Il successo, sempre rivendicato da Dinale (Nota 27), resta comunque la fondazione di Colonia Regina Pacini de Alvear, oggi Villa Regina, da lui progettata con l’ingegner Filippo Bonoli (Nota 28) e realizzata nell’alta valle del Rio Negro dalla Compagnia italo-argentina di colonizzazione (Ciac), costituita con capitali italiani.
Dinale e Bonoli, in verità, avevano elaborato un primo progetto di massima per la costituzione di una «Sociedad Colonizadora Italo-Argentina del Rio Negro» con l’obiettivo di fondare due colonie, poco distanti una dall’altra. La prima, su diecimila ettari di terreni strappati al deserto e ben irrigabili tra la stazione Chichinales, al chilometro 1.094, e la stazione situata al chilometro 1.120, avrebbe dovuto chiamarsi «Vittorio Veneto». La seconda, invece, con un fronte sul fiume di dieci chilometri, nei pressi della stazione di Chimpay, su un terreno di oltre undicimila ettari che il proprietario era pronto a cedere, avrebbe dovuto essere chiamata «Monte Grappa»(Nota 29). Soltanto la prima vide la luce, assumendo però il nome di Colonia Regina Pacini de Alvear, in omaggio alla moglie del presidente della Repubblica, Torcuato T. de Alvear, il quale il 7 novembre 1924 autorizzò la registrazione della Ciac che, statutariamente, aveva l’impegno «socialisteggiante» di dare – in verità di vendere – la terra a chi la lavorava. Quel progetto ben s’inseriva nell’obiettivo del governo radicale di popolare il deserto con agricoltori proprietari di piccoli appezzamenti di terra mediante il frazionamento della grande proprietà (Nota 30).
Il nuovo insediamento rurale già al 31 dicembre 1924 era stato «popolato» da quaranta pionieri italiani. Alla fine dell’anno successivo erano presenti ottantasette famiglie italiane, sette spagnole e quattro argentine. In pochi anni arrivarono 426 famiglie contadine, al novanta per cento italiane. A ognuna di esse veniva assegnata una chacra da coltivare e una casa colonica di due o quattro stanze in base al nucleo familiare. Parallelamente sorgeva il centro abitato, lindo e ordinato e ammirato dai primi visitatori, con gli uffici della Ciac, case di artigiani e di professionisti, chiesa, scuola, servizi sanitari, stazione ferroviaria.
Colonia Regina, città di fondazione voluta dallo stesso Mussolini (per questo può essere considerata la prima delle cosiddette «Città del Duce»), rappresenta un «modello» fascista di emigrazione pianificata utilizzato negli anni successivi in Italia e nelle colonie africane. Feudo fascista, governata con pugno duro dagli uomini della Ciac, la città ebbe uno sviluppo straordinario ma non tranquillo. Per alcune eccezionali avversità climatiche e per la crisi mondiale del 1929, molte famiglie immigrate, “strozzate” dalla Ciac e dalle banche rischiarono di perdere la terra, le case e la fatica e soltanto negli anni Cinquanta ebbero i titoli di proprietà.
Se la fondazione di Villa Regina restò un esperimento isolato nei casi di emigrazione economica che hanno riguardato migranti italiani, tuttavia, nel subcontinente americano si registrò un attivismo frenetico che guardava non solo all’Argentina ma anche ad altri paesi che avrebbero potuto assorbire manodopera italiana.
Lo testimonia il secondo documento preso in considerazione in questo lavoro. La «Relazione Dinale», come abbiamo visto, allargò l’attenzione alle possibilità di instradare nuovi emigrati in Uruguay, Paraguay e Bolivia, sebbene tutti e tre i paesi, chi per un motivo e chi per un altro, mostrassero fattori avversi che di fatto resero vano ogni sforzo, ogni intenzione e ogni programma. 
Le vere novità, tra le destinazioni ipotizzate in tale rapporto, erano rappresentate da Paraguay e Bolivia fino ad allora sostanzialmente ignorate dall’emigrazione italiana per motivi oggettivi – distanze, instabilità sociale e politica, sicurezza – in pratica tutti confermati. Scoraggianti, sebbene per motivi economici, si presentavano pure i tentativi di nuove colonizzazioni in Uruguay, dove la comunità italiana era la più numerosa, molto ben inserita e in gran parte già assimilata.
Vediamo nel dettaglio le varie situazioni prospettate, mantenendo, anche se non nello stesso ordine, la suddivisione e i titoli dei paragrafi della «Relazione Dinale».

