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Sara Bernard

Il ritorno dei gastarbajteri (Nota 1) nella politica migratoria della Jugoslavia socialista (1969-1991)

 

L’emigrazione di carattere economico, è stato un fenomeno di grande portata nella Jugoslavia socialista. Dopo la sua legalizzazione nel 1963, il numero degli jugoslavi che lasciarono il paese per lavorare all’estero, inizialmente marginale e circoscritto alle zone di confine, crebbe rapidamente per raggiungere il suo picco massimo tra il 1969 e il 1973, quando si stima che i lavoratori all’estero fossero tra i 700.000 e i 900.000, accompagnati da circa 300-400.000 familiari a carico. Considerando che, secondo il censimento del 1971, la popolazione jugoslava era di 20.505.000 di abitanti di cui solo 4.034.000 occupati (Nota 2), si può immaginare come l’emigrazione economica abbia inciso trasversalmente e profondamente sullo sviluppo del paese.
L'emigrazione dei lavoratori jugoslavi era motivata dalle grandi difficoltà economiche, principalmente il forte debito estero e l'elevata disoccupazione, con i quali la Jugoslavia si confrontava sin dal 1961. L’impiego all’estero era tuttavia pensato come temporaneo. La leadership jugoslava infatti giustificava il fatto che i suoi cittadini lavorassero per il Capitalismo occidentale solo in quanto condizione “temporaneamente” necessaria per lo sviluppo economico della patria. Attenuando la disoccupazione e inviando a casa le loro rimesse, gli jugoslavi impiegati all’estero avrebbero contribuito a creare nuovi posti di lavoro nelle aree arretrate, favorendo la piena occupazione nel paese. In questo modo la necessità di emigrare sarebbe gradualmente svanita e si sarebbero create le condizioni per un ritorno a breve dei lavoratori all’estero. In accordo con queste premesse, la definizione ufficiale dell’emigrante economico era “radnik na privremenom radu u inostranstvu”, ossia “lavoratore temporaneamente impiegato all’estero”.
L’idea di una permanenza temporanea all’estero degli Jugoslavi trovava supporto nella politica di reclutamento dei lavoratori stranieri adottata sin dagli anni Cinquanta dai paesi europei occidentali, soprattutto dalla Repubblica federale tedesca (Brd), di cui l’emigrazione jugoslava faceva parte. Come il termine tedesco chiaramente dice, i lavoratori, Arbeiter, erano ospiti, Gast, e quindi chiamati a fare ritorno a casa nel momento in cui le condizioni per il loro impiego sarebbero venute a mancare. Questa evenienza sembrò realizzarsi nel novembre 1973 quando la Brd, seguita dalla maggior parte degli altri paesi europei reclutatori di mano d’opera straniera, decretò lo stop al reclutamento dei Gastarbeiter (Anwerbestopp). Sebbene ciò comportò un drastico calo delle emigrazioni di lavoratori jugoslavi in Europa Occidentale, riunificazioni familiari e sviluppo di canali illegali e irregolari di reclutamento mantennero il numero (ufficiale) degli Jugoslavi all’estero costantemente sui 900.000 fino alla fine degli anni Ottanta. I ritorni invece, dopo un picco tra il 1974 e il 1976, furono un fenomeno marginale, disorganizzato e spontaneo (Nota 3).
Partendo da queste premesse, il presente contributo vuole ricostruire la storia dei (mancati) ritorni dei gastarbajteri jugoslavi e cercare di determinarne le principali cause e conseguenze. Avvalendosi di fonti primarie – materiale archivistico, analisi demografiche ed economiche e stampa periodica prodotte da istituzioni jugoslave sulla questione migratoria – e comparandole con le fonti secondarie sullo sviluppo socio-economico e politico del paese dal 1963, uno dei principali obiettivi sarà evidenziare continuità e discontinuità nel periodo cronologico esaminato. Speciale attenzione verrà dedicata all’analisi dei differenti usi delle rimesse e dei risparmi, sia da parte dei lavoratori che del governo jugoslavo. Nel fare questo, lo scopo sarà dimostrare che le scelte attuate in campo economico e politico dalla leadership jugoslava fallirono nell’obiettivo di creare le condizioni per il ritorno e la reintegrazione sociale ed economica dei gastarbajteri.

 

Il (mancato) ritorno dei “lavoratori temporaneamente all’estero” e l’ambiguo progetto di sviluppo jugoslavo 

