Stefano Pivato, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda (Luciano Casali)

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Stefano Pivato, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, il Mulino, Bologna 2013, pp. 184

(Luciano Casali)

Pivato

 

«D'accordo, non mangiamo più i bambini ma le bambine sì!»
Così titolava a piena pagina, in maniera palesemente auto-ironica, «Cuore», supplemento de «l’Unità», il 20 novembre 1989. Ma si trattava di una ironia che, evidentemente, non è stata colta da Silvio Berlusconi, profondamente convinto che i comunisti continuino bellamente ad esercitare attività antropofaghe pure nel XXI secolo, tanto è vero che, nel marzo 2006, nel corso di un comizio tenuto a Napoli, affermava che, in Cina, esiste la particolarità culinaria di… bollire i bambini, cucinarli a lesso. Con tale affermazione provocava una reazione immediata di protesta da parte della Repubblica popolare cinese e rendeva necessario un intervento riparatore e di scuse della Farnesina, dal momento che Berlusconi era, in quel momento, presidente del Consiglio dei ministri (Nota 1). Il paradosso è — come scrive Stefano Pivato — che

 

per quanto l’accusa di mangiare i bambini sia circolata almeno dagli anni Venti del Novecento, l'unico uomo politico a utilizzarla nei comizi e sulla stampa in maniera esplicita è il fondatore di Forza Italia. Oltretutto l'uso del tempo presente, (…) la rende attuale agli occhi dell'opinione pubblica. Fino a far credere che artefici (o complici) ne siano gli stessi comunisti italiani ormai inesistenti (Pivato, p. 20).

D’altra parte i quotidiani vicini a Berlusconi hanno stampato ripetutamente affermazioni che “provavano” tali gusti alimentari dei comunisti, anche italiani; basta vedere «il Giornale» del 18 ottobre 2009 e «Libero» dell’11 ottobre 2011 e del 23 gennaio 2013.
Ma è accaduto che, in qualche particolare occasione, i comunisti abbiano veramente mangiato bambini, o comunque carne umana?
Torneremo poi su questa domanda, seguendo le annotazioni che Pivato stesso ci offre. 
Per ora, vogliamo ricordare che, come è noto, quando si “costruisce” un nemico, politico o sociale, non è strettamente necessario che esso sia portatore di quei caratteri negativi che gli vengono attribuiti; ciò che importa è che gli vengano attribuiti caratteri negativi assolutamente credibili e tali da caratterizzarlo fortemente. Nella propaganda antisemita non era necessario che gli ebrei, contro cui si predicava e si agiva, fossero realmente capitalisti, inaffidabili, taccagni e comunisti. Ciò che conta è che fu possibile dare vita a una opinione pubblica che tali li riteneva e che quindi era d’accordo sulla necessità di eliminarli. È dunque indispensabile costruire un paradigma ideologico che renda possibile la stigmatizzazione e l’annichilimento del nemico, con assoluta indipendenza dal modo specifico in cui si plasma e dalle categorie che si usano per identificarlo. Ciò è valso per i comunisti per tutto il XX secolo non diversamente da quanto fu fatto per gli ebrei in funzione della “soluzione finale” (Nota 2). Come già aveva sottolineato Marc Bloch, una leggenda si amplifica e vive alla condizione di trovare, nella società in cui si diffonde, «un brodo di coltura favorevole» attraverso il quale «gli uomini esprimono inconsciamente i propri pregiudizi, odi e timori, cioè tutte le loro forti emozioni» (Nota 3).
Quando, all’indomani della Seconda guerra mondiale, diverse migliaia di bambini meridionali furono trasferiti dalle affamate regioni del Sud dell’Italia in alcune province emiliane e romagnole, le madri dei bambini erano veramente convinte che mandare i loro piccoli nelle province rosse del Nord era estremamente “pericoloso”. I sacerdoti ebbero buon gioco nel predicare, anche dagli altari, che quei bambini non sarebbero più tornati a casa loro, ma sarebbero stati spediti nella lontana Unione Sovietica o mangiati direttamente, se non addirittura «fatti a pezzi e messi in scatola» (Pivato, p. 137).
Nel corso della campagna elettorale del 1948, per i cattolici e per la Democrazia cristiana i comunisti e il Partito comunista italiani non erano un “semplice” avversario politico da sconfiggere elettoralmente, ma un vero e proprio nemico da distruggere. È sufficiente scorrere alcuni manifesti di quella campagna elettorale per rendercene conto. D’altra parte, comunismo e ebraismo costituiscono una unica categoria; come gli ebrei erano stati tradizionalmente accusati di sacrifici rituali, lo stesso avveniva per il comunismo:

