Daniele Stefanoni, Donne ed emancipazione nel Novecento tra Confederazione Svizzera e Canton Ticino: gli Archivi riuniti donne Ticino (Aardt)
Daniele Stefanoni
Donne ed emancipazione nel Novecento tra Confederazione Svizzera e Canton Ticino: gli Archivi riuniti donne Ticino (Aardt)
La Confederazione Svizzera è notoriamente terra di grande prosperità economica e stabilità finanziaria (Nota 1). A questo tuttavia, non ha fatto seguito il precoce sviluppo dei diritti femminili, pur tra i fervidi tentativi delle donne stesse di imporli all’agenda della politica. Le lotte suffragiste hanno attraversato il secondo Ottocento e il Novecento, trovando anche sostegno presso la politica (ad esempio nel Partito socialista svizzero) (Nota 2). Tuttavia, neppure il grande impegno delle donne nelle due guerre mondiali, in fabbrica al posto dei mariti o schierate lungo i confini, ebbe esiti positivi sulla concessione del voto, nonostante in molti Paesi si attuassero riforme costituzionali in tal senso già da tempo.
Non mancarono neanche gli insabbiamenti da parte delle istituzioni elvetiche. Ad esempio, il consigliere nazionale cattolico-conservatore vallesano Peter von Roten nel 1949 inoltrò un postulato al Consiglio federale chiedendo un rapporto sull’ampliamento dei diritti politici delle donne, ma esso restò in giacenza per un anno. Alla esplicita richiesta di voto da parte di von Roten, il Consiglio nazionale rispose bocciando la proposta e impedendole di concludere l’iter di presentazione. Analogamente, anche nel 1951 e 1952, le Camere federali si opposero alle interrogazioni consultive in materia di diritti politici (Nota 3).
Nel 1959, fu ammessa una nuova votazione popolare per il suffragio, ma alle urne la sconfitta fu netta, con il 66,9% dei No. Vaud, Ginevra e Neuchâtel, gli unici Cantoni ad aver espresso voto favorevole, decisero comunque di consentire il voto alle donne almeno per le questioni cantonali, costituendo un clamoroso precedente. Gli altri Cantoni continuarono a considerare le donne disinteressate alla politica e abili solo a crescere i figli.
Con l’adesione della Svizzera al Consiglio d’Europa (1963) si creò una situazione paradossale: non avendo attuato il principio di uguaglianza tra uomo e donna di fronte alla legge, non fu concessa la firma della Convenzione sui diritti dell’uomo. L’associazionismo colse la palla al balzo e avviò una massiccia campagna di sensibilizzazione. Nel 1969 le donne marciarono su Berna per protesta mentre il Consiglio d’Europa attendeva le riforme necessarie per procedere alla firma della Convenzione.
Il Consiglio federale svizzero si vide costretto a cambiare rotta e il 9 dicembre pubblicò un messaggio favorevole all’introduzione dei diritti politici; seguirono l’approvazione del Consiglio nazionale e del Consiglio degli Stati (1970), segni evidenti dei tempi che cambiavano, presa d’atto che, in tema di diritti alle donne, il solco con le altre nazioni avanzate rischiava di diventare insanabile.
La svolta arrivò il 7 febbraio 1970: il suffragio femminile in materia federale fu approvato in votazione popolare con 621.109 Sì (65.7%), 323.882 No (34.3%). La maggioranza si dimostrò contraria nei Cantoni di Appenzello esterno e interno, Glarona, Obvaldo, Svitto, San Gallo, Turgovia e Uri (Nota 4).
Le ragioni di questa tardiva approvazione sono varie. Come osserva Simone Chapuis Bischof, presidente romanda dell’Associazione nazionale svizzera per il suffragio femminile (Ads), se nella vicina Francia le donne hanno avuto il suffragio nel 1944, in Danimarca addirittura nel 1915, la Svizzera ha resistito tanto a lungo perché l’introduzione di tale principio avrebbe intaccato così profondamente il codice di leggi e le normative da non poter essere attuato in un «tournemain». Resta difficile tuttavia comprendere la quantità di ostacoli e complicazioni che si sono frapposti all’approvazione (Nota 5). Da un lato bisogna considerare che il sistema elvetico di democrazia diretta prevede che le leggi federali vengano modificate con il voto favorevole della maggioranza dei Cantoni. Inoltre, l’approccio ultraconservatore di molti Cantoni e una mentalità ostile alle novità politiche hanno rallentato ulteriormente il processo (Nota 6). Il fatto poi che al voto fossero ammessi solo gli uomini, ha dato rappresentanza solo alla volontà di metà della popolazione.
Va tuttavia segnalato che a livello di voto cantonale, sono stati ben 9 i Cantoni ad introdurre il suffragio femminile prima del 1971 (tra cui il Ticino), a indicazione del fatto che il panorama svizzero risultava piuttosto eterogeneo.
Verrebbe da pensare che sia tutta colpa del sistema elettorale diretto, che chiama alle urne i cittadini senza mediazioni partitiche, spesso fuorviati da pregiudizi o cattiva informazione. Tuttavia, non è automatico che un sistema elettorale differente avrebbe conseguito risultati più veloci, dal momento che anche a livello di Amministrazione centrale vennero ostacolati i provvedimenti di legge a favore dell’emancipazione femminile.
