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Davide Bagnaresi, Vivere a Rimini negli anni della Belle Époque. La quotidianità tra progresso, tempo libero, emergenza e politica, Panozzo Editore, Rimini 2017, pp. 192

(Tito Menzani)

 

La città di Rimini si configura come un insediamento di media grandezza al confine fra l’area padana e quella centrale, affacciata sull’Adriatico, ma parimenti ben collegata con il retroterra collinare. A livello storiografico – limitatamente all’età contemporanea –, è soprattutto nota per le vicende relative alle fasi finali della seconda guerra mondiale, quando l’assestarsi del fronte lungo la linea Gotica fece del comprensorio riminese uno dei principali teatri nazionali del conflitto. Allo stesso tempo, però, la città è conosciuta per aver dato luogo nel secondo Novecento ad un’attività turistico-balneare particolarmente vivace, nonché per alcune industrie di spicco, a iniziare dal settore della meccanica e dell’arredamento.
Il volume di Davide Bagnaresi – assegnista presso il Centro studi avanzati sul turismo (Cast) dell’Università di Bologna e docente a contratto di Storia dei consumi e delle imprese turistiche del medesimo ateneo – approfondisce un tassello del passato riminese meno noto. Il medesimo autore aveva già pubblicato nel 2015, sempre con la Panozzo Editore, Vivere a Rimini negli anni della Grande Guerra. La quotidianità tra bombardamenti, terremoti, fame e profughi, che nella grafica e nel titolo – oltre che nell’impostazione della ricerca – appare del tutto in linea con questo nuovo volume.
Lo studio di Bagnaresi è volto a ricostruire la dimensione economico-sociale di Rimini fra il tardo Ottocento e la prima guerra mondiale. Quella che va generalmente sotto il nome di Belle Époque fu una fase particolarmente felice, fatta di sviluppo industriale, crescita turistica, affermazione della società di massa, entusiasmo per i progressi scientifici. Il volume racconta con una pregevolissima narrazione questa dimensione del quotidiano, soffermandosi su alcune vicende, apparentemente minori, ma meritevoli di attenzione. Così come, oltre all’espansione economica e sociale, si dà conto delle grandi disparità cetuali, con rilevanti fasce di povertà a fare da contraltare a uno sviluppo che non era per tutti.
Il libro è composto da sette capitoli. Il primo (I primi passi verso il progresso) accompagna il lettore attraverso le trasformazioni più eminentemente economiche, con vari riferimenti al tessuto industriale locale, alla dimensione commerciale e alla costruzione dei servizi cittadini di trasporto pubblico. Il secondo capitolo (Una città in cerca di un’identità moderna) affronta il tema dell’urbanistica e della qualificazione del territorio comunale, anche in termini di toponomastica, di confini e di relazioni di vicinato. Poi è la volta di una parte dedicata alla dimensione ricreativa (Cultura e spettacoli), antesignana di una più moderna modalità di fruizione del tempo libero. Il quarto capitolo (Pratica agonistica e manifestazioni sportive) si occupa dello sport, a partire dalla sua dimensione popolare e sociale, inframmezzata da grandi eventi, come il passaggio del giro d’Italia. Seguono pagine dedicate alle vacanze balneari (Una destinazione turistica in espansione, nonostante i problemi…), con ampi riferimenti alla realizzazione delle strutture ricettive e ai primi turisti illustri, in grado di influenzare le mode e gli stili di vita. Il sesto capitolo (Un’epoca bella… ma non per tutti: emergenze sanitarie e catastrofi) ci conduce verso il rovescio della medaglia del progresso, ovvero fra le fasce più povere e fra le vittime delle esondazioni del Marecchia. Chiude il volume una parte dedicata alla vita civile (Associazionismo e politica), che fa il punto sulle reti dell’epoca e sui principali orientamenti ideologici e confessionali della società riminese.
Il libro è impreziosito da un apparato iconografico davvero di grande livello, curato da Alessandro Catrani, avvocato e collezionista di immagini d’epoca, che ha setacciato il proprio archivio personale per dotare il libro di fotografie molto suggestive. Si distinguono fra le tante quelle relative alla fabbrica di birra Spiess, al tramway a cavalli, all’esibizione di Buffalo Bill, alla realizzazione del Grand Hotel, e alle lavandaie presso il fiume Ausa.  
In sintesi, il libro di Bagnaresi ci offre uno spaccato della Rimini di oltre un secolo fa, senza cadere nelle trappole della nostalgia e dello sterile «come eravamo», ma dando fiato un testo che si muove tra rigore storiografico e capacità di dare al caso locale un interesse evidentemente più ampio. Sono numerosi gli spunti di riflessione che ne traiamo, a beneficio della validità di un approccio che utilizza la quotidianità per indagare trasformazioni di più lungo periodo. 