 

La colonizzazione nel Paraguay

Incuneato tra Brasile, Argentina e Bolivia, il Paraguay non è mai stato una meta ambita per l’emigrante italiano (Nota 31). In pochi, infatti, anche al tempo dei grandi flussi migratori verso il Plata, si spinsero in quel territorio (Nota 32), spesso in preda a convulsioni politiche e militari, a rivoluzioni interne e cruente guerre, a cominciare da quella sostenuta tra il 1865 e il 1870 contro la potente Triplice alleanza, coalizione formata da Argentina, Brasile e Uruguay, nella quale il Paraguay perse i due terzi della propria popolazione maschile adulta. Ancora tra il 1922 e il 1923 infuriò una guerra civile durata quattordici mesi (Nota 33) che lasciò il paese «spossato e profondamente disorganizzato», preda di un’instabilità che scoraggiava l’affluenza sistematica e programmata di lavoratori italiani. Una colonizzazione del Paraguay, dunque, era sconsigliabile. Alcune righe della «Relazione Dinale» compaiono anche nel volume del Cge sugli italiani nel mondo fino al 1923, pubblicato tuttavia solo nel 1926: 

pur avendo in questo anno di relativa calma, dato segni manifesti di una graduale ripresa nella vita economica agricola e commerciale rimane sempre un Paese nel quale non è possibile trasportare masse di agricoltori senza predisporvi una forte organizzazione tecnica e finanziaria che consenta con i suoi mezzi la vita ai nostri connazionali.

Sebbene «fertile e promettente», insomma, il Paraguay non era e non poteva essere subito in condizioni di ricevere flussi migratori. Il Cge lo considerava addirittura inospitale.
Nonostante tutto al Cge arrivavano diversi progetti di colonizzazione. Nella «Relazione Dinale», per esempio, viene ricordato quello di un certo dottor Lauti, non meglio indicato, il quale una decina d’anni prima aveva visionato un terreno in cui poter insediare una colonia e adesso, in una «non breve» relazione fatta nell’ipotesi di un ventilato accordo italo-paraguayano, esponeva le proprie idee per una emigrazione programmata e pianificata, in cooperazione col governo di Asunción. L’insediamento era previsto in «terre non boscose e in prossimità del Río Paraguay» che la legge concedeva quasi gratuitamente, ma era subordinato agli interventi del governo locale che avrebbe dovuto in via preventiva «provvedere alla costruzione delle case, delle vie di comunicazione, e all’adattamento delle rive per la possibilità di approdo». L’idea del dottor Lauti di un’emigrazione pianificata e protetta, poteva anche piacere a Dinale, il quale già aveva in cantiere il progetto di Villa Regina che poggiava su un’emigrazione organizzata, ma le condizioni generali del paese non erano per nulla incoraggianti. Il progetto non fu preso in considerazione. Bocciato perché inattuabile.
Qualche iniziativa privata, comunque, era pure possibile, come annota la «Relazione Dinale». Un esempio era rappresentato dal nucleo rurale a cui aveva dato vita un «signor Stipanovich» – già da anni insediati in Paraguay, gli Stipanovich erano attivi commercianti – il quale si era stabilito con la famiglia e alcuni lavoratori indigeni, nel Gran Paraguay (nel testo Gran Paraguayno), accanto al fiume Confuso, non lontano dalla capitale Asunción. Stipanovich aveva acquistato un terreno «più o meno vergine» e si proponeva di sfruttarlo dapprima col taglio del legname (attività molto fiorente in vaste aree del paese) e in seguito mediante colture varie. Per l’autore della «segnalazione» l’iniziativa era «degna di lode» e da incoraggiare. Non si poteva parlare ancora di una colonia – avvertiva – ma al massimo di una fattoria, di una estancia. Farvi affluire emigrati dall’Italia era però un argomento fuori discussione. Tanto che il marchese Francesco Medici di Marignano, ministro d’Italia ad Asunción dal 1922 al 1926, dopo avere esplorato il paese in cui era accreditato come inviato straordinario e ministro plenipotenziario, gettò lo sguardo oltre confine, per verificare le possibilità di colonizzazione in Bolivia.

 