Con la votazione popolare del 1971, però, non tutto fu risolto. Solo nel 1983 tutti i Cantoni accettarono di adeguare le proprie norme elettorali, tranne i due Semicantoni di Appenzello: le autorità federali li costrinsero a farlo nel 1990 (Nota 7).
Emancipazione femminile non significa solo suffragio, ma una trasformazione della compagine giuridica, del welfare e delle società tutta. Da questo punto di vista, la situazione elvetica mostrò altrettante contraddizioni. L’ostruzionismo istituzionale tornò a manifestarsi quando il Parlamento federale rifiutò a più riprese di aderire alla Convenzione numero 100 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che tra gli anni Cinquanta e Sessanta obbligava i paesi aderenti a rimuovere la disparità tra uomo e donna. La Svizzera avrebbe ratificato questo fondamentale documento solo nel 1973 (Nota 8).
Nell’ambito del Congresso svolto a Berna nel 1975 in occasione dell’Anno della donna proclamato dalle Nazioni Unite, venne lanciata una vasta iniziativa per l’attuazione entro cinque anni della piena parità della donna in materia di vita famigliare, formazione, professione, remunerazione. L’attuazione di questi intenti risultò però assai irregolare da Cantone a Cantone, finché nel 1981 venne inserito in Costituzione il principio di uguaglianza.
Certamente gli anni Settanta risultarono forieri di un intenso confronto, con manifestazioni di piazza e mobilitazione dell’opinione pubblica in materia di maternità, congedo parentale, indennità di salario, legalizzazione dell’aborto e parità giuridica (Nota 9).
Quanto alle tutele di anzianità per tutti i cittadini, già dal 1947 era in vigore l’Assicurazione vecchiaia e superstiti (Avs), seppur basata sul modello sociale della famiglia stabile, con il pater familias incaricato del sostentamento dell’intero nucleo famigliare, moglie compresa (Nota 10). Fu presto evidente come fosse insufficiente e fu affiancata dal sistema a “pilastri”: il primo costituito dall’Avs obbligatoria, il secondo dalle casse private e dalle amministrazioni locali, il terzo affidato all’assicurazione privata individuale. Si trattò di un compromesso significativo tra la componente borghese, favorevole alla libertà di versamento di quote diverse a seconda della capienza economica del lavoratore, e quella socialista, determinata nel garantire sistemi di rendita per la vecchiaia (Nota 11). Nel 1985, l’introduzione della Previdenza professionale obbligatoria (Lpp) rafforzò il legame tra la previdenza e il lavoro, così le donne lavoratrici, ancora con un reddito più basso degli uomini, e le donne senza impiego, alle totali dipendenze dei mariti, risultarono ancora penalizzate (Nota 12).
Solo negli anni Novanta, grazie all’intenso lavoro di pressione delle femministe, sono state introdotte significative modifiche, ma come riconosce la stessa Commissione federale per i problemi della donna nel suo rapporto periodico (1995), «l’Assicurazione sociale è ampiamente incentrata sulla famiglia nucleare e sulla divisione sessuata dei ruoli tra i coniugi» (Nota 13).
L’Assicurazione di maternità(Amat) fu un altro passaggio decisivo quanto tortuoso. «L’assicurazione sociale copre anzitutto i rischi che possono colpire gli uomini. Nel determinare il fabbisogno assicurativo, si sono trascurate le condizioni di vita delle donne». Così la Commissione federale per i problemi della donna sintetizza la questione (Nota 14). Se la Confederazione ha l’incarico di occuparsi delle politiche di tutela della maternità fin dal 1945, il corpus di norme man mano introdotto si è rivelato disomogeneo e poco coordinato, sviluppato soprattutto nell’ambito di altri profili assicurativi, come l’Indennità di perdita di guadagno (Lipg).
Nel 1984, nel 1987 e nel 1999 sono stati respinti, in votazione popolare, diversi progetti per l’introduzione dell’indennità di maternità, approvata finalmente nel 2005 pur con una risicata maggioranza. La copertura prevista dalla legge è di 14 settimane totali di astensione dal lavoro per le donne, ma l’ammontare del versamento effettuato dalla cassa assicurativa copre l’80% del reddito lavorativo non percepito.
Ancora la Commissione federale per le questioni femminili scrive che in definitiva «la Svizzera è l’unico paese d’Europa che non dispone di un’assicurazione di maternità», nel senso che il piano normativo è frammentato, disarticolato, differente nei vari Cantoni (Nota 15).
1. Le donne del Canton Ticino
Le donne in Canton Ticino sentono orgogliosamente di possedere numerose specificità rispetto alle connazionali degli altri Cantoni. Tali differenze paiono conseguenza di molteplici fattori, come il bisogno di ribadire la propria identità linguistico-culturale rispetto ai ben più popolosi Cantoni svizzero-tedeschi e romandi, o la volontà di riscatto da certa marginalizzazione economica.