La priorità del Partito comunista jugoslavo (Pkj) salito al potere dopo la seconda guerra mondiale, era di ricostruire un paese che, anche prima delle distruzioni della guerra, presentava aree economicamente e socialmente arretrate. Prima attraverso la collettivizzazione forzata, poi con l’autogestione adottata dopo lo scisma con Stalin, la leadership jugoslava mise in atto un programma di sviluppo che prevedeva la modernizzazione e l’industrializzazione di un paese in cui i valori della vita rurale e l’agricoltura rappresentavano, rispettivamente, il modello di vita e la fonte di reddito per la maggior parte della popolazione. Questo programma era particolarmente necessario, ma anche difficile da realizzare, poiché solo alcune aree nord-occidentali della Croazia e della Slovenia erano state interessate da un processo di industrializzazione tra le due guerre, mentre nelle aree sud-orientali (Serbia, Montenegro, Kosovo, Macedonia e Bosnia), le attività industriali erano quasi del tutto assenti o estremamente obsolete (Nota 4).
Nei primi anni Sessanta, dopo un decennio di impressionante crescita economica (Prodotto nazionale lordo-Pnl all’8,1% e picchi di crescita industriale annuale fino al 13%) (Nota 5), la Jugoslavia iniziò a mostrare segni di recessione. La ragione risiedeva principalmente nel fatto che, dopo iniziali sovvenzioni, l’industrializzazione del paese aveva richiesto ingenti crediti e prestiti che stavano scadendo quando ancora gli investimenti non avevano generato veri e propri profitti, specialmente nelle repubbliche/province arretrate (Montenegro, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Kosovo), la cui prestazione economica non riusciva a tenere il passo con quella delle repubbliche/province sviluppate (Croazia, Slovenia, Voivodina e – in parte – Serbia). Per esempio, in termini di Good manufacturing practices (Gmp) (Nota 6) pro capite, il divario tra lo sviluppo economico della repubblica più sviluppata, quella slovena, e la provincia più arretrata, quella kosovara, crebbero tra il 1950 e il 1960 da 1:3 a 1:5 (Nota 7).
Fu in questo contesto marcato da ingenti debiti esteri e crescente disoccupazione che, nel 1963, la leadership jugoslava decise, sebbene non senza grandi diatribe interne, di legalizzare l’emigrazione dei lavoratori jugoslavi. L’idea era che l’emigrazione dovesse e potesse favorire le condizioni per il pieno sviluppo del paese, specialmente delle aree arretrate, dove esubero di manodopera e mancanza di posti di lavoro erano più accentuati. In questo modo gli jugoslavi all’estero avrebbero potuto far presto ritorno e trovare impiego nelle loro comunità di origine (Nota 8).
Grazie alla positiva congiuntura economica in Europa occidentale e all’intensa attività diplomatica della leadership titina, l’emigrazione dei gastarbajteri crebbe rapidamente per raggiungere il suo picco massimo tra il 1969 e il 1973, quando si stima che circa 1.300.000 jugoslavi (lavoratori e familiari a carico) risiedessero all’estero. Nel frattempo, per affermare che i cittadini jugoslavi continuavano ad essere parte della classe lavoratrice jugoslava durante la loro (temporanea) assenza, le iniziali trattative diplomatiche di reclutamento con i paesi ospiti vennero sostituite da una serie di attività che andavano dalla protezione dei diritti dei lavoratori e promozione dei loro legami con il paese natale, fino al controllo del loro orientamento politico (Nota 9). Se, esplicitamente, le attività svolte dalle istituzioni jugoslave al di fuori dei confini nazionali erano motivate dall’accresciuto numero degli jugoslavi all’estero, implicitamente dimostravano anche che l’emigrazione economica aveva assunto scopi e forme diversi da quelli inizialmente previsti. Che l’emigrazione avesse assunto un nuovo ruolo rispetto a quello dichiarato inizialmente dalla leadership titina, ossia l’impiego temporaneo all’estero per creare posti di lavoro nelle aree arretrate, sembra confermato dal fatto che il transnazionalismo della politica migratoria jugoslava si intensificò sostanzialmente con la prima crisi energetica del 1973-1974 quando gli alti tassi di disoccupazione in Europa, avevano portato alla fine della politica di reclutamento dei Gastarbeiter e aperto la fase in cui, secondo i postulati di tale politica, i lavoratori avrebbero fatto ritorno nel loro paese di origine.
Sebbene il governo jugoslavo fosse il primo in Europa ad adottare un programma per il ritorno e la reintegrazione dei gastarbajteri e partecipasse attivamente a vari progetti promossi dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) per ottimizzare l’utilizzo delle rimesse nel creare posti di lavoro nelle aree con alti tassi di emigrazione (Nota 10), il ruolo che l’emigrazione economica era chiamata ad assumere nella strategia di sviluppo jugoslavo era nel frattempo cambiata. In breve, l’impiego all’estero non era più finalizzato alla riduzione delle ineguaglianze all’interno del paese tramite uno sviluppo economico omogeneo delle regioni jugoslave. Ciò non significa che l’emigrazione economica smise di essere considerata una necessità per lo sviluppo delle aree arretrate, come conferma il piano quinquennale del 1971-1975 (Nota 11). Tuttavia, come sottolinea Dijana Pleština, i deludenti risultati economici ottenuti nelle aree sottosviluppate avevano portato la leadership jugoslava a concentrare gli investimenti nelle aree sviluppate e, in generale, ad alleviare (o mascherare) il forte rallentamento della crescita economica sostenuta principalmente dal debito estero, puntando al miglioramento degli standard di vita e dei consumi degli jugoslavi (Nota 12). In questo contesto, l’emigrazione dei lavoratori continuò ad assumere, direttamente ed indirettamente, un ruolo centrale. Infatti, punto focale della nuova strategia di sviluppo era la riforma economica introdotta nel biennio 1964-1965 e nel 1967, uno dei principali obiettivi della quale era l’inclusione del sistema economico jugoslavo nella divisione internazionale del lavoro del mondo sviluppato (Nota 13).
Avendo come scopo di passare da un sistema estensivo ad uno intensivo di produzione, la riforma economica cambiò significativamente sia la struttura produttiva che il mercato del lavoro jugoslavo e conseguentemente anche gli schemi dell’emigrazione economica. Più precisamente, essendo una delle strategie della riforma la razionalizzazione, prevalentemente attraverso il taglio dei posti di lavoro, delle imprese dello stato meno produttive le quali erano maggiormente presenti nelle repubbliche sud-orientali, fu soprattutto in queste aree che la riforma portò sostanziali cambiamenti (Nota 14). Da queste regioni, fino ad allora escluse dall’emigrazione di lavoratori verso l’Europa, un numero crescente di contadini tendenzialmente poco mobili, iniziò ad emigrare. Prima della riforma l’emigrazione dei lavoratori era geograficamente concentrata nelle aree nord-occidentali del paese e specialmente in Croazia. Quale parte dell’ex impero austro-ungarico, la Croazia (così come la Slovenia e la Voivodina) avevano ereditato canali commerciali con l’Occidente e sviluppato reti di emigrazione che, mai completamente chiuse, furono facilmente rivitalizzate negli anni Sessanta (Nota 15). Il fatto che, seguendo un modello comune a molti paesi del Mediterraneo l’emigrazione economica jugoslava nel periodo post-bellico si sviluppò non nelle aree sud-orientali, dove disoccupazione e povertà erano più diffuse, ma in quelle nord-occidentali che erano le più sviluppate, creava svariati problemi che sin dalla fine degli anni Sessanta iniziarono ad essere ampiamente discussi in dibattiti politici e scientifici.