Impresa di colonizzazione nell’Oriente Boliviano

Il paese andino non è stato mai interessato da reali correnti migratorie provenienti dall’Italia. Un po’ per le difficoltà ad accedervi – assieme a Ecuador e Perù, la Bolivia è conosciuta come una delle «repubbliche impervie» (Nota 34) – e un po’ per l’instabilità politica e la conseguente insicurezza determinata da ripetute rivolte e colpi di stato. «Al di fuori di una diffusa strategia migratoria», tuttavia, già dall’Ottocento, diversi Italiani avevano dato vita a floride attività commerciali e industriali (Nota 35), ma la presenza italiana nel paese era stata sempre numericamente insignificante. Quali possibilità nuove per attrarre consistenti flussi migratori potevano esserci nella prima metà degli anni Venti?
Secondo quanto riporta la «Relazione Dinale», il marchese Medici presentò una «importantissima relazione» su un «interessante viaggio nell’Oriente Boliviano» (Nota 36) iniziato il 1° luglio 1924 a bordo del piccolo rimorchiatore «Floriano Peixoto», partito dal piccolo porto brasiliano di Corumbà, a tre chilometri dalla frontiera boliviana. Lì, situato ai margini del Rio Paraguay, aveva sede un modesto cantiere fluviale «Irmãos Puccini & Cia» che, come il rimorchiatore, apparteneva a tre italiani, il salernitano Nicola Buonocore e due fratelli originari dell’Isola d’Elba, Ernesto e Andrea Puccini: quest’ultimo, sulla base del racconto del fratello, curò il Memoriale di una spedizione boliviana che portò alla scoperta di un nuovo fiume a cui in seguito fu dato il nome «Rio Puccini», ma che fu senza esiti per quel che riguarda l’afflusso di nuovi italiani nel paese (Nota 37).
Il viaggio di ricognizione fu organizzato dall’ingegner Villos Faughan, direttore del sindacato britannico B. I. & L., che aveva ottenuto in concessione un territorio vasto circa un milione di ettari dove già aveva avviato attività di sfruttamento minerario e agricolo. Nei suoi programmi immediati il sindacato britannico intendeva sviluppare anche l’industria del legname e realizzare una linea di navigazione internazionale. Per fare tutto questo c’era bisogno di molti lavoratori e il marchese Medici, invitato da Faughan e signora con i quali s’imbarcò sul rimorchiatore, era interessato a fare affluire coloni italiani anche in Bolivia, paese di cui si occupava in assenza di un rappresentante italiano presso il governo de La Paz (solo il 27 luglio si insediò Fortunato Castoldi come inviato straordinario e ministro plenipotenziario).
In territorio boliviano, sulla costa del lago Mondioré, per conto suo l’impresa «Irmãos Puccini & Cia» aveva impiantato una segheria in società con l’italiano Angelo Moscaro, proprietario di circa 80 mila ettari di bosco. Attorno alla segheria erano state costruite numerose casette di legno per i dipendenti. Era possibile rafforzare l’esigua presenza di italiani nel paese per fornire manodopera all’azienda britannica assecondando così i suoi programmi di espansione? Medici affrontò il viaggio in terre inesplorate, allo scopo di verificarne la possibilità, magari al traino della B. I. & L, nella speranza che lo sviluppo dell’impresa inglese portasse a un «vasto reclutamento» di lavoratori italiani. Rientrato ad Asunción, pur convinto che ci fossero favorevoli condizioni, il regio ministro «diplomaticamente» se ne lavò le mani. In un rapporto a Roma, infatti, si limitò esclusivamente, spiega la «Relazione Dinale», a richiamare l’attenzione del governo e del Commissariato dell’emigrazione, proponendo «l’invio di una missione di esperti sui luoghi, nei quali dovrà attuarsi la colonizzazione, per accertare – dal punto di vista italiano – la esistenza o meno delle favorevoli condizioni apparse al R. Ministro durante il suo viaggio».
Non ci furono sviluppi, sebbene le prospettive sembrassero ben diverse anche in seguito alla tappa boliviana dell’ambasceria speciale del governo Mussolini nei paesi del Sud America, guidata da Giovanni Giuriati. Giunto in Cile con la nave Italia che aveva già toccato molti porti atlantici, il 16 luglio il gerarca fascista raggiunse La Paz in treno, incontrò il capo dello stato Bautista Saavedra e «nei brindisi di circostanza, […] espresse la certezza di un futuro importante per l’emigrazione italiana in Bolivia» (Nota 38). Cosa che poi non si verificò. In Bolivia arrivò qualche imprenditore che fu baciato da successo, come Enrico Camillo Leon De Cefis nel 1926 e Vittorio Aloisio Molinari due anni dopo (Nota 39), ma al censimento del 1928 gli italiani in tutto il paese erano soltanto 310 (dieci in più rispetto al 1884, anno a cui risale il primo dato disponibile) e per metà religiosi impegnati nelle missioni. Essi rappresentavano, tuttavia, la terza comunità straniera dopo i 465 spagnoli e i 380 tedeschi (Nota 40).
Molti anni dopo, nel 1940, l’ingegner Filippo Bonoli, fondatore con Dinale di Villa Regina ed estimatore del fascismo, fu nominato presidente della «Socobo», società per la colonizzazione in Bolivia, e nelle vicinanze de La Paz impiantò una colonia agricola per la coltivazione di prodotti subtropicali. Lo fece per conto di una società nordamericana e non si ha notizia se i coloni fossero italiani o meno.

 

