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Maria Paola Morando

Epoche e immagini. Letture. Il Novecento - Tamara de Lempicka (Nota 1)

 

Il presente contributo inizia un percorso didattico di cultura visuale articolato in più parti, volto ad illustrare immagini particolarmente rappresentative di un’epoca storico-culturale e destinate a reagire con l’immaginario collettivo a noi contemporaneo.
Concentrare lo sguardo, riconoscere l’immagine come emblematica: un processo che non è strettamente definitorio perché mette in moto anche la soggettività; poi allargare i cerchi concentrici delle conoscenze, includendo correlazioni e i contatti tra le persone, i fatti, gli oggetti, il pensiero, cercando di spiegare i motivi della fascinazione esercitata dall’immagine. È forse un embrione di educazione allo sguardo?
L’esperimento si può provare di fronte ad un dipinto della pittrice Tamara de Lempicka (v. Autoritratto e My Portrait).
Linee semplificate, taglio diagonale, un soggetto che nella pittura dei primi trent’anni del Novecento non era mai apparso: una donna (elegante!) che guida un’automobile dal colore luminoso, che sa di non passare inosservata nonostante lo sguardo noncurante.
Quello che vediamo sono due toni di colore variati nella loro luminosità tramite i rilievi fortemente evidenziati, ma soprattutto il paradosso di un’immagine immobile che suggerisce il senso del moto veloce, del dinamismo: l’osservatore ha il tempo di contemplare l’immagine bloccata, definita da netti contorni, senza poter allontanare dalla mente la sensazione della velocità. La pittrice non si serve della frammentazione dell’immagine o della divisione dei tocchi di colore per alludere alla mobilità, eppure abbiamo la sensazione che l’automobile stia passando; siamo inchiodati dall’attimo eterno in cui gli occhi gelidi della figura femminile si sono fissati nei nostri e, distrattamente, fugacemente, ci hanno incatenato.
Siamo nel 1929 e la figura rappresentata è quella della pittrice Tamara de Lempicka, che si ritrae a bordo di una Bugatti nel momento culminante della sua maturazione come artista. Appare come una donna che ha un piglio dominatore sul mezzo meccanico che tanto contribuisce a darle un’aria di sfrontata eccezionalità; l’immagine infatti fa eco all’esaltazione della velocità futurista, ma ne ha trasformato il vitalismo in controllo, supremazia, dominio.
Tamara Gurwik-Gorska è una transfuga. Nobile polacca, nata a Varsavia nel 1898, russa per aver sposato Tadeusz Lempicki nel 1916, si è allontanata dalla Russia prima che fosse troppo tardi per non compromettere il suo futuro, portando con sé nell’esilio parigino, oltre all’allure aristocratica mai dismessa neanche nei tempi più difficili, un marito viziato e annoiato e diversi gioielli e pellicce. Pur nelle ristrettezze causate dall’abbandono dei beni e dalla scarsa propensione al lavoro del marito Tadeusz de Lempicki, la futura pittrice non aveva dimenticato il fasto delle più esclusive residenze imperiali, con le loro feste e le loro prestigiose collezioni d’arte e, inoltre, le vacanze con la nonna negli hotel più eleganti e alla moda di tutta Europa; aveva quindi mantenuto un tenore di vita consono alla propria estrazione sociale.