Particolarmente significativo era il fatto che, oltre a sottolineare evidenti problemi quali fuga di cervelli, spopolamento e invecchiamento della popolazione nelle aree rurali, i membri del Partito comunista si rendevano conto che l’emigrazione economica stava impedendo lo sviluppo, già di per sé difficile, di un mercato economico e del lavoro comune in Jugoslavia, il quale era anche indicato come prerequisito per la stabilità economica del paese (Nota 16). Come dimostrava il numero crescente di offerte di lavoro rimaste vacanti (Nota 17), l’incremento di opportunità di impiego a Zagabria, Lubiana o altri centri turistici e/o industriali del paese non garantiva che i lavoratori qualificati accettassero un lavoro ordinario a casa, sapendo di poter ottenere uno stipendio maggiore e migliori condizioni di lavoro oltre confine. Inoltre queste distorsioni non erano circoscritte agli impieghi per lavoratori (altamente) qualificati, ma si estendevano anche a lavori che richiedevano basse qualifiche, nonostante il tasso di disoccupazione fosse particolarmente alto tra questi profili professionali (Nota 18). Tra le ragioni indicate durante gli incontri politici, una delle principali era che la migrazione dei lavoratori scarsamente qualificati all’interno del paese, e specialmente tra repubbliche/province, era scoraggiata per due principali motivi. Da una parte, spesso ai lavoratori non erano garantite le minime garanzie, quali continuità dell’impiego e alloggio, e di conseguenza questi non riuscivano a risparmiare il minimo necessario per spedire denaro alla famiglia. Dall’altra, la scarsa collaborazione tra gli uffici comunali per l’impiego non permetteva una circolazione aggiornata e in tempo reale delle offerte di lavoro. Il risultato era che per la maggior parte dei disoccupati, l’impiego all’estero aveva molti più vantaggi che un lavoro in Jugoslavia (Nota 19).
Inoltre, erano le stesse amministrazioni locali che preferivano mandare i lavoratori all’estero piuttosto che in un’altra area del paese (Nota 20) sperando in questo modo di riceverne delle rimesse che, secondo i principi della decentralizzazione economica introdotti con le riforme del 1964-1965 e del 1967, potevano essere utilizzate dalle singole unità amministrative e produttive senza interferenze da parte della direzione centrale. Infatti, uno dei pilastri dell’autogestione prevedeva che il ruolo della federazione nell’amministrare e distribuire i fondi economici dovesse gradualmente ridursi per essere sostituito da un processo di accumulazione economica e finanziaria in banche e istituti di credito divenuti nel frattempo indipendenti. In questo modo si doveva favorire il processo di decentralizzazione e “destatalizzazione” del capitale necessario per lo sviluppo del paese rendendolo direttamente soggetto alle decisioni delle organizzazioni autogestite di lavoratori      (Nota 21).
Fu esattamente attorno alla provenienza e distribuzione dei fondi federali, i quali non erano erogati proporzionalmente al contributo versato da ogni repubblica/provincia, che iniziarono a verificarsi frequenti scontri politici (Nota 22). L’apice della tensione si raggiunse nel 1971, quando a Zagabria un movimento di matrice nazionalista di contestazione chiamato maspok (Nota 23) prese piede lamentando, tra le altre cose, che sebbene la Croazia contribuisse enormemente al budget della federazione, grazie alle rimesse dei suoi gastarbajteri e del turismo, a beneficiarne erano soprattutto banche belgradesi o le repubbliche meno sviluppate. In questo modo uno dei principi chiave del progetto di sviluppo jugoslavo veniva messo in discussione, e cioè il criterio di solidarietà tra nazioni e nazionalità ricche e povere, secondo il quale le prime dovevano aiutare le seconde nel loro processo di crescita economico-sociale (Nota 24). Una soluzione giunse nel 1972, quando il sistema delle rimesse fu di fatto “federalizzato”. In pratica, parte delle rimesse che confluivano in Jugoslavia non veniva più assegnata valutando chi erano le repubbliche/province più bisognose, ma premiando chi contribuiva di più a creare ricchezza nel paese. In gran parte questa ricchezza si basava sulla disponibilità di rimesse, delle quali le principali fonti erano il turismo e i lavoratori all’estero (Nota 25). Se lo scopo dell’adozione di un complicato sistema di distribuzione delle rimesse, quale divenne quello jugoslavo, doveva servire ad aiutare le aree con alti tassi di emigrazione, come ufficialmente dichiarato, ciò non si verificò. Concentrando i capitali in istituti di credito e finanziari indipendenti, la cui politica era avere un immediato e sostanzioso profitto, gli investimenti nelle aree arretrate divennero sempre più sporadici (Nota 26).
Nemmeno la creazione di un apposito fondo federale per favorire il reinserimento lavorativo dei migranti che tornavano dall’estero, istituito nel 1978 e finanziato in gran parte con aiuti dei paesi ospiti, riuscì a risolvere gli strutturali problemi che ostacolavano la soluzione della questione delle migrazioni di ritorno (Nota 27). Le lunghe trattative per decidere il tipo di progetti da finanziare e gli insufficienti capitali investiti da una parte, e l’impasse burocratica generata dalla complessità ed improduttività del sistema di autogestione jugoslavo dall’altra, portarono nel corso degli anni Ottanta ad abbandonare tali programmi che furono in parte sostituiti da controversi incentivi economici elargiti direttamente ai gastarbajteri (Nota 28).
Il deludente risultato di queste iniziative è provato dal fatto che i ritorni dei lavoratori impiegati all’estero non subirono sostanziali cambiamenti. Dopo un picco tra il 1974 e il 1976, i ritorni rimasero un fenomeno costante ma marginale (Nota 29), mentre la presenza di comunità jugoslave all’estero si consolidò (Nota 30). D’altra parte, l’afflusso di rimesse e risparmi che i lavoratori mandavano a casa continuò a crescere (Nota 31). Ciò significa che parte degli jugoslavi all’estero credevano e volevano investire nello sviluppo del loro paese o che, per altri motivi, volevano tornare a casa. Infatti, come molte indagini, interviste e storie personali dimostrano, il ritorno continuava ad essere il progetto di molti jugoslavi anche dopo prolungate permanenze all’estero (Nota 32).