La colonizzazione nell’Uruguay

Quali nuove opportunità poteva offrire, invece, la Repubblica orientale dell’Uruguay da sempre «generosa» nell’accoglienza di Italiani?           (Nota 41). E con quali modalità e condizioni altri immigrati potevano ancora insediarsi?
Il momento non era certo dei più incoraggianti, specialmente per la crisi economica che investiva il paese, anche se il governo uruguayano generalmente si mostrava molto aperto nei confronti dell’emigrazione di manodopera salariata italiana, nella prospettiva di mettere a sviluppo intensivo aree smisurate di territorio destinate fino ad allora alla pastorizia. A ogni modo, furono elaborati progetti per assegnare ai coloni italiani terre a riscatto, da incentivare anche con un prestito iniziale del Banco della Repubblica. Tali progetti però non trovarono concreta attuazione, poiché si scontravano con i contingenti problemi finanziari del paese.
Pur tuttavia, anche in assenza di garanzie governative e in attesa che maturassero condizioni decisamente favorevoli per l’afflusso di masse consistenti di lavoratori nelle sconfinate aree interne possedute da pochi latifondisti, la colonizzazione italiana nell’Uruguay si affidò allo spontaneismo e all’iniziativa privata.
La «Relazione Dinale», con identiche frasi del volume del Cge sull’emigrazione dal 1910 al 1923, pubblicato nel 1926, riferisce di un esperimento da parte di un gruppo di coloni friulani per impiantare una colonia rurale a Villasboas (Nota 42), una contrada situata nel dipartimento di Durazno, a circa quaranta chilometri a nord della città capitale, nei pressi di una stazione ferroviaria omonima, che prende il nome da un piccolo fiume che scorre nelle vicinanze e da una collina. Nelle vicinanze esiste ancora un piccolo e isolato complesso abitativo che potrebbe essere stato fondato proprio da quel gruppo di emigrati. «Fino agli anni ’70 – rammenta Ruben Tunin, nipote di Ugo, uno dei fondatori – ancora si vedevano i ruderi dei depositi costruiti dai nonni, oggi non c’è niente» (Nota 43).
È una storia dai contorni ancora molto incerti. A questo esperimento di colonizzazione privata si riferiscono, tuttavia, le pur vaghe testimonianze di Ruben Tunin, Gilverto Pecorari, Ruggero Tofful, figli e nipoti di coloni, raccolte per il Progetto Ammer promosso dalla Regione Friuli Venezia-Giulia. Un gruppo di quindici famiglie, persone che avevano venduto tutto per acquistare i biglietti d’imbarco, partì da Trieste con la nave Belvedere. A tale «scaglione di emigrati» sembra fare riferimento in più occasioni nel 1924 il «Bollettino dell’emigrazione», dopo che in diversi giornali era apparsa la notizia del loro arrivo a Montevideo senza alcuna sicurezza di lavoro (Nota 44). Il console uruguayano di Trieste, in effetti, aveva convinto quelle famiglie a emigrare promettendo mari e monti, assicurando loro che avrebbero trovato da parte del suo governo assistenza, facilitazioni di ogni sorta e, soprattutto, occupazione immediata. Le autorità italiane, che sconsigliavano però di andare in Uruguay perché la crisi del paese non poteva assicurare condizioni favorevoli, tentarono di dissuadere i capifamiglia, avvertendoli dei rischi cui andavano incontro e spiegando quello che era il convincimento del Commissariato per l’emigrazione, cioè che il governo uruguayano era «sollecito a promettere ma tardo a mantenere» (Nota 45). Incuranti dei pericoli da affrontare i capifamiglia (che firmarono una dichiarazione in tal senso) partirono ugualmente.
Tra le famiglie che lasciarono il Friuli convinti dalla propaganda del console uruguayano c’erano i Pecorari e i Battistin di San Lorenzo Isontino; i Tofful e i Tunin di Moraro in provincia di Gorizia; i Perco di Fogliano Redipuglia e i Vecchiet di Trieste. Qualcuno andava in Uruguay esclusivamente per motivi economici, altri perché temevano una nuova guerra in Europa. Contrariamente al previsto, al loro arrivo furono accolti e sistemati in un ricovero a spese del governo uruguayano che era stato subito allertato dal ministro d’Italia a Montevideo. Forse solo dopo la loro sistemazione provvisoria si concretizzò l’idea di fondare una colonia nel territorio a nord di Durazno.
Sta di fatto che i coloni friulani – come nota la «Relazione Dinale» – stipularono «un contratto di compravendita col Signor Lazzaro Curbendo, uruguayo, proprietario di una frazione di campo di 559 ettari catastata col numero 479, e sita nella seconda sezione giudiziaria del Dipartimento di Durazno», proponendosi di gestire direttamente il terreno acquistato, «con l’intervento del “Banco Hipotecario” dell’Uruguay e del Ministero dell’Agricultura, che, in via eccezionale, ha anche provveduto ai primi mezzi di sussistenza ed ai letti per l’alloggio dei coloni»  (Nota 46). Sia il documento dattiloscritto, sia il volume del Cge, poi ricordano:

Il R. Ministro di Montevideo ha fatto delle riserve sulle clausole del contratto di compravendita, le quali, a suo avviso, non danno ai nostri connazionali affidamento sufficiente per l’avvenire e non risolvono la questione, che tanto ci sta a cuore, di rendere possibile una corrente emigratoria italiana nell’Uruguay.