 

Questa recensione è coperta da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia 

 

 

www.lagrandeguerrapiu100.it è un nuovo progetto, che viene realizzato presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento, con il coordinamento scientifico del prof. Gustavo Corni, titolare della cattedra di Storia contemporanea. Il progetto, elaborato e realizzato da un gruppo di giovani: storici, grafici, informatici, manager del web, si propone di valorizzare la rete per proporre a un pubblico più largo, e possibilmente anche formato da giovani e giovanissimi, il racconto della Grande guerra, di cui ricorre il centenario.
Il progetto si articola in 56 puntate mensili, che a partire dal maggio 2014 e per concludersi con il dicembre 2018, racconteranno seguendo il filo del tempo eventi, battaglie, protagonisti, ma anche i grandi temi e problemi storiografici della guerra combattuta cento anni fa.
Ogni puntata sarà imperniata su un tema più ristretto, che verrà messo a fuoco attraverso una serie di materiali:
-       testi di racconto storico, scritti in modo accessibile e chiaro ma rispettando criteri di scientificità e correttezza storiografica;
-       testimonianze coeve, che rispecchino i punti di vista soggettivi dei protagonisti, piccoli e grandi, dai generali agli intellettuali, ai semplici soldati o ai civili nei fronti interni;
-       tavole grafiche create per l’occasione da giovani artisti, che intendono rielaborare con la fantasia volti e vicende della guerra;
-       infografiche, che in forma accattivante e leggibile propongano i numeri della guerra: il numero dei combattenti, dei caduti, le perdite nelle battaglie più sanguinose, ma anche l’incremento degli operai nelle fabbriche o il crescente costo della vita per le famiglie dei civili;
-       gallerie fotografiche, selezionate alla ricerca di fotografie inedite, poco conosciute.
Tutti questi strumenti formali saranno utilizzati in modo originale e creativo per proporre un racconto della guerra che tenga conto dei diversi livelli: dalla guerra italiana al coinvolgimento delle altre potenze europee, ma anche agli elementi extra-europei, che fanno della guerra un evento per la prima volta mondiale, le battaglie, ma anche le vicende politiche, i protagonisti più noti, ma anche quelli meno noti, che solo ad occhi più avvertiti appaiono come protagonisti non meno dei grandi generali, degli intellettuali e degli statisti: la gente comune.
Il progetto del calendario digitale prenderà il via ufficialmente il 25 maggio 2014 in occasione della presentazione ufficiale nell’ambito del Festival “èstoria” di Gorizia, ma sarà online già qualche giorno prima. Grazie alla collaborazione di molti Enti, che hanno apprezzato l’anteprima di www.lagrandeguerrapiu100.it, esso troverà ospitalità su molti siti importanti: da quello dell’Ateneo di Trento, a quello dei principali musei storici italiani (Roma, Torino, Gorizia, Rovereto, Milano) a quello del Mart (Museo d’arte contemporanea di Rovereto) a quello del nuovo Muse di Trento, al sito dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia , alle principali riviste storiche online – per non citarne che i più prestigiosi. Esso troverà anche spazio nella rete dei social network, attraverso le forme più moderne di disseminazione.
Sono infine allo studio modalità per proporre – con i dovuti adattamenti – il sito in forma cartacea.

 

 

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Paola Zagatti

Scordiamoci la didattica laboratoriale

 

Nelle aule italiane si stanno diffondendo con discreta velocità le Lim, acronimo per Lavagna interattiva multimediale.

            Apparentemente si tratta di un semplice potenziamento della dotazione informatica degli istituti scolastici, iniziata negli anni ’90 del secolo scorso con i laboratori informatici. In realtà, rispetto a questi, si tratta di un radicale cambiamento di rotta nel campo della didattica. Cercherò di spiegare il perché cominciando dall’oggetto Lim. Per chi ancora non le conosca, le lavagne multimediali consistono in uno schermo ampio almeno quanto una lavagna tradizionale, ma di spessore maggiore, e in un proiettore. Questi due elementi sono connessi ad un normale computer. Si tratta quindi a tutti gli effetti di periferiche del computer. Lo schermo, grande, permette di mostrare contemporaneamente all’intera classe, qualunque sia il numero degli alunni, ciò che è possibile vedere sullo schermo di un computer, dal dvd al pdf, dalla presentazione in powerpoint a un testo su word, dal video di Youtube al sito del Louvre (di qui l’aggettivo “multimediale” riferito alla nuova lavagna). Bello, ma qual è la differenza fra una Lim e il ben più economico videoproiettore? Fin qui nessuna, ma non dobbiamo dimenticare che sempre di lavagna si tratta, ed è in questa funzione che consiste la differenza: le Lim sono vendute insieme a un software che permette di scrivere e disegnare sulla sua superficie mediante una penna speciale oppure con le dita, di usare i colori, di costruire disegni geometrici, di importare testi o immagini e di modificarli a proprio piacimento, di memorizzare il lavoro fatto in appositi file. Bello, e non c’è bisogno di sottolineare le differenze fra questa e la vecchia lavagna nera di ardesia, se non il prezzo (costo dell’intera apparecchiatura Lim vs costo dei gessetti, perché attualmente anche la più disastrata delle aule italiane contiene almeno una lavagna di tipo tradizionale) e il fatto che, qualsiasi uso se ne voglia fare, anche mostrare come si scrive la b maiuscola corsiva, adoperare la Lim comporta l’accensione di un computer e di due periferiche con i relativi consumi energetici.