 

Risparmiare per tornare al più presto a casa. Per un’analisi critica degli investimenti dei gastarbajteri nelle loro comunità locali 

Nella Jugoslavia socialista Aržano, un paese nel comune di Imotski (entroterra dalmatino), era conosciuto per essere uno dei comuni croati più arretrati e per i suoi alti tassi di emigrazione (il 75% degli occupati, erano impiegati all’estero) (Nota 33). Alla fine degli anni Sessanta, tuttavia, fu proprio Aržano a dare i natali ad un pionieristico esperimento: l’apertura della prima fabbrica costruita grazie alle rimesse dei gastarbajteri e per questo conosciuta come la prima “fabbrica delle rimesse” (devizna fabrika) (Nota 34). L’idea fu di un membro locale del partito che chiese, tramite un referendum, chi dei lavoratori all’estero della regione volesse investire i suoi risparmi (da 250 fino a 500 marchi tedeschi) nell’apertura di una fabbrica tessile (Nota 35). L’enorme successo riscosso dalla proposta portò all’apertura di tre stabilimenti nello stesso comune. Il primo stabilimento del complesso industriale Pionirka fu aperto ad Aržano, il secondo a Cista Velika e il terzo a Cista Provo, rispettivamente nel 1970, 1972 e 1974 (Nota 36). Nel frattempo la storia di Aržano aveva varcato i confini croati sollevando grande ottimismo in tutto il territorio federale, dove furono intrapresi svariati tentativi di esportare il “modello Pionirka” (Nota 37). Tuttavia, il numero dei progetti intrapresi sull’esempio del comune di Aržano furono solo 14, molto meno di quelli che le iniziali aspettative avevano previsto (Nota 38).
Il deludente effetto propulsivo delle fabbriche costruite con le rimesse dei lavoratori, andò di pari passo con il graduale declino economico del complesso industriale messo in piedi nel comune di Imotski dove, già nel 1973, la produttività dell’azienda era in forte calo. Nelle ricerche condotte da Jenni Winterhagen emerge che il motivo principale non era la mancanza di capitale economico che i gastarbajteri continuavano a voler impegnare in questo tipo di progetti, ma nel rapido calo di interesse delle amministrazioni locali in progetti finanziati dal capitale dei gastarbajteri (Nota 39). Simile disinteresse riguardava anche l’opzione, approvata con due leggi del 1971 e 1972, che dava alle imprese già esistenti la possibilità di impiegare le rimesse dei cittadini jugoslavi per migliorare o ampliare la produzione in cambio di un posto di lavoro per il finanziatore stesso e/o un suo familiare. La pratica di “comprare un posto di lavoro” era già diffusa anche prima della sua approvazione legale e, seppur oggetto di continue dispute all’interno del partito per i suoi discutibili principi, rimase in vigore fino alla metà degli anni Ottanta, quando a causa della grave crisi economica del paese perse ogni attrattiva per i lavoratori all’estero (Nota 40).
Per spiegare questo sconfortante scenario, le motivazioni avanzate dalle amministrazioni locali erano l’assenza di infrastrutture e lavoratori qualificati che rendevano le aziende non redditizie e i prodotti di bassa qualità (Nota 41). Se questo era vero, il principale motivo restava comunque e soprattutto una questione di priorità e strategie di sviluppo. Infatti, seppur ufficialmente la crescita economica del paese doveva essere raggiunta tramite lo sviluppo di tutte le sue regioni, la leadership jugoslava aveva gradualmente concentrato i suoi investimenti nella aree più avanzate del paese dove si produceva prevalentemente per l’esportazione (Nota 42). Proporre sul mercato i prodotti delle “fabbriche dei gastarbajteri”, il cui divario tecnologico e infrastrutturale con l’ovest era notevole, era impensabile visto e considerato che anche i migliori prodotti “made in Jugo” erano deprezzati sul libero mercato. L’unico prodotto esportabile dalle aree arretrate era la forza lavoro che, tra l’altro, era anche una delle merci più lucrative (Nota 43). Per un mercato domestico e certamente meno esigente, le fabbriche costruite con le rimesse sarebbero forse riuscite, se non a risollevare le sorti del paese, ad offrire condizioni più favorevoli per il ritorno dei lavoratori e migliori prospettive per le loro comunità di origine. Tuttavia, dato che gli investimenti nella creazione e mantenimento di un mercato domestico divennero sempre più sporadici, i flussi di emigrazione non si interruppero (Nota 44). Nel caso del comune di Imotski, per esempio, nel periodo tra il 1971 e il 2001 la popolazione si è ridotta del 29.8% (Nota 45). Inoltre ancora oggi sembra che segni di “sviluppo interrotto” contraddistinguano questa regione, come emerge da un appello pubblicato di recente in prima pagina sul giornale locale Imotske Novine, che sottolinea la necessità di aprire una struttura sanitaria nella regione, dove una popolazione prevalentemente anziana e/o senza sufficienti mezzi di sussistenza deve percorrere 90 km per raggiungere l’ospedale più vicino (Nota 46). Questi disagi persistono nonostante l’entroterra dalmatino sia una delle aree con la più lunga tradizione migratoria in Jugoslavia e quindi anche una delle prime interessate dal processo di modernizzazione “importato” dagli emigranti che, con i loro risparmi, hanno finanziato spesso importanti opere infrastrutturali quali la canalizzazione, l’illuminazione stradale, la costruzione di chiese, scuole e simili nelle loro (arretrate) comunità di origine (Nota 47).
Ci sono però altre ragioni, oltre a quelle di carattere economico-sociale, che hanno determinato sia l’insuccesso delle politiche di ritorno sia l’esito degli investimenti delle rimesse. Tra queste, un ruolo importante ha rivestito l’ideologia comunista che, nel caso jugoslavo, presenta alcune peculiarità, o meglio, ambiguità.
Sebbene la Jugoslavia fosse un paese non allineato, ciò non significava che le sue “frontiere ideologiche” imponessero rapporti equidistanti con Est e Ovest. Al contrario, la crescente integrazione economica jugoslava nell’economia di libero mercato (anche attraverso l’emigrazione dei gastarbajteri), gli intensi scambi culturali tra il mondo intellettuale jugoslavo ed europeo e non ultimo il massiccio uso di prodotti di consumo occidentali da parte della società jugoslava, rendevano la Jugoslavia un paese per molti aspetti più vicino al blocco occidentale che non a quello orientale (Nota 48). Ciononostante, amministrazioni e comunità locali erano spesso riluttanti e confuse riguardo all’accettazione dei gastarbajteri quando questi tornavano “dall’Ovest” e cercavano di reinserirsi nelle loro comunità d’origine (Nota 49). Infatti, la veloce e profonda apertura all’economia e all’influenza culturale occidentali non era stata accompagnata da un’elaborazione critica da parte dell’élite jugoslava delle implicazioni che tale apertura avrebbe comportato per la società jugoslava e i suoi gastarbajteri, e ciò creava difficoltà nell’autogestire i crescenti interessi e le aspettative che i gastarbajteri dimostravano durante le loro visite in Jugoslavia. Anche se esempi di positiva reintegrazione nel tessuto sociale ed economico locale venivano documentati nella stampa (Nota 50), molto più numerosi erano i casi in cui i gastarbajteri lamentavano discriminazione ed eccessive trafile burocratiche per trovare un lavoro o aprire un’attività dopo il ritorno (Nota 51). Se in parte ciò era motivato dalle condizioni socio-economiche sopra illustrate, vari elementi indicano che anche irrisolte questioni ideologiche giocarono un ruolo non trascurabile.
Come anticipato, fin dai tardi anni Sessanta furono soprattutto i contadini dalle aree centro e sud-orientali del paese ad emigrare ed anche quelli che, differentemente da quanto accadeva nell’emigrazione qualificata, mantenevano legami più stretti con le comunità di origine, dove spesso i componenti familiari rimanevano a seguire i campi e a prendersi cura della prole. Nonostante questa “manifestazione di lealtà”, le autorità jugoslave spesso diffidavano delle intenzioni e delle capacità dei gastarbajteri di investire i loro risparmi in modo “appropriato”. La ragione risiedeva nel fatto che secondo i principi del marxismo i contadini non erano veri comunisti e in quanto tali non pensavano in modo comunista (Nota 52). Il pregiudizio secondo cui i contadini mancavano di integrità ideologica era accresciuto dalla permanenza dei gastarbajteri nella società capitalista, la cui influenza sugli jugoslavi all’estero veniva percepita come dannosa per due principali motivi. Da una parte si pensava che l’ideale di realizzazione sociale ed economica collettiva promosso dal comunismo venisse svalutato a favore di quello del successo individuale. Dall’altra vi era il timore che durante la loro permanenza all’estero i gastarbajteri entrassero in contatto efossero manipolati dall’emigrazione politica che, nel caso della Brd, era particolarmente attiva ed inserita nelle istituzioni caritatevoli che si occupavano del sostegno ai gastarbajteri (Nota 53).
La presenza di tali preconcetti può in parte spiegare perché i media jugoslavi abbiano spesso (ab)usato dell’immagine dei gastarbajteri quali contadini primitivi con soldi ma senza cultura, e come tale immagine si sia accentuata dalla fine degli anni Settanta in avanti, di pari passo con il radicalizzarsi del malessere economico-sociale nel paese. Il generale dissesto socio-economico e politico jugoslavo può essere individuato anche come motivazione dell’intensa attività edilizia che, spesso finalizzata alla costruzione di case al di sopra degli standard locali, caratterizza ancora oggi aree rurali con alta percentuale di emigranti. Sembra infatti superficiale attribuire questo “fenomeno” esclusivamente al desiderio dei gastarbajteri di ostentare il successo ottenuto all’estero (Nota 54). Più plausibile appare invece imputare la visibilità di esso al fallimento del progetto della leadership jugoslava di modernizzare il paese estirpandone le radici rurali e imponendo una modernizzazione di tipo urbano. Nello specifico caso della questione abitativa qui riportato, è importante accennare alla politica edilizia e abitativa che, spesso implementata secondo logiche clientelari e favoritismi, è andata esacerbando disuguaglianze socio-economiche che spesso originavano proprio dalla dicotomia urbano-rurale (Nota 55). Sulle frustrazioni generate da questo fallimento una nuova politica migratoria e una nuova alleanza tra emigranti e forze politiche ha preso piede.