L’esperimento di Villasboas, riserve o meno del diplomatico, nel 1924 era comunque in attuazione. Dopo due mesi trascorsi a Montevideo, undici famiglie arrivate con la Belvedere furono trasferite in treno a Durazno e da lì, su carri trainati da buoi, nella zona da colonizzare dove trovarono un terreno «nudo e di difficile utilizzo per la semina». Gli attrezzi per lavorare furono loro prestati da famiglie vicine (Nota 47).
Tra enormi sacrifici, i coloni italiani tentarono ugualmente l’avventura. Le donne e i bambini si stabilirono nella struttura della Società rurale di Durazno. Gli uomini, invece, iniziarono i lavori, delimitando i lotti, segnando i canali d’irrigazione. Si costruirono casette di legno, paglia, canne di bambù e fango con l’aiuto di alcuni lavoratori reclutati allo scopo. Un commerciante, almacenero, diede loro alcune mucche da latte; inoltre – racconta Gilverto Pecorari – per approvvigionarsi di carne davano la caccia alle «mulitas (armadilli, nda), che inizialmente avevano scambiato per topi», e agli struzzi, che catturavano con difficoltà,per avere anche uova e piume. L’isolamento della colonia e la lontananza dai mercati per la vendita di mais, zucche e verdure, resero tutto ancora più difficile. I raccolti, secondo le testimonianze, non furono eccezionali. Saldati i debiti con i fornitori, quel che rimase bastò a malapena per la sopravvivenza dei coloni (Nota 48). L’esperimento di colonizzazione si chiuse in un paio d’anni con un fallimento. I coloni si dispersero nei dintorni e a Montevideo senza lasciare molte tracce. Poi sulla vicenda è calato un lungo oblio (Nota 49).
La «Relazione Dinale», senza esprimere alcuna valutazione sulla sua fattibilità, segnala infine un ben più complesso e vasto piano di colonizzazione in Uruguay di cui nel 1923 si fece promotore il perito agronomo Renzo Canali (o Casali) di Modena. Tramite una «Società anonima geografica italiana di colonizzazione», l’agronomo modenese intendeva acquistare terreni sui quali «dirigervi poi l’emigrazione rurale dell’Emilia, della Romagna e delle Marche». Sta di fatto che «il promotore chiese l’appoggio morale delle nostre Autorità governative e consolari ed il sostenimento delle spese necessarie (viaggi e mantenimento) per stabilire in antecedenza la località in cui fissare la colonia e per stabilire con lo stato dell’Uruguay e degli enti finanziari tutti gli accordi necessari». Pur avendo assicurato che la Società, in futuro, avrebbe restituito tali spese allo Stato, non ci sono notizie che il progetto abbia avuto sviluppo alcuno. 

 

Considerazioni conclusive

L’Italia della Marcia su Roma, in linea con le eredità culturali del nazionalismo, aborriva la sola idea che gli italiani si disperdessero per il mondo. Ma, senza contare la vicenda dei tanti fuoriusciti che ripararono nella regione del Plata, gli episodi di cui ci siamo occupati confermano la doppiezza dell’atteggiamento del governo di Mussolini in tema di emigrazione. Da una parte, infatti, il fascismo giunto al potere quando i varchi alle frontiere di grandi paesi d’emigrazione erano sostanzialmente chiusi (Nota 50), giudicava intollerabile l’immagine di masse di lavoratori che lasciavano l’Italia (Nota 51), ma dall’altra era obbligato ad assistere impotente al fiotto migratorio. Non avendo strumenti per regolare l’esplosivo mercato del lavoro interno aggravato dalla smobilitazione dell’esercito, infatti, il governo fascista non ostacolò e in qualche caso, anzi, incoraggiò iniziative volte a fondare colonie per emigrati italiani, specialmente reduci di guerra, in diversi paesi del Sud America, oppure a popolarne di già esistenti con l’afflusso di famiglie contadine da diverse regioni.
I progetti di colonizzazione realizzati, falliti o semplicemente pensati di cui in ruoli diversi ebbe a occuparsi Ottavio Dinale, confermano che la politica migratoria del fascismo degli esordi, in questo senso, non si discostava dal passato, pur ponendosi il problema di una reale tutela degli italiani in qualsiasi parte del mondo. Il capo del governo in un discorso pronunciato nel 1923 alla Scuola Normale Femminile «Carlo Tenca» di Milano, infatti, sostenne:

Non è possibile disinteressarsi di coloro che attraversano le montagne e si dirigono dall’altro lato dell’Oceano: non è possibile disinteressarsi di loro perché sono uomini, lavoratori e soprattutto italiani. Ovunque ci siano italiani là è la bandiera tricolore, là è la Patria, là è la difesa da parte del governo per questi italiani (Nota 52).

Seppure queste parole rappresentino una copertura ideologica a un atteggiamento non proprio aderente ai principi, l’impatto con la realtà del disastro economico e sociale del dopoguerra difficile da governare, costrinse a fare scelte molto più pragmatiche e il governo non si fece scrupoli nell’alimentare nuovi flussi migratori.Come dimostrano gli episodi di cui ci siamo occupati, tuttavia, sebbene confusa e senza reali innovazioni, la politica migratoria fascista guardava al di là dei tradizionali territori di accoglienza dell’America Latina. Fino a quando la politica delle porte chiuse non ebbe il sopravvento e il governo fascista non cominciò a centellinare la concessione di passaporti.