Fu proprio la sua educazione artistica, dote necessaria alle fanciulle altolocate dai tempi di Baldesar Castiglione, insieme al possesso di una visione cosmopolita della vita e alla conoscenza aggiornata dei fatti artistici, a fornirle la possibilità di inventarsi un lavoro-non lavoro, come quello della pittura, che le consentisse anche di procurarsi un reddito senza sconfessare la propria condizione e che anzi si alimentasse proprio dalla frequentazione degli ambienti selezionati e di prestigio che sentiva come propri.
In un contesto difficile per le donne artiste, che a Parigi solo dal 1897 avevano avuto la possibilità di frequentare l’insegnamento ufficiale, l’Ecole des Beaux-Arts (con il suo celebre Prix de Rome), e che erano molto numerose (benché la storia dell’arte le abbia trascurate e continui a farlo), Tamara de Lempicka riuscì ad ottenere una visibilità molto elevata ed una notevole fortuna di mercato. Quali i motivi per cui è diventata l’icona di un fenomeno come l'Art Déco?
Molte donne artiste sue contemporanee sono rimaste nell’alveo del dilettantismo, loro malgrado; per altre si è reso necessario collocarsi all’ombra di un uomo importante, dal rapporto col quale sono spesso state stritolate, professionalmente o psicologicamente; altre ancora, dopo l’età giovanile, hanno lasciato le ambizioni di porsi nel mondo dell’arte da protagoniste.
Tamara de Lempicka volle gestire individualmente il suo apprendistato artistico. Non fu attiva, ad esempio, nell’ambito dell’Union des femmes peintres et sculpteurs, fondata nel 1881 per rivendicare l’apertura di spazi per il riconoscimento dell’attività artistica al femminile.
Mentre la sorella si iscrisse all'Ecole Spéciale d’Architecture, lei frequentò i corsi gratuiti dell’Académie de la Grande Chaumière; in seguito passò all’Académie Ranson, dove era docente il pittore simbolista Maurice Denis. Anche l’attività di copia, dalle opere del Louvre o da riproduzioni, venne praticata per allenare l’occhio e la mano. La svolta tuttavia arrivò con il 1921, quando Tamara diventò allieva di André Lhote e contemporaneamente compì un viaggio in Italia, offertole da una vicina di casa, Ira Perrot, la sua amante.
L’incontro con Lhote fu determinante, e già dal 1922 la Lempicka iniziò ad esporre.
Lhote era stato scultore prima di darsi alla pittura, e dal 1912 aveva cercato di conciliare la pittura cubista con la pittura di impronta classica, avendo Ingres come punto di riferimento basilare; ciò corrispose alla perfezione con la propensione della pittrice a mescolare antico e moderno: cosicché ella poté iniziare a maturare una forma espressiva molto personale, caratterizzata da una forte deformazione e dalla tendenza all’ingigantimento dei volumi.
Del simbolismo di Denis nulla era rimasto: né il colore delicato e piatto, né la semplificazione della figura, né la spiritualità; spira al contrario in questi dipinti lo spirito moderno, appena percorso da una vena di voluttà (v. Portrait of Ira P. e Portrait of Mrs. M.).
L’insieme di tali caratteristiche ed il colore smaltato steso in superfici lucide e quasi metalliche sottilmente accordate sulla base dei toni freddi fanno pensare alle opere del Bronzino, che Tamara studiò nei suoi soggiorni italiani; le pose invece ai suoi amati manieristi, in particolare al Pontormo.
Siamo tuttavia distanti anni luce da una semplice ripresa o da una semplice citazione: il rapporto della Lempicka con i suoi riferimenti pittorici è di assimilazione. Bronzino fornisce elementi all’estetica della pittrice, così come altri spunti anche più contemporanei. Il Bronzino è uno strumento, così come lo sono stati i giocattoli russi, il cubismo russo-francese, le scenografie di Diaghilev, le icone, l’arte manierista, il ritorno all’ordine franco-italiano, l’arte da museo e la fotografia di moda, la copia dall’antico e dal manifesto pubblicitario, la tecnica fotografica filtrata dalle sperimentazioni pittoriche, coi tagli sghembi e angolati dell’immagine. Così come è abituale per la Lempicka conversare usando termini in lingue diverse, così succede nella pittura. Il linguaggio è reso aristocratico ed originale dalla combinazione creativa di elementi densi di connotazioni.
Tutto consiste di un’unica materia, tutto ciò che viene dipinto dalla Lempicka appartiene alla stessa sostanza volumetrica e cromatica che conferisce un’atmosfera di astrazione alle cose rappresentate. La semplificazione portata nella figurazione dalle avanguardie, in primis dal cubismo, è congeniale a queste immagini, così bloccate ma nello stesso tempo permeate di modernità, tanto da costituire sia la testimonianza di una temperie culturale e di uno stile di vita, quanto un modello elevato di riferimento per le signore del suo tempo (tutte le figure infatti appaiono come mannequins).  Ancora oggi, poche variazioni sono state apportate alle pose nelle foto di moda o pubblicitarie.
Tamara de Lempicka fu l’interprete di un gusto che si era precisato col maturare del suo stile pittorico, il gusto Déco. Il Déco ricevette una consacrazione tramite l'Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industrielles Modernes, tenutasi a Parigi tra l’aprile e l’ottobre 1925; infatti questo stile fu preponderante nelle arti applicate, sostituendo alla linea flessuosa dell’Art Nouveau le forme geometriche, le linee spezzate, i motivi a zig zag. Nell’ambito della pittura è innegabile la sintonia della Lempicka con questo che, più che uno stile, ebbe le manifestazioni e l’estensione di una moda (v. Sharing Secrets).
Dal punto di vista personale, con gli anni Venti era iniziato il periodo più sregolato e più movimentato della vita della pittrice.
Approdata a Parigi nel 1918, madre di una figlia, Kizette, ritratta più volte pittoricamente, la Lempicka aveva iniziato assai presto a frequentare una schiera di amanti di entrambi i sessi, alimentando accuratamente la propria fama di donna perversa ed eccentrica, una specie di mito dei “folli anni Venti” parigini. L’uso di cocaina, le notti trascorse nei locali parigini, le frequentazioni artistiche sempre più intense e noncuranti dei ritmi familiari l’avrebbero condotta al divorzio nel 1928.
Molti episodi significativi risalgono a quegli anni.
Tra i più aneddotici, l’incontro con Marinetti, in un locale, in cui decisero di andare ad incendiare il Louvre. L’impresa si concluse al commissariato, come riferisce la principale biografa della Lempicka, Gioia Mori, dove i due andarono a recuperare l’automobile, rimossa a causa di una sosta vietata; poi quello dell’incontro con D’Annunzio ed il soggiorno della Lempicka al Vittoriale, nel 1927, documentato dal diario della governante pubblicato nel 1977, in cui le due “vecchie volpi” si studiarono a vicenda. D’Annunzio vide in lei una nuova preda, mentre la pittrice, che non era certo un’ingenua, ambiva a catturare l’immagine del poeta per farne uno dei suoi icastici ritratti maschili e, forse, per sfruttarne la notorietà. L’incontro però non portò ai risultati sperati.