 

1989-1991 La (ri)nascita nazionale e le sue arterie transnazionali. Le vecchie e nuove diaspore jugoslave 

Come Francesco Ragazzi illustra, la categoria “diaspora”, similmente ad altre controverse categorie quali “classe”, “etnia” o “nazione” acquisisce, nel linguaggio politico, un (diverso) significato in base al discorso in cui viene inserita e quindi alla funzione che essa viene ad assumere nel progetto del soggetto politico che la chiama in causa (Nota 56). Nel caso jugoslavo, furono i nazionalismi che, nei tardi anni Ottanta, si riappropriarono del termine “diaspora”. Fino ad allora relegato all’ambito ecclesiastico ed usato per definire le chiese jugoslave all’estero e le loro comunità di fedeli, “diaspora”, entrò gradualmente nel linguaggio politico e mediatico. Se inizialmente era usato in particolari contesti e affiancava le vecchie categorie di classificazione degli emigranti, quali “lavoratori (non) qualificati” ((ne)kvalifikovani radnici), “i nostri stranieri” (naši stranci), “gli emigranti stanziatesi definitivamente all’estero” (iseljenici), successivamente finì per sostituirle. In pratica le differenze di status sociale ed economico che fino ad allora la leadership jugoslava aveva usato per definire i suoi cittadini all’estero vennero sostituite da una nuova concezione del migrante e del suo ruolo nella società: in base alla sua appartenenza etnica (serba, croata, macedone...), il migrante era chiamato a contribuire alla rinascita della sua nazione.
Seppur delle vere pratiche politiche “diasporiche” si consolidarono solo durante le guerre degli anni Novanta, per poi essere “ripulite” dai loro aspetti più militanti ed istituzionalizzate durante i rispettivi processi di transizione democratica, fu nel biennio 1989-1991 che furono poste le basi per una nuova alleanza tra leadership jugoslave e comunità di emigranti all’estero. I casi serbo e croato furono pionieristici al riguardo.
Uno dei segni che cambiamenti di portata epocale stavano prendendo piede nel paese, fu il mutato atteggiamento dei leader di repubbliche e province verso “l’emigrazione non-amica” (neprijatelska emigracija) che, fino ad allora, era stata scrupolosamente controllata, ma esclusa dalla partecipazione alla vita socio-economica e politica del paese (Nota 57). In generale, le comunità di emigranti che venivano raggruppate sotto questa categoria erano quelle i cui membri fondatori avevano lasciato la Jugoslavia negli anni Quaranta e Cinquanta, o in seguito alle purghe dei primi anni Settanta, per la loro manifesta contrarietà e/o critica verso la leadership jugoslava o l’idea di Jugoslavia da loro promossa. Insediatisi per lo più in terre oltreoceano, molti membri di queste comunità si erano integrati nel sistema del paese ospite, raggiungendo in alcuni i più alti gradini della società (Nota 58).
Fu il leader del Partito comunista serbo, Slobodan Milošević, che aprì la strada alla svolta nella politica verso “l’emigrazione non-amica”. Dopo aver abolito le più restrittive leggi sul rientro degli emigranti politici, l’uomo forte di Belgrado iniziò a costruire una vasta rete di contatti con affermate personalità serbe del mondo economico, culturale e politico all’estero, specialmente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove la maggior parte dell’emigrazione politica serba si era stabilita. Il primo (riuscito) obiettivo fu riconciliare la chiesa ortodossa serba che, nel 1963, si era divisa in due fazioni, l’una riconoscendo la leadership del patriarca di Belgrado, l’altra, guidata dal vescovo della comunità serba ortodossa di Chicago, rinnegandola. In gran parte a causa di queste fratture interne le comunità politiche serbe, differentemente da quelle croate, erano rimaste silenti durante il periodo socialista (Nota 59). La riconciliazione e riunificazione della chiesa serba fu ufficialmente sancita nel 1989 nel giorno di San Vito (28 giugno) di fronte al monumento del Gazimestan, eretto in commemorazione della sconfitta dell’armata serba guidata dal leggendario principe Lazar per mano dell’esercito ottomano a Kosovo Polje (1389). Con questo atto “simbolico” gli alti ranghi della chiesa serba della diaspora e personaggi di spicco della comunità serbo-americana, decisero di unire le loro risorse per sostenere il progetto di Milošević di riunire tutti i serbi in uno (grande) stato serbo (Nota 60).
Pochi mesi dopo, ad una simile alleanza veniva dato rilievo da parte della televisione croata, con un filmato dell’aeroporto di Zagabria invaso da esultanti gruppi di emigranti croati che, sventolando bandiere croate, venivano a sostenere la campagna elettorale del futuro presidente e leader dell’Unione democratica croata (Hdz) Franjo Tudjman (Nota 61). Quest’ultimo, politicamente isolato solo pochi anni prima, nel corso del 1987 aveva intrapreso svariati viaggi negli Stati Uniti e in Canada, durante i quali aveva visitato le comunità croate e i loro circoli culturali e religiosi in cerca di supporto (Nota 62).
Sebbene sia difficile quantificare la portata del contributo finanziario che le diaspore croate e serbe diedero ai rispettivi leader nazionali(sti), le stime gravitano sui milioni di dollari in entrambi i casi (Nota 63). La partecipazione tuttavia non si limitò al supporto economico. Vari furono gli incarichi di governo ricoperti da membri della diaspora ritornati in patria (Nota 64).
La ricezione e percezione della “chiamata alle armi” di cui tutte le leadership delle repubbliche/province coinvolte si fecero promotrici ebbero esiti nel complesso limitati e difficilmente identificabili, come diverse erano le storie personali che sotto la categoria di “diaspore” si celavano. Molti componenti delle comunità jugoslave d’oltreoceano, infatti, dopo un iniziale sostegno alla causa nazionale, si resero conto dei suoi esiti disastrosi e indesiderati. Altri ancora non appoggiarono mai le politiche belligeranti di secessione, ma cercarono, attraverso azioni umanitarie, di impedirne o limitarne i danni. Ancora oscure e poco indagate sono anche le reazioni dei vecchi e nuovi gastarbajteri, che spesso continuavano a vivere tra un paese europeo e la Jugoslavia, in attesa di un definitivo ritorno a casa (Nota 65). Se è noto che alcuni noti criminali internazionali ritornarono in Jugoslavia quali mercenari o iniziatori di lucrativi business illegali (Nota 66), alcune ricerche hanno mostrato come una pratica diffusa tra le famiglie transnazionali (ossia con alcuni membri rimasti in Jugoslavia e altri trasferiti all’estero) fu di mandare denaro ai membri familiari rimasti in Jugoslavia per sopravvivere ai disagi della guerra e, nel caso serbo, dell’embargo (Nota 67). Il dato indiscutibile, dimostrato da varie analisi e studi, è che le guerre hanno portato a nuovi massicci flussi migratori in uscita dalla Jugoslavia mentre quelli in entrata sono stati enormemente inferiori (Nota 68).