 
 
NOTE:
 
Nota 1 P. Sergi, Un modelo fascista de emigración italiana en Argentina. Así nació Villa Regina (Alto Valle del Río Negro), in «Estudios Migratorios Latinoamericanos», 72 (2012), pp. 187-221. Torna al testo

Nota 2 Già il 16 novembre 1922 Mussolini ne parlò alla Camera. «La nostra politica migratoria – disse ­– deve svincolarsi da quell’eccessivo paternalismo che l’ha caratterizzata fino ad oggi» e assicurò che il cittadino italiano «è saldamente tutelato dai rappresentanti della Nazione all’estero»: cfr. Il Governo e gli italiani emigrati, in «Fanfulla» (San Paolo), 18 novembre 1922; si veda anche Il nuovo governo e il problema dell’emigrazione, in «Fanfulla», 15 novembre 1922. Torna al testo

Nota 3 L’Emigrazione italiana negli anni 1924 e 1925, Commissariato Generale per l’Emigrazione, Roma 1926, p. VIII. Torna al testo

Nota 4 B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, La Fenice, Firenze 1956, p. 29. Torna al testo

Nota 5 L’Emigrazione italiana negli anni 1924 e 1925, cit. Torna al testo

Nota 6 Per tali aspetti cfr. M. Vernassa, Note su emigrazione e fascismo: la politica “a vista” del regime (1922-1928), in «Signos Universitarios», 39 (2003), pp. 107-134. Più in generale, esiste una ricca bibliografia sugli atteggiamenti del fascismo nei confronti dell’emigrazione; cfr. A. Nobile, Politica migratoria e vicende dell’emigrazione durante il fascismo, in «Il Ponte», 11-12 (1974), pp. 1322-1341; O. Bianchi, Fascismo ed emigrazione, in V. Blengino, E. Franzina, A. Pepe (a cura di), La riscoperta delle Americhe. Lavoratori e sindacato nell’emigrazione italiana in America Latina, 1870-1970, Teti, Milano 1994, pp. 96-114; M. Pretelli, Il fascismo e gli italiani all’estero, Clueb, Bologna 2010; E. Franzina, M. Sanfilippo, (a cura di), Il fascismo e gli emigrati. La parabola dei Fasci italiani all’estero (1920-1943), Laterza, Roma-Bari 2003. Torna al testo

Nota 7 R. Sacchetti, La politica dell’emigrazione dell’indirizzo [sic] del nuovo governo, in «La Patria degli Italiani» (Buenos Aires), 27 febbraio 1923. Torna al testo 

Nota 8 Per un profilo di Dinale, si veda D. Fabiano,Ottavio Dinale, in Dizionario Biografico degli Italiani (http://www.treccani.it/enciclopedia/ottavio-dinale_(Dizionario-Biografico)/). Una breve e lacunosa biografia di cui sarebbe autore lo stesso Dinale si trova in Archivio Fondazione Ugo Spirito, Fondo Ottavio Dinale, scatola 2, Curriculum vitae di Ottavio Dinale. Il Fondo è stato consultato prima del riordino, per cui le segnature archivistiche sono puramente indicative. Lettere e documenti riguardanti Dinale, se non altrimenti citati, appartengono al suddetto fondo. Torna al testo

Nota 9 Rappresentante del fascismo nell’America del Sud, in «La Patria degli Italiani», 30 novembre 1923. Torna al testo

Nota 10 Dinale al figlio Neos, da bordo del «Cesare Battisti», 12 maggio 1923; Dinale ai familiari, Buenos Aires, 30 marzo 1924. Torna al testo

Nota 11 O. Dinale, Quarant’anni di colloqui con lui, Ciarroca, Milano 1953. Torna al testo

Nota 12 Sulle relazioni tra Italia e Argentina si veda: M. Mugnaini, L’America latina e Mussolini. Brasile e Argentina nella politica estera italiana (1919-1943),Franco Angeli, Milano 2008. Torna al testo

Nota 13 A. E. Fernández, Inmigración y pequeña propiedad agrícola en la Argentina de entreguerras: continuidades y límites de una política estatal, in «Estudios Migratorios latinoamericanos», 53 (2004), pp. 97-119. Torna al testo

Nota 14 M. Ruffini, Estado y política agraria en la frontera sur argentina: el territorio nacional de Río Negro (1916-1930), in «Estudios Fronterizos» (Mexico), 19 (2009), p. 100. Torna al testo

Nota 15 Amedeo Fani, altro «inviato» dei Fasci, anni dopo si disse convinto che con una politica più accorta dei governi italiani l’Argentina sarebbe stata una roccaforte italiana. Cfr. M. Sanfilippo, Il fascismo, gli emigranti italiani e l’America Latina. A proposito di un libro recente, in «Studi Emigrazione», 163 (2006), pp. 759-770. Torna al testo