Quanto a rapporto tra donna e società, anche in Ticino si rilevano le tendenze generali relative a tutta la Svizzera. Nei momenti drammatici della storia patria, anche alle ticinesi è stato chiesto un ulteriore sacrificio di partecipazione. Negli anni della seconda guerra mondiale, l’economia e il buon funzionamento dello stato furono per ampia parte nelle mani esclusive delle donne, «come postine, tramviere, pompiere, impiegate nell’amministrazione cantonale, e degli uffici pubblici, nella cura dei campi e delle aziende», scrive lo storico Marino Viganò (Nota 16). Dal 1940 un migliaio di donne ticinesi si arruolò nell’esercito di difesa, a proteggere la neutralità elvetica dall’avanzata tedesca, e a loro si aggiunsero le donne inserite nei servizi di soccorso (Nota 17). Un senso di orgoglio attraversò le svizzere: «Oggi, dopo tante prove dolorose, non è più dato offendere la donna e neppure ignorarla relegandola, spesso umiliandola, a posti sociali indegni, non valorizzati da una certa responsabilità morale», annotava nel 1946 la scrittrice ticinese Angela Musso Bocca (Nota 18). Eppure, in molte nazioni europee dopo la guerra giunsero gli agognati diritti, in Svizzera, invece, non arrivò proprio alcunché.
L’associazionismo femminile svizzero ha visto nei Cantoni tedeschi – e in seconda battuta in quelli francesi – lo sviluppo delle battaglie più significative. Tutto sembra essersi originato in quell’area a quell’area sembra doversi ricondurre(Nota 19).
Le battaglie delle svizzere tedesche e romande nel dopoguerra hanno delineato la via dell’emancipazione femminile e la regione di lingua italiana è risultata di gran lunga la meno visibile. Se da un lato sicuramente pesò il minor popolamento del Ticino, la questione va probabilmente posta anche in altri termini (Nota 20). Nelly Valsangiacomo, esperta di storia delle donne elvetiche, spiega come
le ricercatrici e i ricercatori che da pionieri si sono avventurati nei meandri di questo capitale rinnovamento, al contempo storiografico ed epistemologico, si sono confrontati al problema dell’invisibilità delle donne nelle fonti: un’invisibilità a volte solo apparente, in questi casi superabile portando uno sguardo diverso su documenti già conosciuti; più sovente reale, data dalla distruzione delle fonti e dall’autodistruzione della memoria da parte delle stesse donne, assuefatte all’idea della loro poca importanza (Nota 21).
In questa prospettiva la nascita degli Archivi riuniti donne Ticino (Aardt) è un’operazione di capitale importanza storiografica.
Anche il Ticino ha una rilevante storia di associazioni femminili. Se nel 1900 nacque l’Alleanza delle società femminili svizzere (Asf, oggi allianceF), solo negli anni Venti vi aderirono i primi gruppi ticinesi, come l’Associazione femminile del soldo(1923), mentre nel 1927 lo farà anche la sezione ticinese dell’Associazione svizzera delle amiche della fanciulla.Solo nel 1950 le donne ticinesi troveranno rappresentanza nel comitato centrale con Ines Bolla, un’insegnante iscritta al Lyceum club della Svizzera Italiana, cui seguirà la giurista Pierra Rolandi, presidente del Movimento sociale femminile di Bellinzona e poi la militante Alma Bacciarini, vere pioniere delle lotte femminili (Nota 22).
Nel 1933 a Lugano nacque il Movimento sociale femminile, l’unico a prevedere esplicitamente nel proprio statuto la lotta per i diritti politici, ma l’unica associazione mantello (Nota 23) esistente in Ticino a metà Novecento fu l’Unione femminile cattolica ticinese, più interessata a parlare di maternità e famiglia che di diritto di voto (Nota 24).
Nel frattempo altre associazioni femminili ticinesi sorsero trasversalmente a gruppi religiosi, di beneficienza dapprima, culturali e politici in seguito (Nota 25). Le differenze ideologiche erano enormi, ma per contare di più nella Confederazione occorreva federarsi. Così, il 28 aprile del 1957, presso il Lyceum club di Lugano le rappresentanti di dodici sigle diedero vita all’associazione mantello Federazione ticinese delle società femminili (Ftsf), che aderì immediatamente all’Alleanza delle società femminili svizzere. Presidentessa fu Maria Luisa Albrizzi, Iva Cantoreggi vicepresidentessa (Nota 26). Tra le aderenti figuravano associazioni religiose come l’Opera cattolica per la protezione della giovane, realtà politiche come le Donne liberali e le Donne socialiste, di natura culturale come il Lyceum della Svizzera Italiana o l’Associazione delle maestre svizzere, e di molti altri generi.
Pur nella varietà di queste sigle, si ravvisa una certa omogeneità delle partecipanti, spesso borghesi, colte, politicamente moderate, dalla quarantina in su. Le ali radicali del movimento femminista svizzero, assai determinanti per le sorti dei diritti femminili, non risultarono granché rappresentate nella Ftsf.