 

Conclusioni

La fine dell’esperimento jugoslavo e le guerre che l’hanno marcata hanno segnato in modo differente le sei repubbliche e le due province autonome che vi avevano preso parte. La Slovenia, al cui confine iniziarono le ostilità, fu la prima a dichiarare l’indipendenza (Nota 69) e ad iniziare il processo di democratizzazione. La Croazia, e in seguito la Bosnia Erzegovina, furono il principale teatro dei conflitti nel periodo 1991-1995, mentre la Macedonia, che attraversò gli anni Novanta senza spargimenti di sangue, si ritrovò in una sanguinosa guerra civile all’inizio del nuovo millennio. Il Montenegro, fino al 2006 membro della ridimensionata Federazione jugoslava insieme alla Serbia con le sue province autonome Voivodina e Kosovo, non fu direttamente coinvolto nel conflitto, ma la sua leadership appoggiò la politica di Milošević che portò alla guerra in Bosnia Erzegovina e successivamente nella provincia del Kosovo. Nonostante le scelte fatte dalle leadership jugoslave nel corso degli anni Ottanta e Novanta siano state diverse, esperienza comune a tutti gli stati dell’ex Jugoslavia è stato un assetto demografico totalmente sconvolto. Quale risultato, e spesso quale scopo politico, i nuovi stati emergenti dal mosaico etnico jugoslavo sono stati “etnicamente” “ripuliti”.

 

NOTE:

Nota 1 Il termine gastarbajteri, traslitterazione dal tedesco Gastarbeiter (lavoratore/i ospite/i)era ed è tuttora usato in serbo-croato per definire gli emigranti economici. Da un punto di vista socio-linguistico, il termine ha assunto nel corso degli anni un’accezione negativa sia in rappresentazioni mediatiche e filmiche, sia in ambiti urbani, dove gastarbajter viene spesso usato in termini dispregiativi e stereotipati per indicare l’emigrante ignorante che, arricchitosi grazie a logoranti lavori in Europa, è rimasto e rimane irrimediabilmente un contadino dalle maniere rozze. Inoltre, alcuni circoli intellettuali giovanili, spesso attribuiscono ai gastarbajteri, e più in generale agli abitanti delle aree rurali la (presunta) colpa di essere stati la roccaforte del supporto alle leadership nazionaliste, contribuendo in questo modo allo scoppio delle guerre jugoslave. Cfr. D. Ondřej, Gastarbajteri: Rethinking Yugoslav Economic Migrations towards the European North-West through Transnationalism and Popular Culture, in S. G. Ellis, L. Klusáková (eds.), Imagining Frontiers Contesting Identities, Plus, Pisa 2007, pp. 277-301; P. Marković, Srpski Gastarbejteri kao Factor Modernizacije u Srbiji, in «Istorija XX veka», 2 (2005), pp. 145-163; S. Jansen, Antinacionalizam. Etnografija otpora u Beogradu i Zagrebu, Biblioteka XX vek, Beograd 2005. Torna al testo

Nota 2 I. Baučić, Neka suvremena obilježja i problemi vanjskih migracija jugoslovenskih radnika, in «Sociologija», 2 (1973), p. 204; C. U. Schierup, Migration, Socialism and the International Division of Labour. The Yugoslav Experience, Averbury, Aldershot 1990, pp. 100-101. Torna al testo

Nota 3 Si veda C. U. Schierup, Migration, cit., pp. 100-106, 119-124. Torna al testo

Nota 4 Si veda M. Macura, M. Rašević, T. Mulina, Stanovništvo podnunavskog regiona, Ekonomski Institut, Beograd 1984, pp. 9-13; C. U. Schierup, Migration, cit., pp. 23-55; D. Pleština, Regional Development in Communist Yugoslavia. Success, Failure, and Consequences, Westview, Boulder-San Francisco-Oxford 1992, p. 44. Torna al testo

Nota 5 F. Singleton, B. Carter, The Economy of Yugoslavia, Crom Helm and St. Martin, London-Cramberra and New York 1982, p. 129; H. Sundhaussen, Istorija Srbije od 19. do 20. veka, Clio, Beograd 2009, pp. 388-389. Torna al testo

Nota 6 In italiano tradotto con “norme di buona fabbricazione”, Gmp si riferisce ad un insieme di norme di produzione che assicurano la qualità del prodotto. Il fatto che Gmp sia generalmente usato in ambito farmaceutico porta a pensare che nel testo qui citato l’uso ripetuto del termine sia dovuto ad un errore di battitura e che l’autrice si riferisca invece al Prodotto nazionale lordo, in inglese Gnp. Torna al testo

Nota 7 D. Pleština, Regional Development, cit., pp. 58-64. Torna al testo

Nota 8 U. Brunnbauer, Labour Emigration from the Yugoslav Region from the late 19th Century until the End of Socialism: Continuities and Changes, in U. Brunnbauer (ed.), Transnational Societies, Transterritorial Politics. Migrations in the (Post-) Yugoslav Region, 19th-20th Century, Oldenbourg, München 2009, pp. 43-47; O. N. Haberl, Die Abwanderung von Arbeitskräften aus Jugoslawien. Zur Problematik ihrer Auslandsbeschäftigung und Rückführung, Oldenburg, München 1978, pp. 33-69. Torna al testo

Nota 9 K. Novinšćak, The Recruiting and Sending of Yugoslav “Gastarbeiter” to Germany: Between Socialist Demand and Economic Needs, in U. Brunnbauer, (ed.), Transnational Societies, cit., pp. 121-143; W. Zimmerman, Open borders, Non Alignment and the Political Evolution of Yugoslavia, Princeton University Press, Princeton 1987, pp. 106-131. Torna al testo

Nota 10 I. Baučić, B. Gross, Rückkehr und Reintegration jugoslawischer Arbeitnehmer aus der Bundesrepublik Deutschland: Deutsch-jugoslawische Untersuchung der Zukunftpläne jugoslawischer Arbeitsmigranten und ihrer Realisierung nach der Rückkehr, Bundesminister für Arbeit und Sozialordnung, Bonn 1987, pp. 94-95; Lj. Petković, Problemi medjunarodnih migracija radne snage s posebnim osvrtom na Jugoslaviju, Naučna Knjiga, Beograd 1988. Torna al testo

Nota 11 Arhiv Jugoslavije (Archivio Jugoslavo, d’ora in poi AJ), fondo 142-II Socialistički Savez radnog naroda Jugoslavije (Alleanza socialista del popolo dei lavoratori jugoslavo, d’ora in poi SSRNJ 142-II), fasc. 481, f. 5, Savez Sindikata Jugoslavije, Jugoslovenski Sindikati i Migracija Radnika, Beograd 24-26.4.1972. Torna al testo

Nota 12 D. Pleština, Regional Development, cit., pp. 85-88. Torna al testo

Nota 13 D. Rusinow, The Yugoslav Experiment 1948-1974, University of California Press, Berkley-Los Angeles 1978, p. 319. Torna al testo

Nota 14 Ivi, pp. 203-204. Vedi anche S. Woodward, Socialist unemployment. The political economy of Yugoslavia 1945-1990, Princeton University Press, Princeton 1995. Torna al testo

Nota 15 I. Baučić, Neka suvremena obilježja,cit., pp. 183-214; U. Brunnbauer, Labour Emigration, cit., pp. 17-49; A. Miletić, (Extra-)Institutional Practices, Restrictions and Corruption. Emigration Policy in the Kingdom of Serbs, Croats, and Slovenes (1918-1928), in U. Brunnbauer (ed.), Transnational Societies, cit., pp. 95-119; W. Zimmerman, Open borders, cit., pp. 95-105. Torna al testo