Secondo una semplicistica equazione in base alla quale l'ibrida personificazione della bestia plutocratica bolscevica non è il tartaro, il mongolo, lo slavo, ma l'ebreo, l'opinione pubblica e la psicologia popolare sono condotte ad assimilare ebraismo e comunismo: l'antico pregiudizio sui sacrifici rituali transita dal mondo ebraico a quello comunista. In una diffusa semplificazione in base alla quale ebreo diviene sinonimo di comunista, l'accusa di sacrificare gli infanti cristiani finisce per alimentare la leggenda dei comunisti che mangiano i bambini (Pivato, p. 76).

I comunisti, dunque, non sono esseri umani, ma mostri, “orchi” o lupi mannari che divorano l’infanzia; pelosi e con le corna (quindi identificati con il diavolo stesso): spalancano eternamente le loro fauci «per soddisfare la perenne propensione al cannibalismo nei confronti dell’infanzia» (Pivato, p. 168). L’orco comunista — a volte trinariciuto, come insegnò e disegnò Giovannino Guareschi — è dunque rappresentato in immagini che richiamano con tutta evidenza l’effigie di Stalin e il cannibalismo comunista è spesso rappresentato attraverso una vera e propria deportazione dei bambini in Unione Sovietica, la patria del comunismo, ma anche il primo Paese in cui si cominciò a mangiare bambini.
Tornando, dunque, al trasferimento dei bambini dal Sud al Nord dell’Italia nel secondo dopoguerra, non a caso i ragazzini, giungendo in Romagna e ascoltando «lo strano dialetto delle donne che li accolsero, all’inizio credettero di essere arrivati in Russia». Di essere cioè stati deportati là dove «c’erano i comunisti che mangiavano i bambini» (Pivato, p. 141).
Non sarebbe stata la prima volta che i bambini venivano inviati a Mosca. Era accaduto fra il 1937 e il 1938, quando circa tremila ragazzini (ma la propaganda franchista e fascista dichiarò che erano almeno centomila…), in quattro spedizioni successive, erano stati imbarcati dalla Spagna, sottoposta alla guerra civile, alla volta dell’Unione Sovietica, dove avevano trovato ospitalità nelle Casas infantiles para niños españoles. La loro permanenza in Urss era durata a lungo, a causa della infinita durata della dittatura franchista e della mancanza di rapporti diplomatici fra i due Paesi. Né va dimenticato che, essendo per lo più figli di soldati repubblicani, poteva essere “pericoloso” farli tornare in Spagna, dove sarebbero stati quasi certamente sottoposti a rappresaglie. Nel 2005 erano ancora 239 coloro che non erano rientrati, dal momento che oramai si erano stabilmente inseriti nella vita civile del Paese ospite (Nota 4). Tuttavia la propaganda falangista non aveva esitato a divulgare la notizia che la maggior parte di quanti erano andati a Moscú erano morti di fame e di stenti. La vicenda dei niños de Rusia avrebbe costituito «il punto di riferimento sul quale imbastire narrazioni sui comunisti rapitori di bambini» (Pivato, p. 83).
Se dalla Spagna le partenze erano realmente avvenute, non così fu per l’Italia: 

Pochi mesi dopo 1'8 settembre 1943 la propaganda nazifascista allestisce una campagna di informazione che per mesi tiene sospeso il fiato degli italiani costruendo una serie di false notizie sulle deportazioni di bambini in Unione Sovietica. Qualche giornale si limita a riportare la cronaca, magari commentandola, mentre altri fogli arricchiscono gli eventi di nuovi particolari attribuendoli a fantomatiche fonti neutrali o ad agenzie estere. (Pivato, p. 100)