Il primo banco di prova fu la preparazione della Saffa di Zurigo del 1958, la Schweizerische Ausstellung für Frauenarbeit, una mastodontica esposizione nazionale del lavoro femminile. Dopo il successo della prima edizione (1928), l’obiettivo era di raccontare la donna elvetica in senso più lato, nelle sue attività e nelle sue abilità (Nota 27). Nelle valli di lingua italiana sorse un vitale entusiasmo nel ricreare oggetti di artigianato tradizionale locale da esporre alla Saffa, coinvolgendo le ragazze delle scuole superiori. All’esposizione, poi, un’intera giornata fu dedicata alla conoscenza della Svizzera italiana, con tanto di santa Messa, degustazioni di cibo, letture poetiche e musica classica. I visitatori furono quasi due milioni e i proventi della Saffa diedero via a tre fondazioni a favore delle donne, ancora oggi esistenti: la Fondazione per lo studio del lavoro femminile, la Fondazione per la formazione ed educazione civica e la Fondazione per le borse di studio e aiuti alle donne (Nota 28).
«Gli ultimi trent’anni rappresentano il tempo di una trasformazione profonda nella vita, considerata nel singolo e nella società: questa trasformazione – di condizioni economiche, di abiti mentali, di costumi – doveva necessariamente aprire orizzonti nuovi, creare altre esigenze, altri impegni anche nei più quieti settori del mondo femminile: nel settore dei ceti alti e medi, maggiormente fermi alla tradizione», scrisse l’attivista e storica ticinese Maddalena Fraschina nel 1958 (Nota 29). Questi nuovi orizzonti sembrarono lentamente aprirsi: se Adriana Ramelli ricevette l’incarico di dirigere la Biblioteca della Svizzera Italiana, sempre più solido fu il Lyceum della Svizzera Italiana (Nota 30), sorto nel 1939 e divenuto un’istituzione culturale di riferimento grazie a Ines Bolla e Carla Ferrari-Moroni-Stampa. Inoltre, per la prima volta venne compilata una rassegna fittissima di autrici, storiche, artiste ticinesi che hanno illustrato le sorti cantonali (Nota 31).
Schiacciate tra le identità forti delle donne svizzero-tedesche o romande, alla guida dei movimenti di emancipazione elvetica, e i percorsi peculiari delle vicine donne italiane, le ticinesi parvero voler riscoprire una propria specificità culturale (Nota 32). «E da Zurigo cosa riporteremo?», si chiese Felicina Colombo, maestra, attivista e scrittrice. Aggiungendo:
Molte lezioni, senza dubbio. Prima di tutto una lezione sociale. La SAFFA sarà il risultato di due anni di lavoro in comune. È come dire due anni di tirocinio di democrazia. Bisognerà che il tirocinio continui. La chiusura della SAFFA non dovrà significare il ritorno nel bozzolo silenzioso dei propri interessi, ma un inserimento sempre più consapevole e vivace della donna nella vita del paese (Nota 33).
2. I diritti politici e la rappresentanza in Ticino
Il 27 febbraio 1919 il Gran Consiglio modificò la legge sulle elezioni dei patriziati (enti di diritto pubblico che gestiscono proprietà collettive) per fare in modo che ogni nucleo famigliare esprimesse una persona, uomo o donna, all’Assemblea patriziale. Integrata la legge con la decisione del 1962 del medesimo Gran Consiglio, che estese a tutti i cittadini maggiorenni il voto per i patriziati, senza distinzione di sesso, fu consentito alle donne di contare qualcosa almeno a livello locale.
In materia cantonale, invece, la prima votazione popolare in tema di suffragio femminile fu del 1946, sconfitta con il 77,15% di No.
«La donna lavora, educa i bambini, paga le imposte, le vodesi, le ginevrine e le neocastellane votano. Anche le Ticinesi devono votare», recitava un manifesto femminista del 1961. Ma in Ticino pareva dominare ancora la calma piatta su questo tema (Nota 34).
Intanto, i gruppi giovanili di vari partiti lanciarono un’iniziativa per il suffragio femminile cantonale, raccogliendo nel 1965 ben 12.000 firme. Tuttavia, neppure l’attivissima Associazione cantonale per il suffragio femminile, forte delle sue sei sezioni in Ticino e attiva fin dal 1952, riuscì a convincere l’elettorato: i No furono il 58,8% (Nota 35).
Altrettanto complessa fu la questione del diritto di voto femminile a livello federale. Il Ticino mostrò uno spiccato conservatorismo, frutto di quel retroterra contadino, scettico verso i cambiamenti. Eppure si manifestarono progressivi segnali di cambiamento, che avrebbero portato il Ticino a risultare il quinto Cantone a introdurre il suffragio femminile per le elezioni cantonali nel 1969, dopo Vaud e Neuchâtel (1959), Ginevra (1960) e Basilea Città (1966) (Nota 36).
Il cambiamento più radicale in Ticino si consumò a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Una proposta di legge del 1957 voleva estendere alle donne il servizio civile in caso di conflitto militare. L’alzata di scudi fu vasta in tutta la Svizzera, anche se risultarono inattese alcune prese di posizione a favore della proposta da parte femminile cattolica. Su suggerimento del gran consigliere vallesano Peter von Roten (marito della nota femminista Iris von Roten), nel villaggio vallese di Ünterbach il sindaco Paul Zanhaüsern interpretò il termine “svizzeri” contenuto nella Costituzione come nome collettivo che incorpora sia gli uomini che le donne e ammise le donne al voto sulla questione del servizio civile.