Nota 16 AJ, SSRNJ 142-II, fasc. 749, Savezna Konferencija SSRNJ, Stenografske Beleške sa Medjurepubličkog Savetovanja po Pitanjima naših Radnika Zaposlenih u Inostranstvu, održanog 17 i 18 X 1972, Ljubljana, Oktobar 1972. Torna al testo

Nota 17 Tra i numerosi articoli di quotidiani dedicati al tema: R. Mandić, Vratite se, Zemljaci!, in «Večernji List», 17 dicembre 1970; M. A., Produzeća čekaju Radnike, in «Večernje Novosti», 3 maggio 1971; nomen nescio (articolo non firmato, d’ora in poi n.n.), Ima Posla za Povratnike, in «Večernje Novosti», 20 dicembre 1971. Torna al testo

Nota 18 Tra i numerosi articoli di quotidiani dedicati al tema: n.n. Kako «vratiti» 60.000 Radnika, in «Ekonomska Politika», 20 luglio 1970; S. Manojlović Lako je Otići, Kako se Vratiti, in «Politika Ekspres», 10 dicembre 1970; (Tanjug), Slovenija otvara Sva Vrata, in «Borba», 16 dicembre 1970. Torna al testo

Nota 19 AJ, SSRNJ 142-II, fasc. 749, f. 3, Savezna Konferencija SSRNJ, Stenografske Beleške sa Medjurepubličkog Savetovanja po Pitanjima naših Radnika Zaposlenih u Inostranstvu, održanog 17 i 18 X 1972, Ljubljiana, Oktobar 1972. Torna al testo

Nota 20 AJ, SSRNJ 142-II, fasc. 480, f. Br33-344/2, Predsedništvo SKJ, Opunomoćstvo PSKJ, senza titolo, s.d. Torna al testo

Nota 21 D. Rusinow, The Yugoslav Experiment, cit., pp. 253-280; D. Jović, Yugoslavia. A State that Withered Away, Purdue, West Lafayette Indiana 2009, pp. 95-124. Torna al testo

Nota 22 O. N. Haberl, Die Abwanderung von Arbeitskräften, cit., p. 113; D. Rusinow, The Yugoslav Experiment, cit., p. 125. Torna al testo

Nota 23 H. Sundhaussen, Istorija Srbije, cit., pp. 407-411. Torna al testo

Nota 24 Si veda D. Pleština, Regional Development, cit., pp. 88-93. Torna al testo

Nota 25 O. N. Haberl, Die Abwanderung von Arbeitskräften, cit., p. 113; V. Ivanović, Geburtstag pišeš normalno. Jugoslovenski gastarbajteri u Austriji i SR Nemackoj 1965-1973, Institut za savremenu istoriju, Beograd 2012, p. 280; J. Winterhagen, Die Pioniere von Imotski. Die Verwendung von Remittances am Beispiel Jugoslawiens, in U. Brunnbauer, K. Novinšćak, C. Voß (Hrsg.), Gesellschaften in Bewegung. Emigration aus und Immigration nach Südosteuropa in Vergangenheit und Gegenwart, 48. Internationale Hochschulwoche der Südosteuropa-Gesellschaft in Tutzing 5-9 Oktober 2009, «Südosteuropa-Jahrbuch» 38 (2011), pp. 61-92. Torna al testo

Nota 26 D. Pleština, Regional Development, cit., p. 56. Torna al testo

Nota 27 S. Filipović, Analiza stanja i mogućnosti reintegracije radnika povratnika u jugoslovensku privrednu strukturu, in «Zbornik matice Srpske za društvene nauke», 78 (1985), pp. 37-50. Torna al testo

Nota 28 Si vedano per esempio i diversi contributi dedicati al tema in D. Kubat (ed.), The Politics of Return. International Return Migration in Europe, Centro studi emigrazione-Center for migration studies, Roma-New York 1983. Torna al testo

Nota 29 Le stime sul numero dei ritorni sono varie e si differenziano sensibilmente. In generale, gli analisti della regione tendono a considerare il numero dei ritorni sensibilmente maggiore a quello registrato dalle agenzie jugoslave per via dell’alto tasso dell’emigrazione (e quindi anche dei ritorni) informale. Diversamente, studiosi occidentali sono propensi ad attribuire un peso maggiore al (presumibile) alto tasso di re-emigrazione e propongono stime sul numero dei ritorni nettamente inferiori. Per esempio, mentre nel periodo 1964-1985 gli studiosi occidentali ritengono siano tornati circa 300.000 gastarbajteri, analisti jugoslavi ipotizzano che i ritorni siano stati quasi il doppio. Si veda C. U. Schierup, Migration, cit., pp. 100-106, 119-124. Torna al testo

Nota 30 I. Baučić, Stanje vanjskih migracija iz Jugoslavije krajem sedamdesetih godina, in «Rasprave o migracijama», 57 (1979); C. U. Schierup, Migration, cit., pp. 100-106, 119-124. Torna al testo

Nota 31 Organizacija za ekonomsku suradnju i razvoj (OECD), Sistem Stalnog Praćenja Migracija (SOPEMI). Izveštaj za 1978. godinu, numero monografico di «Rasprave o migracijama», 52 (1979). Per un’analisi dettagliata si veda anche J. Winterhagen Vom “Gastarbeiter” zum “transnationalen” Modernisierer. Die Verwendung von Remittances am Beispiel des ehemaligen Jugoslawien, tesi di Master discussa alla Freie Universität di Berlino nel giugno 2006. Torna al testo

Nota 32 Erano numerose le lettere pubblicate sulla rivista settimanale per gli Jugoslavi all’estero «Novosti iz Jugoslavije» (Novità dalla Jugoslavia) di gastarbajteri che raccontavano la loro nostalgia di casa e la voglia di tornare al più presto. Tra gli innumerevoli esempi V. Hasković, Dosta mi je od Tudjine, in «Novosti iz Jugoslavije», broj 136 (VII), 10 febbraio 1972. Torna al testo

Nota 33 V. Ivanović, Geburtstag pišeš normalno, cit., p. 282. Torna al testo

Nota 34 J. Winterhagen, Vom “Gastarbeiter” zum “transnationalen” Modernisierer, cit., pp. 37-39. Torna al testo

Nota 35 M. Milošević, Hoće li Aržano postati primer za ugled, in «Novosti iz Jugoslavije», broj 161(VII) 1 novembre 1973, pp. 4-5. Torna al testo

Nota 36 V. Ivanović, Geburtstag pišeš normalno,cit., p. 282; O. N. Haberl, Die Abwanderung von Arbeitskräften, cit., pp. 151-152; J. Winterhagen, Vom “Gastarbeiter” zum “transnationalen” Modernisierer, cit., pp. 39-44; Ead., Die Pioniere von Imotski, cit. Torna al testo

Nota 37 N.n., Predlozi od Aržana, in «Novosti iz Jugoslavije», broj 219(X) 24 aprile 1975, p. 4. Torna al testo

Nota 38 V. Ivanović, Geburtstag pišeš normalno, cit., p. 285. Si vedano anche: n.n., Radnici Zaposleni u Inostranstvu Kreditiraju Domaća Preduzeća in «Politika», 14 marzo 1972; R. Djukić, Bezplatni Placevi na <Panoniji>, in «Politika», 4 aprile 1972; S. M., Kupuju Radna Mesta, in «Večernje Novosti», 8 novembre 1972; (Tanjug), Ustedjevinu za Posao, in «Borba», 30 aprile 1972. Torna al testo