Nota 16 Teofilo Petriella nacque nel 1878 a Circello, nel Beneventano. Emigrato poco più che ventenne negli Stati Uniti alla fine del 1900 svolse attività giornalistica e politica. Socialista nell’anteguerra, nel 1921 fu eletto deputato del Partito popolare. A Napoli diresse il quotidiano «Le battaglie del Mezzogiorno». Nell’estate 1923 riparò in Argentina. Il 25 maggio 1925 fu ucciso da un nipote a Luan Toro. Torna al testo

Nota 17 Relazione di Ottavio Dinale Le possibilità di colonizzazione in Provincia di Buenos Aires e nella Pampa, 16 febbraio 1924. Torna al testo

Nota 18 E. Caviglia, L’emigrazione italiana nel Sud America, Poligrafico dell’amministrazione della guerra, Roma 1923. Caviglia era anche ingegnere, esperto di bonifica agraria. Quando comandava il distretto militare di Catanzaro, pubblicò i saggi Bonifica di Santa Eufemia, estratto da «Giornale dei lavori pubblici e delle SS. FF.», XXX, 35-36, Tip. dell’Unione cooperativa, Roma 1903, e La sistemazione della Calabria, in «Nuova Antologia», 119 (1905), pp. 449-464, in cui chiedeva «l’esproprio dei latifondisti assenteisti, la sistemazione delle pendici boscose e dei corsi d’acqua, la bonifica delle zone paludose e malariche»: cfr. G. Rochat, Enrico Caviglia, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 23, 1979 (http://www.treccani.it/enciclopedia/enrico-caviglia_(Dizionario-Biografico)/). Torna al testo

Nota 19 Progetti di colonizzazione italiana in America, in «La Patria degli Italiani», 6 marzo 1923. Torna al testo

Nota 20 l progetto Caviglia per l’emigrazione in Brasile, Uruguay e Argentina, in «Fanfulla», 10 marzo 1923. Sull’argomento cfr. F. Zega, “Italiani alta la testa!”. La presenza del fascismo a São Paulo (1920-1940), tesi di Dottorato in Studi Americani, XXI ciclo, Università di Roma Tre, a.a. 2007-08. Torna al testo

Nota 21 O. Dinale, Dalla Valle Superiore del Rio Negro. Paesaggio italiano. I miracoli dell’acqua, in «Il Popolo d’Italia», febbraio 1923, ritaglio s.d. Torna al testo

Nota 22 Relazione di Ottavio Dinale Le possibilità di colonizzazione, cit. Torna al testo

Nota 23 Emigrazione e burocrazia. Il movimento migratorio in Argentina, in Almanacco de La Patria degli Italiani, 1923 Appia Editrice, Buenos Aires 1923, p. 430. Torna al testo

Nota 24 Documento di coloni italiani, Colonia Alvear, 18 marzo 1924. Torna al testo

Nota 25 Amministratore Sociedad Anonima «Colonia Alvear» a Dinale, Buenos Aires, 13 maggio 1924. Torna al testo

Nota 26 Attilio Pastore a Ottavio Dinale,Patagones, 9 febbraio 1923. Torna al testo

Nota 27 Il giornalista Ottavio Dinale parla de “Gl’Italiani in Argentina”, in «Giornale di Basilicata», 10-11 maggio 1930. Torna al testo

Nota 28 Filippo Bonoli nacque a Roma il 22 maggio 1883 dove si laureò in Ingegneria. In Argentina arrivò come aiutante dell’ingegner Cesare Cipolletti, ingaggiato dal governo per la sistemazione idraulica della Patagonia del nord e morto durante il viaggio. Direttore della Ciac, lasciò la compagnia e si occupò di altri progetti di colonizzazione. Morì nel 1967. Torna al testo

Nota 29 Progetto di massima per la costituzione della «Sociedad colonizadora Italo-Argentina del Rio Negro – Colonias “Vittorio Veneto” e “Monte Grappa”, Buenos Aires, maggio 1923. Torna al testo

Nota 30 Messaggio del Potere esecutivo alla presentazione del decreto di regolamento della legge 817 del 1876 sull’immigrazione e colonizzazione, Cámara de Diputados, vol. VI, Buenos Aires 1923, p. 577. Torna al testo

Nota 31 O. Bussini, R. Torresi, L’emigrazione italiana in Paraguay: una piccola ma significativa presenza, in «Altreitalie», 40 (2010), pp. 110-139. Torna al testo

Nota 32 Dal 1879 al 1925 non esistono dati disaggregati sull’emigrazione italiana in Paraguay: il dato era unico con l’Uruguay. Le stime che indicano una progressione di italiani residenti nel paese (3.000 nel 1881, 7.000 nel 1901, 9.000 nel 1911 e 5.211 nel 1924) non hanno, dunque, grande attendibilità (cfr. Commissariato Generale della Emigrazione, Annuario statistico della emigrazione italiana dal 1876 al 1925, Roma 1926, Tav. I, p. 1540). Lo stesso Cge, in contatto con il Comitato di patronato e rimpatri di Asunción, riteneva che nel 1923 la presenza italiana non superasse le 3.000 unità (Commissariato generale dell’emigrazione, L’emigrazione italiana dal 1910 al 1923, vol. II, Roma 1926, p. 369). Torna al testo