Le ticinesi osservarono e presero spunto. Lucia Camponovo, presidente dell’Unione donne ticinesi socialiste, creò un comitato di protesta per attuare una votazione tutta al femminile, parallela a quella ufficiale. Si mobilitarono in tante, tra associazioni e singole adesioni. «Per noi si tratta di una rivoluzione» (Nota 37), disse una votante, mentre il giornalista osservatore dell’evento notava che «è irrevocabilmente caduta, la supposizione, più o meno in buona fede, che le donne sarebbero rimaste inerti al primo appello» (Nota 38).
Pur non avendo alcun valore legale, questo genere di iniziative fu uno scossone per tutta la Svizzera. Per la prima volta le Camere federali (1958) decisero di sottoporre il suffragio femminile al voto popolare, ma l’esito fu disastroso: solo tre Cantoni votarono Sì (Vaud, Ginevra, Neuchâtel), mentre nel resto del paese i No ebbero una media di quasi il 70% (Nota 39).
Per dieci anni l’attivismo femminista dovette metabolizzare la sconfitta. Ma il 23 dicembre 1968 il Consiglio di Stato inviò un messaggio al Gran Consiglio in cui chiese il suffragio femminile cantonale. Il sostegno molto esteso presso partiti e associazioni ticinesi, favorì l’esito schiacciante del 19 ottobre 1969: su oltre 32.000 votanti, più di 20.000 scrissero Sì sulla scheda, riconoscendo sia il voto cantonale che comunale per le donne (Nota 40).
Decisiva fu la sensibilizzazione operata da Radio Monteceneri (Nota 41) con la seguitissima trasmissione Ora della donna, viva rappresentazione delle istanze suffragiste (Nota 42). Anche la Chiesa fece la sua parte: sebbene l’atteggiamento delle sigle cattoliche nelle restanti parti della Confederazione fosse cauto, se non contrario al voto, nel cattolicissimo Ticino le cose andarono diversamente (Nota 43). Ftsf, diretta da Marili Terribilini-Fluck, organizzò un convegno nel 1969 sul diritto di voto. Don Celestino Melzi, docente di sociologia alla Pontificia Facoltà di Teologia di Milano, citò il pensiero di papa Pio XII per legittimare le donne al voto. Intanto la Terribilini-Fluck, mediante un cospicuo contributo economico da parte dell’Asf, inondò il Ticino di opuscoli propagandistici a favore del Sì (Nota 44).
3. Voci di donne ticinesi dagli Aardt
«Donne nel recinto per bambini». Così l’attivista radicale Iris von Roten definiva le connazionali svizzere, colpevoli di aver avvallato la situazione di marginalità in cui si ritrovavano, uniche in Europa (Nota 45). La von Roten aveva ben colto che la frammentazione ideologica delle donne ne aveva rallentato l’emancipazione.
Questa contraddittorietà nelle posizioni ideologiche delle stesse donne emerge chiara anche in Ticino nei fondi pressoché inediti degli Archivi riuniti donne Ticino (Aardt). La nascita di questa realtà di preservazione e studio è connessa strettamente con l’attività della Federazione associazioni femminili Ticino (Faft), di cui è diretta emanazione. Già dagli anni Novanta la presidentessa di Faft, Renata Raggi Scala, e Franca Cleis, una delle più autorevoli studiose della storia femminile in Ticino, compresero la necessità di raccogliere materiali della storia delle donne ticinesi (Nota 46). Costituita l’Associazione Aardt nel settembre 2001, nel 2003 venne inaugurata la sede di Melano, lungo la via Cantonale tra Lugano e Bellinzona (Nota 47).
Casa Maderni, sede dell'Archivio Aardt
Oggi vi sono conservati oltre 4.500 volumi e i cosiddetti Ticinensia, rare opere di saggistica femminile di case editrici locali, oltre a trenta fondi di donne ticinesi, intellettuali e politiche ma anche persone semplici, maestre e levatrici.
L’insieme dei materiali costituisce un mosaico delle rappresentazioni femminili otto-novecentesche delineate mediante le parole manoscritte delle stesse donne, con nette contraddizioni, slanci di modernità e involuzioni auto-inibitorie.
Dagli Archivi traiamo alcuni esempi significativi per il discorso sull’emancipazione e l’acquisizione dei diritti che abbiamo qui rapidamente delineato.
Sul fronte più avanzato si colloca Carla Agustoni (1940-2007), socialista, giornalista, politica e intellettuale stimata. «Che donna?» (Nota 48) è il titolo di un suo manoscritto. «Non più subordinata alla società, che confonde, volutamente, mistificandola, la natura con il sociale. Che la donna si renda conto, prenda coscienza di sé, della sua storia e capisca che le sue rivendicazioni sono un diritto che le spetta». Favorevole alla liberazione delle donne dal controllo del marito, la Agustoni fu in prima fila nella società civile e nelle battaglie in Gran Consiglio (l’organo federale ticinese) a favore dell’affermazione di un nuovo ruolo della donna.
«Non c’è emancipazione senza lavoro esterno [fuori casa, ndr]. E non c’è liberazione della donna senza un momento di coesione nei confronti delle istituzioni che condizionano la donna (consultori, ospedali, giustizia, divorzio, diritto di famiglia)» (Nota 49). Per Agustoni era in parte colpa delle donne: «Queste discriminanti dipendono essenzialmente da una radicata mentalità, insita purtroppo spesso anche nella donna, che considera il lavoro femminile un accessorio a quello dell’uomo». Su questa base, il 60% almeno delle persone senza lavoro in Svizzera – annota l’autrice – sono donne (Nota 50).