Il 1925, anno topico, che ricorre spesso nella cronaca e nella storia, denso di fatti essenziali e limite iniziale del fascismo regime, è l’anno in cui si verificò una mostra personale della pittrice in Italia, organizzata in base all’accordo con il conte Emanuele Castelbarco per il 28 novembre. Con la mediazione di Marinetti, quindi, arrivarono a Milano trenta dipinti e diciotto disegni, che vennero esposti nella galleria Bottega di Poesia di Castelbarco.
Questo episodio è di grande interesse perché la critica, e in particolare Ugo Ojetti, credette di poter accostare la pittura di Tamara a quella dei pittori Ubaldo Oppi e Felice Casorati in base al comune superamento dello sregolamento delle avanguardie; sta di fatto che le somiglianze tra la pittura di Casorati, qui presa ad esempio, e quella della Lempicka, nonostante qualche analogia, non sembrano avvicinarsi molto. È utile confrontare i rispettivi Concerto, del 1924 (v. Concerto) e il Il ritmo, del 1925.
L’impianto geometrico di Casorati, di ascendenza pierfrancescana, mostra tutt’altra concezione rispetto a quello tutto basato sulle masse ed i volumi, e giocato più in superficie, della Lempicka. Nulla ne Il ritmo fa pensare al realismo magico, o forse solo il particolare della figura che suona. L’insieme può essere accostato più coerentemente alla tematica delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, più prostitute in ozio che nudi plastici analizzati nei loro movimenti. Probabilmente Ojetti basava le sue osservazioni sull’idea sintetizzata da Cocteau alla fine della prima guerra mondiale nelle parole: rappel à l'ordre (ritorno alla figurazione, al realismo dell’immagine) (v. Rythm).
Il pubblico italiano comunque poté meglio rispecchiarsi nel ritorno all’ordine autoctono, piuttosto che in quello della Lempicka che era costituito principalmente dal gruppo di Novecento. Mentre incalzava l’arte di regime, la semplicità e la nobile quotidianità di Novecento, oltre che tenere appartati i pittori da ogni tipo di celebrazione, proponeva una quieta e rispettosa riscoperta delle radici pittoriche dell’arte italiana. In questi anni il gruppo era in formazione, ed attendeva la mostra rivelatrice che sarebbe arrivata nel 1926, e della quale fu incubatrice e curatrice Margherita Sarfatti. L’evento fu accuratamente preparato dalla Sarfatti, che aveva intravisto la possibilità di individuare un vero e proprio movimento artistico.
Erano gli anni cruciali del consolidamento del regime fascista; anche l’arte avrebbe così, nelle sue intenzioni, partecipato alla costruzione di una nuova età.
In Novecento, niente di impudico: le donne non sono maliarde dagli occhi annegati nell’ombra, né la linea delle loro labbra è atteggiata alla seduzione. Sono donne che appartengono ai borghi italiani, che esprimono un riserbo semplice e un silenzio casto: più eredi delle donne di Degas che delle matrone o delle sfingi di Baudelaire. Niente più ricorda l’avanguardia, né le sequenze storico-artistiche più manieriste od estetizzanti.
Tamara de Lempicka invece negli anni Venti dipinge nudi sinuosamente aggressivi; al posto delle crocchie di capelli annodate sulla nuca, tagli “alla maschietta”. Se le donne di Il ritmo non fossero nude, vestirebbero abiti da charleston.
Altri dipinti ritraggono nudi femminili più esplicitamente erotici: La bella Rafaela, Andromeda, in cui le superfici levigatissime, le geometrie, non intaccano la carica sensuale di quelle forme slanciate e mollemente atteggiate: l’abbandono è decadente, il segno preciso e netto è “moderno”! E purtuttavia un dipinto come quello dedicato a Rafaela costituisce una riedizione moderna delle veneri sdraiate che costellano la pittura del Cinquecento e del Seicento. Moderni sono lo scorcio sapiente, la distribuzione delle luci e delle ombre e il taglio dell’immagine (v. La belle Rafaela).
La trasgressiva sensualità della pittrice permette un’ultima considerazione riguardante la coincidenza della sua immagine con quella delineata da Valentine de Saint-Point nel suo Manifesto della donna futurista del marzo 1912.
Questo documento, che riprende e precisa il disprezzo per la donna enunciato da Marinetti nel manifesto Contro l'amore e il parlamentarismo del 1915, mette l’accento sulla mortificazione che la cultura ha esercitato sulla componente virile presente nella donna. «È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini; essa è composta solo di mascolinità e di femminilità» afferma la Saint-Point. E aggiunge: «ciò che manca più alle donne come agli uomini è la virilità. Ecco perché il Futurismo, con tutte le sue esagerazioni, ha ragione [...]. Ogni donna deve possedere non soltanto delle virtù femminili, ma delle qualità virili; altrimenti è una femmina. E l’uomo che ha soltanto la forza maschia, senza l’intuizione, non è che un bruto».
Il corollario di queste affermazioni riguarda poi la guerra, il superomismo, la distinzione delle epoche umane in eroiche e passatiste, «annegate in sogni di pace». È da notare che i primi dipinti di Tamara furono firmati “Monsieur Lempicki”, tanto da trarre in inganno il critico Woroniecki.
Gli anni Trenta vedono consolidare la fama della pittrice; all’orizzonte c’è un nuovo matrimonio, ma anche un periodo di depressione; infine un nuovo espatrio, alla volta degli Stati Uniti, quando, nel 1939, la guerra incombe sull’Europa. Beverly Hills, New York, sono le località che la accolgono e quando il marito muore, nel 1962, la pittrice si trasferisce prima a Houston, poi nella sua villa a Cuernavaca, in Messico. Una produzione pittorica più malinconica, a tratti di soggetto religioso, che si era affacciata già a partire dal 1933, si fa più intensa. Lo stile non ha più la forza, l’energia di un tempo.
Tamara de Lempicka morì nel 1980, e per molto tempo la sua pittura venne ricordata in relazione ad un’epoca e ad un costume ormai trascorsi. Oggi possiamo tornare ad osservare questo “caso” artistico come anticipatore del patto tra estetica e comunicazione tra mondo artistico e moda, che dagli anni Ottanta del Novecento è diventato dominante. Fenomeno nuovo, a quei tempi, anche per il tenore del messaggio e per la sua amplificazione. L’immagine dalla quale siamo partiti – l’autoritratto in automobile – apparve nel luglio 1929 sulla copertina della rivista di moda Die Dame (Nota 2) che si pubblicò in Germania dal 1911 al 1943, a sancire la perfetta coincidenza, nell'estetica della pittrice, tra moda e pittura.