Nota 33 Cfr. L. M. Brezzo, El Paraguay a comienzos del Siglo XX (1900-1930), Editorial El Lector, Asunción 2010. Torna al testo

Nota 34 G. Chiaramonti, Perù, Ecuador e Bolivia. Le repubbliche impervie, Giunti, Firenze 1991. Torna al testo

Nota 35 L. Guarnieri Calò Carducci, L’emigrazione italiana in Bolivia dall’Unità alla fine del XX secolo: periodizzazione e caratteristiche, in «Altreitalie», 27 (2003), p. 56. Torna al testo

Nota 36 Cfr. Marchese Medici di Marignano, Sul rio Paraguay, dal lago Mandiorè al Mirim,Reale Società Geografica Italiana, Roma 1924. Torna al testo

Nota 37 Per una sintesi del memoriale: A. Puccini, La scoperta del “Rio Puccini” nel “Mato Grosso”, in «Lo scoglio» (Isola d’Elba), 49 (1997), p. 10. Torna al testo

Nota 38 L. Guarnieri Calò Carducci, L’emigrazione italiana in Bolivia, cit., p. 60. Torna al testo

Nota 39 Id., Dizionario storico-biografico degli italiani in Ecuador e in Bolivia, il Mulino, Bologna 2001, pp. 271 e 283-284. Torna al testo

Nota 40 Archivio Storico Ministero Affari Esteri (Mae), Roma, Affari Politici 1919-1930, Bolivia, b. 902, Legazione Italiana al Mae, La Paz 10 dicembre 1928. Torna al testo

Nota 41 Già negli anni Trenta dell’Ottocento un nucleo di Italiani si stabilì in Uruguay, quasi totalmente a Montevideo (F. J. Devoto, Un caso di migrazione precoce. Gli italiani in Uruguay nel secolo XIX, in L’emigrazione italiana e la formazione dell’Uruguay moderno, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1993, p. 1). Un forte impulso immigratorio di italiani si ebbe dopo il 1865: oltre 660 mila italiani dal 1830 al 1930 hanno avuto come approdo l’Uruguay. La colonia italiana era la più numerosa tra quelle straniere e la più integrata. Dal 1908 il flusso di italiani divenne quasi insignificante (cfr. P. Sergi, Destino Uruguay, vol. I, Fondazione Italia nelle Americhe, Montevideo 2011, pp. 31-40). Torna al testo

Nota 42 Nella relazione è scritto Villasbonas ma il nome giusto è Villasboas, considerato un «brasilerismo». Torna al testo

Nota 43 Archivio Multimediale della Memoria dell’Emigrazione Regionale della Regione Friuli Venezia Giulia (d’ora in poi AMMER), Testimonianza di Ruben Tunin. Torna al testo

Nota 44 Emigrazione italiana nell’Uruguay, in «Bollettino dell’emigrazione», 23 (1924), p. 220. Torna al testo

Nota 45 «Bollettino dell’emigrazione», 24 (1925), p. 684. Torna al testo

Nota 46 Con la legge 10 settembre 1923 per sviluppare la colonizzazione agricola, il Banco Hipotecario del Uruguay fu autorizzato a operare con una sezione che si sarebbe occupata di acquistare terre da lottizzare e da rivendere, consentendo ai coloni, con piccoli prestiti, di diventare proprietari della terra coltivata. Torna al testo

Nota 47 AMMER, Testimonianza di Gilverto Pecorari. Torna al testo

Nota 48 Sebbene la situazione fosse alquanto precaria, nella colonia si registrò una nascita, quella di Aurora Pecorari. Torna al testo

Nota 49 Ringrazio Walter Mattiussi che ha estrapolato le notizie sull’esperimento di colonizzazione in gran parte qui pubblicate dalle testimonianze dell’Archivio AMMER. Grazie anche a Laura Vanoli, Mario Mattiussi e Nicolasa Suarez, per le prime informazioni sui luoghi della fallita colonizzazione. Torna al testo

Nota 50 E. Franzina, La chiusura degli sbocchi migratori, in Storia della società italiana, vol. XXI, La disgregazione dello stato liberale,Teti, Milano 1982, pp. 166-189. Torna al testo

Nota 51 F. Sulpizi, Il problema dell’emigrazione dopo la rivoluzione fascista, Albrighi, Segatti e Co., Roma 1923. Torna al testo

Nota 52 B. Mussolini, Il problema dell’immigrazione, in «Il Popolo d’Italia», 1 aprile 1923, cit. in Scritti e discorsi di Benito Mussolini, vol. 3, Hoepli, Milano 1934, pp. 97-100. Torna al testo

 

Questo saggio si cita: P. Sergi, Da Villa Regina a Villasboas. Progetti di colonizzazione in Sud America negli anni del primo fascismo, in «Percorsi Storici», 1 (2013) [http://www.percorsistorici.it/numeri/numero-1/titolo-e-indice/saggi/pantaleone-sergi-da-villa-regina-a-villasboas]

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