Favorevole all’aborto come libera scelta, la Agustoni tuttavia ribadiva che «sarebbe sbagliato isolare l’aspetto legale dell’aborto, poiché una liberalizzazione unicamente indirizzata in questo settore specifico sarebbe fallimentare dal punto di vista sociale se non si tenesse conto di tutta una riformazione dei vari aspetti dell’aborto: la maternità, la responsabilità e la contraccezione» (Nota 51).
Ticinese anch’ella, di estrazione sociale altrettanto borghese, impegnata nel sociale fu Vilma Casanova Moro (1915-2004), interprete di una rappresentazione femminile diametralmente opposta rispetto alla Agustoni. Casanova Moro fu attiva come presidente cantonale e vice-presidente nazionale dell’Associazione Pro Filia (Nota 52), ente incaricato di «offrire assistenza morale e materiale alle donne e specialmente alle giovani, ed in particolare la gestione della Casa della giovane […]. In linea generale l’Associazione si propone il raggiungimento dei fini morali dell’Associazione cattolica internazionale servizio gioventù femminile, ACISJF» (Nota 53).
La morale severa era il cardine di ogni identità femminile, secondo la Casanova Moro: di fronte ai «problemi della gioventù femminile e sui fenomeni dell’epoca attuale (minigonna, insofferenza di controllo, disco mania, desiderio di evasione ecc…)», erano necessari da parte delle donne – soprattutto quelle impegnate nel sociale – «autocontrollo e disciplina atti ad ispirare alle giovani fiducia sufficiente da indurle ad accettare il nostro aiuto per guidarle verso quei valori morali che saranno loro indispensabili anche nell’età matura» (Nota 54).
In termini politici, il suo impegno fu costante e dovette scontrarsi con le resistenze del Partito conservatore democratico di cui fece parte. Nel discorso all’assemblea distrettuale del partito a Lugano il 6 novembre 1966, scrisse:
Ci è nota la solerzia con la quale il Partito si occupa e preoccupa dei problemi della famiglia e nutriamo fiducia che si accosti sempre più anche ai problemi prettamente femminili. […] Inoltre, il fatto che molti abbiano affidato all’urna il loro no, non deve essere interpretato come segno di antifemminismo in modo assoluto. Quel no poteva anche significare “Signore, non disturbatevi, ci siamo noi. La politica è già un campo minato per gli uomini, perché implicarvi anche la donna?” Così hanno ragionato molti, incoraggiati anche da una certa dose di indifferenza femminile. Troppe donne ticinesi mancano infatti di coscienza civica (Nota 55).
Ma quando il tema politico toccava l’etica, il suo spirito conservatore si faceva più marcato.
La signora Betty Fremann (Nota 56) che vorrebbe legalizzare l’aborto, altro non farà che offrire all’uomo delle perfette ancelle per il vizio e il capriccio, e semmai anziché migliorarne la posizione, paradossalmente, la peggiorerà. La donna non può sentirsi “libera” soffocando nel grembo i germogli di vita per appagare l’egoismo e l’egocentrismo. La competizione con l’uomo deve svolgersi con altri mezzi, mettendo in risalto quelle prerogative che le si confanno per natura. L’istruzione dovrebbe affinare il suo senso di responsabilità e non schiacciarne la personalità (Nota 57).
Il conservatorismo morale fu tutt’altro che un’eccezione nei movimenti femministi ticinesi, per la maggior parte composti da donne borghesi. La donna pareva doversi conquistare un posto al sole meritandoselo, contropartita di ineccepibili doti morali e sociali. «La famiglia rimane pur sempre l’ambiente ideale per l’educazione dei figli soprattutto nei primi anni di vita. Nell’ambito del comune si potrà meglio valutare le reali necessità locali e stimolare in questo campo quel volontariato tanto auspicato da più parti» (Nota 58). Così Ersilia Fossati (1921-1999), insegnante e svariate volte componente di spicco del Gran Consiglio Ticinese, espresse il suo scetticismo nei confronti della diffusione degli asili nido, che avrebbero potuto sottrarre alle donne la loro funzione primaria: l’accudimento dei figli.
Tuttavia in Fossati non mancano inattesi slanci di apertura al nuovo. In ambito educativo, ad esempio, la Fossati mostrò grande competenza sia in quanto insegnante sia come politica federale:
Come donna posso raccomandare di indirizzare alle nuove professioni anche le ragazze che solitamente vengono avviate a professioni tradizionalmente riservate alle donne. Ancora a molte ragazze non è data la possibilità di giungere a una formazione professionale completa e solo a professioni poco qualificate, costringendo la mano d’opera femminile a un’eterna manovalanza (Nota 59).
Quanto alla presenza in politica delle donne,
mi rendo conto che vi sono ancora pregiudizi da superare. In certi casi la si tollera [la donna, ndr], ma non è ancora quella partner sociale che sarebbe auspicabile fosse. Le donne avvertono questo disagio e dimostrano una grande maturità, cercano con discrezione, tatto e collaborazione leale di aiutare non tanto se stesse, quanto l’uomo a vincere i pregiudizi che ancora sussistono.