 

NOTE:

Nota 1 Le immagini dei quadri di Tamara de Lempicka a cui si fa riferimento nel testo sono visibili sul sito www.delempicka.org introducendo nel campo search il titolo del quadro indicato a fianco del link nel presente articolo. Torna al testo

Nota 2 L’aneddoto riguardante l’incontro tra la direttrice di “Die Dame” e la Lempicka è riportato in G. Mori, Tamara de Lempicka: Parigi, 1920-1938, Giunti, Firenze 1994. Torna al testo

 

BIBLIOGRAFIA:

G. Almansi, Tamara de Lempicka: fatale, glaciale, in «Art e Dossier», 71 (1992), pp. 15-18

G. Mora, Tamara de Lempicka: Parigi, 1920-1938, Giunti, Firenze 1994

G. Mori, Lempicka, Giunti, Firenze 1994, inserto redazionale allegato a «Art e Dossier», 87 (1994)

G. Mori, Tamara de Lempicka, Giunti, Firenze 1999

G. Mori, Un’artista poliglotta, in «Art e Dossier», 226 (2006), pp. 12-19

G. Mori (a cura di), Tamara de Lempicka, Skira, Milano 2006. Catalogo della mostra tenuta a Milano dal 5 ottobre 2006 al 14 gennaio 2007

 

SITOGRAFIA:

www.delempicka.org

www.atlantedellarteitaliana.it

www.exibart.com

 

Questo contributo si cita: M. P. Morando, Epoche e immagini. Letture. Il Novecento - Tamara de Lempicka, in «Percorsi Storici», 1 (2013) [http://www.percorsistorici.it/numeri/numero-1/titolo-e-indice/rubriche/maria-paola-morando-epoche-e-immagini-letture-il-novecento-tamara-de-lempicka]

Questo contributo è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia

 

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