Nota 39 AJ, SSRNJ 142-II, fasc. 281m, Radni Materijal. Povratak i reintegracija migranata. Jugoslovenska politika i njena realizacija, senza autore, s.d. Torna al testo

Nota 40 V. Ivanović, Geburtstag pišeš normalno, cit. Torna al testo

Nota 41 D. Pleština, Regional Development, cit. Torna al testo

Nota 42 Cfr. L. S. Burg, Conflict and Cohesion in Socialist Yugoslavia. Political Decision Making Since 1966, Princeton University Press, Princeton 1983, pp. 52-59; C. U. Schierup, Quasi-Proletarians and a Patriarchal Bureaucracy: Aspects of Yugoslavia’s Re-Peripheralisation, in «Soviet Studies» 1 (1992), pp. 79-99. Torna al testo

Nota 43 B. Horvat, The economic system and stabilization, in «Eastern European Economics», 1 (1984), p. 72 citato in I. Bajić–Hajdunović, Serbian Remittances in the 21st century: Making sense of interplay of history, post-communist transformation of social classes, development policies and ethnographic evidence, Paper per il Migration Working Group Seminar, Florence: European University Institute 27 January 2007, p. 13. Torna al testo

Nota 44 Cfr. M. Macura, M. Rašević, T. Mulina, Stanovništvo podunavskog regiona, cit. Torna al testo

Nota 45 M. Glamuzina, Ž. Šiljković, A. Rimanić, Različitosti u demografskom razvoju Imotskog i okolnih ruralnih naselja, in «Geoadria» 2 (2005), pp. 191-209. Torna al testo

Nota 47 Cfr. J. M. Halpern, A Serbian Village in Historical Perspective, Holt, Reinhart and Winston, New York 1972, pp. 73-75; D. Rusinow, The Yugoslav Experiment, cit., pp. 138-141. Torna al testo

Nota 48 Si veda R. Vučetić, Koka-kola socijalizam, Službeni Glasnik, Beograd 2012. Torna al testo

Nota 49 AJ, fondo 557 Savezni Komitet za rad i zapošljavanje (Comitato Federale per il lavoro e l’impiego), fasc. 6F, Institut za geografiju. Sveučilista u Zagrebu. Odjel za migracije. Sadašnje prepreke u realizaciji politike vračanja radnika zaposlenih u inozemstvu i mogućnosti za njihovo otklanjanje. Istrazivački Projekt za Savezni Sekretarijat za rad i socijalnu politiku, Zagreb 15.6.1973. Torna al testo

Nota 50 N.n., Posao zove iz tudjine, in «Večernje Novosti», 24 dicembre 1971; M. Pajdić, Zbogom becka šumo!, in «Svet», 20 luglio 1973; n.n., Teo je opet, in «Ilustrovana Politika», 23 gennaio 1973. Torna al testo

Nota 51 Tra i numerosi articoli di quotidiani sull’argomento: K. F., Praznici- Prilika za Razgovore s <Inozemcima>, in «Vjesnik», 28 ottobre 1970; A. Radaković, Naućnika neće Niko, in «Ilustrovana Politika», 12 gennaio 1971; M. Pajdić, Janez se ne Vraća Kući, in «Večernje Novosti», 9 gennaio 1973. Torna al testo

Nota 52 D. Rusinow, The Yugoslav Experiment, cit., pp. 205,206; B. Horvat, The Yugoslav Economic System. The first labor-managed economy system in the making, International Arts and Sciences Press, New York 1976, pp. 85-111. Torna al testo

Nota 53 Si veda N. Baković, Socialist “Oasis” in a Capitalist “Desert”. Yugoslav State Propaganda for Economic Migrants in FR Germany (1966-1975), tesi discussa alla Central European University di Budapest, dipartimento di storia, giugno 2012, pp. 60-68. Torna al testo

Nota 54 Cfr. P. Marković, Srpski Gastarbejteri, cit. Torna al testo

Nota 55 Cfr. B. Le Normand, The House that Socialism Built: Reform, Consumption and Inequality in Postwar Yugoslavia, Max Weber Programme (MWP) Working Papers (WP), Florence: European University Institute 2008. Torna al testo

Nota 56 F. Ragazzi, The Croatian “Diaspora Politics” of the 1990s: Nationalism Unbound?, in U. Brunnbauer (ed.), Transnational Societies, cit., pp. 147-149. Torna al testo

Nota 57 Ivi, pp. 152-157. Torna al testo

Nota 58 P. Hockenos, Homeland Calling. Exile Patriotism and the Balkan Wars, Cornell University Press, Ithaca-New York 2003. Torna al testo

Nota 59 Ivi, pp. 119-121; S. Bernard, Emigrazione, reti e coscienza di appartenenza: il caso dell’emigrazione serba prima e dopo la dissoluzione della Jugoslavia, in A. D’Alessandri, A. Pitassio (a cura di), Dopo la pioggia. Gli stati della ex Jugoslavia e l’Albania, Argo, Lecce 2011, pp. 492-496. Torna al testo

Nota 60 P. Hockenos, Homeland calling, cit., p. 128. Torna al testo

Nota 61 Ivi, p. 5. Torna al testo

Nota 62 Ivi, pp. 17-102; F. Ragazzi, The Croatian “Diaspora Politics”, cit., pp. 158-167. Torna al testo

Nota 63 P. Hockenos, Homeland calling, cit., pp. 10, 54, 101. Torna al testo

Nota 64 S. Bernard, Emigrazione, cit. Torna al testo

Nota 65 Si vedano, per esempio, J. Čapo Žmegač, Family Dispersal Across National Borders: A Strategy for Betterment, in U. Brunnbauer (ed.), Transnational Societies, cit., pp. 267-282; S. Jansen, Troubled locations: Return, the life course, and the transformations of ‘home’ in Bosnia Herzegovina, in «Focaal: European Journal of Anthropology», 49 (2007), pp. 15-30. Torna al testo

Nota 66 Si veda F. Strazzari, Notte balcanica. Guerre, crimini, stati falliti alle soglie d’Europa, il Mulino, Bologna 2008. Torna al testo

Nota 67 Si veda I. Bajić-Hajdunović, Serbian Remittances, cit. Torna al testo

Nota 68 H. Sundhaussen, Istorija Srbije, cit., pp. 497-498. Torna al testo

Nota 69 La Slovenia e la Croazia dichiararono l’indipendenza lo stesso giorno, il 25 giugno 1991. Tuttavia, su iniziativa della neonata Unione Europea e della comunità internazionale, fu richiesto al presidente croato Franjo Tudjman di “posticipare” la dichiarazione di indipendenza croata di alcuni mesi. Torna al testo

 

Questo saggio si cita: S. Bernard, Il ritorno dei gastarbejteri nella politica migratoria della Jugoslavia socialista (1969-1991), in «Percorsi Storici», 1 (2013) [http://www.percorsistorici.it/numeri/numero-1/titolo-e-indice/saggi/sara-bernard-il-ritorno-dei-gastarbajteri-nella-politica-migratoria-della-jugoslavia-socialista-1969-1991]

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