Se gli uomini sono descritti come più adusi alla tergiversazione e al temporeggiamento in politica, «le donne sono come i giovani: assetate di giustizia e di ideali» (Nota 60). Le donne sono definite abili nella cosa pubblica, questo è certo. «Non bisogna avere paura, e questo lo dico alle donne, perché se una donna è una buona amministratrice in casa propria, lo sarà anche nelle cose comunali». Tuttavia, con una buona dose di senso pratico: «Non vi dirò mai di votare e approvare un progetto perché altri lo votano, anche se per voi è un mistero. Prima capire, poi riflettere, infine prendere una decisione» (Nota 61).
NOTE:
Nota 1 La Confederazione Svizzera risulta ancora nel 2014 al primo posto in competitività e stabilità delle istituzioni politiche nella graduatoria annuale redatta da Word Economic Forum (Wef), mentre a marzo 2015 la disoccupazione si attesta al 3,3% secondo i dati statistici federali, uno dei livelli più bassi al mondo: www.seco.admin.ch/themen/00374/00384/index.html?lang=it, consultato il 23/05/15. Torna al testo
Nota 2 Commissione federale per le questioni femminili (a cura di), Il movimento femminista dalle origini alla prima guerra mondiale, in Donne Potere Storia. La Storia della parità in Svizzera 1848-2000, pubblicato esclusivamente su internet con vari sottocapitoli alla pagina web www.ekf.admin.ch/dokumentation/00444/00517/index.html?lang=it, Berna 2001, pp. 3-4. Torna al testo
Nota 3 Commissione federale per le questioni femminili (a cura di), Il lungo cammino verso il suffragio femminile, in Donne Potere Storia, cit., pp. 8-9. Torna al testo
Nota 4 Ivi, p. 10. Torna al testo
Nota 5 S. Chapuis Bischof, Prefazione, in L. Ruckstuhl, Il suffragio femminile in Svizzera, Casagrande editore, Lugano 1991, p. 19. Torna al testo
Nota 6 Commissione federale per le questioni femminili (a cura di), Il lungo cammino verso il suffragio femminile, cit., p. 1. Torna al testo
Nota 7 Ivi, p. 9. Torna al testo
Nota 8 Fondazione Dizionario storico della Svizzera, Dizionario storico della Svizzera, vol. IX, Armando Dadò Editore, Locarno 1988, p. 523. Torna al testo
Nota 9 R. Broggini (a cura di), Nuova storia della Svizzera e degli Svizzeri, Casagrande Fidia Sapiens Editore, Lugano 1983, p. 238. Torna al testo
Nota 10 Commissione federale per le questioni femminili (a cura di), La posizione della donna nell’AVS e nella previdenza professionale (LPP), in Donne Potere Storia, cit., p. 1. Torna al testo
Nota 11 R. Broggini (a cura di), Nuova storia della Svizzera e degli Svizzeri, cit., p. 231. Torna al testo
Nota 12 Commissione federale per le questioni femminili (a cura di), La posizione della donna nell’AVS e nella previdenza professionale (LPP), cit., p. 2. Torna al testo
Nota 13 Commissione federale per i problemi della donna (a cura di), Molte realizzazioni - pochi cambiamenti. La situazione della donna in Svizzera, Berna 1995, p.158. Torna al testo
Nota 14 Ivi, p. 165. Torna al testo
Nota 15 Commissione federale per le questioni femminili (a cura di), Assicurazione maternità, in Donne Potere Storia, cit., p. 1. Torna al testo
Nota 16 M. Viganò, Nella seconda guerra mondiale: ombre e luci, in R. Ceschi, Storia del Canton Ticino. Il Novecento, Stato del Canton Ticino, Bellinzona 1998, p. 521. Torna al testo
Nota 17 E. Franconi Poretti, Riflessioni di una donna, in 1939-1989. 50.mo della mobilitazione, edito dal Canton Ticino, Locarno 1990, pp. 29, 30. Torna al testo
Nota 18 A. Musso Bocca, Donne durante e nel dopoguerra, in G. Vegezzi (a cura di), Mobilitazione 1941-1945. La Svizzera in armi, Grassi&Co, Bellinzona 1946, p. 233. Torna al testo
Nota 19 Commissione federale per le questioni femminili (a cura di), Il movimento femminista dalle origini alla prima guerra mondiale, in Donne Potere Storia, cit., p. 3. Torna al testo
Nota 20 Il 64,9% della Svizzera risiede in Cantoni di lingua tedesca, il 22,6% in Cantoni di lingua francese, l’8,3% di lingua italiana e solo lo 0,5% romancio: www.bfs.admin.ch/bfs/portal/it/index/themen/01/05/blank/key/sprachen.html, consultato l’8 ottobre 2014 (dati riferiti al 2012). Torna al testo
Nota 21 S. Castelletti, L. Fornara, Donne in movimento, DECS, Lugano 2007, p. 7. Torna al testo
Nota 22 Ivi, p. 14. Torna al testo