Non è difficile immaginare il panico diffuso da quelle false notizie, al cui centro stava l’infanzia dell’Italia meridionale che veniva minacciata di deportazione. Coinvolgere l’infanzia innocente e inventare una deportazione, dal Sud, controllato dagli Alleati, verso un Paese in cui (affermava la propaganda) regnavano fame, povertà e terrore avrebbe potuto essere una mossa di indubbio impatto emotivo e sarebbe probabilmente stata utile ad incentivare, nel Nord, le adesioni nei confronti della Repubblica sociale italiana e la disaffezione verso il Regno del Sud e i “traditori”, Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio. Secondo la stampa di Salò, «scene di disperazione e di dolore di genitori che vedono i loro figli partire riempivano le cronache dei giornali»; in tutto il Sud «i genitori si opponevano al sequestro dei figli fino all’estremo sacrificio della vita». Del resto, erano gli stessi soldati statunitensi che sequestravano i bambini e li consegnavano «ai bolscevichi», loro alleati, per imbarcarli sui piroscafi diretti all’Urss (Pivato, p. 87). Se, su un piano generale, l’inventata deportazione era diretta ad aumentare — o creare — l’avversione nei confronti degli Alleati, su quello particolare alimentava «la leggenda sui comunisti che mangiano i bambini: gli esecutori degli ordini di Stalin sono i divoratori dell’infanzia» (p. 101).

Nella sua ampia e documentata ricerca sulle origini e il consolidamento della leggenda relativa al fatto che i comunisti mangino bambini, Stefano Pivato giunge così alla conclusione che è possibile, anche per l’uomo contemporaneo, «elaborare proiezioni mitopoietiche che si credevano relegate in un passato remoto e arcaico; con la differenza che in età contemporanea le leggende hanno, grazie allo sviluppo dei mezzi di informazione, una capacità di espansione molto più elevata che in passato» (p. 163).
Ha perciò una importanza relativa il fatto che, dalla metà del 1920, in coincidenza con una disastrosa carestia che provocò milioni di morti, nella Russia si giunse a mangiare non solo cani, gatti, sorci, ma anche cortecce di alberi, erba, ghiande, eccetera. E filtrarono anche notizie della uccisione di bambini, della «vendita al mercato di costolette umane» e che «i fanciulli morti venivano fatti a pezzi e messi nella pentola» (Pivato, pp. 41-42). La storia della antropofagia che attraversa le carestie nella Russia dopo la rivoluzione comunista — per quanto materia sfuggente a ogni rilevazione statistica — rivela così un ventaglio nel quale «i casi reali si sovrappongono a racconti fantastici che contribuiscono a creare la leggenda» di una alimentazione comunista basata sulla carne dei bambini (Pivato, p. 53).
Vero o falso che sia stato, il fatto diventa un elemento fondante della propaganda anticomunista e della necessità di “tagliare i tentacoli” della piovra comunista che tentava di espandersi in tutto il mondo, non come una nuova ideologia politica, ma come un nuovo modo di vivere di cui era componente fondamentale la alimentazione di carne umana.
Il fatto che Silvio Berlusconi, estremamente attento alla propaganda e agli elementi retorici che meglio possono servire a conquistare il consenso, a quasi un secolo dalla nascita della leggenda, continui a farne elemento centrale nei suoi comizi, indica quanto la leggenda che i comunisti mangino i bambini sia stata radicata e fatta propria nella mentalità della destra italiana; e non solo.

 

NOTE

Nota 1 «Bambini bolliti», la Cina protesta, in «il Corriere della Sera», 29 marzo 2006. Torna al testo

Nota 2 B. Kiernam, Blood and soil. A word history of genocide and extermination from Sparta to Darfur, New Haven, Yale University Press, 2007; A. Mayer, Why did the Heavens not Darken. The “Final Solution” in History, New York, Pantheon, 1988. Torna al testo

Nota 3 M. Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi 1914-1915 e riflessioni 1921, Roma, Donzelli, 1994. Torna al testo

Nota 4 Sulla vicenda, cfr. Los niños de la guerra de España en la Unión Soviética. De la evacuación al retorno 1937-1999, Madrid, Fundación Largo Caballero, 1999. Torna al testo

 

 

 

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