Nota 23 Con questo termine, in Svizzera si intende comunemente un’associazione centrale che raccoglie sigle specifiche di realtà associative locali, affiliate ad essa e identificate nello statuto espresso dal comitato centrale, spesso riunito in Cantoni romandi o svizzero-tedeschi. Torna al testo
Nota 24 S. Castelletti, L. Fornara, Donne in movimento, cit., p. 67. Torna al testo
Nota 25 M. Marcacci, N. Valsangiacomo (a cura di), Dizionario storico della Svizzera, sezione di imminente pubblicazione già disponibile in formato elettronico http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I7394.php. Torna al testo
Nota 26 S. Castelletti, L. Fornara, Donne in movimento, cit., p. 15. Torna al testo
Nota 27 Saffa 1958 Zurigo 17.7-15.9.1958, Esposizione, vita e lavoro della donna svizzera – guida ufficiale, Winterthur AG Buchdruckerei, Zurich 1958. Torna al testo
Nota 28 S. Castelletti, L. Fornara, Donne in movimento, cit., p. 28. Torna al testo
Nota 29 Donne della Svizzera Italiana, Grassi&Co., Bellinzona 1958, p. 9. Torna al testo
Nota 30 http://lyceumclub.ch/index.php?page=la-storia Torna al testo
Nota 31 Donne della Svizzera Italiana, cit., pp. 10 e segg. Torna al testo
Nota 32 Ivi, p. 55. Torna al testo
Nota 33 Ivi, pp. 57, 58. Torna al testo
Nota 34 L. Ruckstuhl, Il suffragio femminile in Svizzera, cit. p. 138. Torna al testo
Nota 35 Ivi, p. 139. Torna al testo
Nota 36 S. Castelletti, L. Fornara, Donne in movimento, cit., pp. 65 e segg. Torna al testo
Nota 37 «Corriere del Ticino», 4 marzo 1957. Torna al testo
Nota 38 «Gazzetta Ticinese», 4 marzo 1957. Torna al testo
Nota 39 S. Castelletti, L. Fornara, Donne in movimento, cit., p. 76. Torna al testo
Nota 40 Ivi, p. 81. Torna al testo
Nota 41 T. Mäusli (a cura di), Voce e Specchio - Storia della radiotelevisione svizzera di lingua italiana, Armando Dadò Editore, Lugano 2009, pp. 23-24. Torna al testo
Nota 42 L. Ruckstuhl, Il suffragio femminile in Svizzera, cit., p. 144. Torna al testo
Nota 43 L. Maffezzoli, L’unione fa la donna. Storia dell’associazionismo cattolico femminile ticinese nel novantesimo dell’Unione Femminile Cattolica Ticinese, in «Quaderni di Azione Cattolica», 10 (2010), p. 10. Torna al testo
Nota 44 S. Castelletti, L. Fornara, Donne in movimento, cit., pp. 82 e segg. Torna al testo
Nota 45 I. von Roten, Frauen im Laufgitter. Offene Worte zur Stellung der Frau, Efef Verlag, Zurigo 1991. Torna al testo
Nota 46 F. Cleis, Gli Archivi Riuniti delle Donne-Ticino. Storia di una biblioteca e di un centro di documentazione, in «Archivio Storico Ticinese», 136 (2004), p. 5. Torna al testo
Nota 47 Ivi, p. 6. Torna al testo
Nota 48 Archivi Riuniti Donne Ticino (d’ora in poi AARDT), Fondo Agustoni, scat. 1, f. 4, s.d. Torna al testo
Nota 49 Ibidem. Torna al testo
Nota 50 AARDT, Fondo Agustoni, scat. 2, f. 27, s.d. Torna al testo
Nota 51 AARDT, Fondo Agustoni, scat. 5, f. 58, pagina 1 numerata a penna, s.d. Torna al testo
Nota 52 www.archividonneticino.ch/index.php/fondi-privati/104-vilma-casanova-moro, consultato il 5 gennaio 2016. Torna al testo
Nota 53 Statuto dell’Associazione Cattolica «PRO FILIA», Tipografia La Buona Stampa, Lugano 1987, p. 1, in AARDT, Fondo Vilma Casanova Moro, scat. 1, f. 1. Torna al testo
Nota 54 AARDT, Fondo Vilma Casanova Moro, scat. 1, f. 5, lettera datata giugno 1967. Torna al testo
Nota 55 AARDT, Fondo Vilma Casanova Moro, scat. 11, f. 128, s.d. Torna al testo
Nota 56 Il riferimento potrebbe essere a Betty Friedan, femminista statunitense nota per le sue battaglie abortiste. Torna al testo
Nota 57 AARDT, Fondo Vilma Casanova Moro, scat. 15, f. 164, articolo a firma Casanova Moro del 2 ottobre 1970, testata non identificata. Torna al testo
Nota 58 AARDT, Fondo Ersilia Fossati, scat. 2, f. 10, s.d. Torna al testo
Nota 59 Ibidem. Torna al testo
Nota 60 AARDT, Fondo Ersilia Fossati, scat. 2, f. 18, s.d. Torna al testo
Nota 61 AARDT, Fondo Ersilia Fossati, scat. 2, f. 10, s.d. Torna al testo
Questo contributo si cita: D. Stefanoni, Donne ed emancipazione nel Novecento tra Confederazione Svizzera e Canton Ticino: gli Archivi riuniti donne Ticino (Aardt), in «Percorsi Storici», 4 (2016) [www.percorsistorici.it]
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