            Che cosa è invece un laboratorio informatico? È un’aula, diversa da quella di classe, dotata di un certo numero di computer in rete tra loro e connessi a internet. In genere possiede anche un sistema (uno dei più diffusi in ambito bolognese è Alice) attraverso il quale un computer detto “docente” può accedere direttamente a tutti i computer dell’aula, contemporaneamente o a uno in particolare, interagendo con essi o inviando a tutti il medesimo input.

            Gli alunni della classe che accede al laboratorio hanno quindi a disposizione un certo numero di computer dotati di tastiera, mouse e generalmente sistema audio, da utilizzare da soli nei rari casi in cui il numero degli alunni sia pari a quello dei computer a disposizione, più frequentemente in coppia, nei casi più sfortunati in tre o quattro per postazione.

            L’insegnante può utilizzare l’aula in vari modi: per far comporre testi, costruire presentazioni, effettuare ricerche, eseguire esercitazioni, impostare contatti fra scuole diverse afferenti al medesimo progetto (numerosi progetti di scrittura creativa sono stati sviluppati utilizzando la rete) o anche per mostrare a tutta la classe contemporaneamente file video, testi, immagini, ecc. attraverso programmi come il citato Alice. Ed è solo quest’ultima modalità d’uso, quella passiva, che fa somigliare l’aula informatica a quella dotata di Lim. Tutti gli altri usi dell’aula di - o laboratorio di - informatica se ne distinguono in modo sostanziale, poiché mettono in grado gli alunni di lavorare in prima persona con lo strumento che hanno a disposizione e di arrivare autonomamente a un risultato finale, personale o di gruppo, che non è la ricezione di contenuti trasmessi dall’insegnante ma qualcosa di nuovo costruito dall’attività degli alunni. Nel laboratorio il ruolo dell’insegnante è quello di fornire l’impulso di partenza per il percorso che l’alunno si costruirà autonomamente, mentre il numero di alunni in attività agisce come moltiplicatore delle esperienze.Al termine del lavoro sarà infatti possibile confrontare i diversi percorsi e le diverse conclusioni, con la dimostrazione delle varie possibili modalità di sviluppo di uno stesso input. Ogni alunno avrà quindi avuto modo di sperimentare un’attività e si arricchirà anche delle esperienze degli altri.

            Durante il passato anno scolastico nella scuola secondaria di primo grado della cintura bolognese dove insegno mi è capitato di utilizzare il laboratorio informatico in modo singolarmente produttivo. Ho lavorato con una classe terza e l’esperienza si è svolta in collaborazione con l’associazione Mappe urbane (http://mappe-urbane.org) e l’Istituto Gramsci Emilia-Romagna. Partecipavano al progetto, denominato Le vie della memoria: itinerari a Bologna tra storia ed emozioni, altre tre scuole bolognesi ma, a differenza della mia, si trattava di secondarie di secondo grado.

            Motore del lavoro era il geoblog Percorsi emotivi (http://percorsi-emotivi.com), sito relativo alla città di Bologna e ai suoi luoghi posto in essere dal Laboratorio Mappe Urbane, uno dei gruppi di ricerca attivi all’interno della Fondazione Istituto Gramsci Emila-Romagna. Il sito mette a disposizione una mappa di Bologna alla quale chiunque voglia scrivere qualcosa su di un qualsiasi luogo della città può apporre il proprio post, che sarà contraddistinto da un simbolo diverso a seconda dell’emozione che quel luogo suscita in lei/lui.

            Utilizzando il laboratorio informatico, agli alunni è stato inizialmente presentato il sito, sul quale si sono liberamente esercitati nell’apporre post sui luoghi che preferivano. Ognuno poteva postare una o più “emozioni”, elaborando il testo come preferiva. Dopo questa prima fase conoscitiva di un luogo virtuale, si è passati alla fase due: gli alunni si sono recati realmente, e autonomamente, dopo la scuola, ad osservare tre monumenti ai caduti della Resistenza del loro circondario, indicati da chi scrive. Il compito consisteva nell’individuare il monumento, osservarlo e trascrivere i nomi dei partigiani che comparivano su di essi. Ogni alunno ha visitato un solo monumento, quello più vicino alla sua abitazione.

            La fase successiva si è svolta di nuovo nel laboratorio informatico. Ogni alunno ha individuato sulla mappa del geoblog il luogo del monumento visitato e vi ha apposto, mettendo a frutto le abilità apprese la volta precedente, le sue impressioni, spesso improntate alla meraviglia («C’ero passato davanti tante volte ma non l’avevo mai notato!»)

            Come ulteriore passo ad ogni alunno è stato affidato il compito di scoprire, via web, a chi appartenesse il nome di uno dei caduti. Attraverso i siti della memoria disponibili sulla Resistenza bolognese, come ad esempio il Dizionario biografico online. Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese: 1919-1945, a cura di Alessandro Albertazzi, Luigi Arbizzani, Nazario Sauro Onofri (http://www.comune.bologna.it/iperbole/isrebo/strumenti/strumenti.php) e il sito del museo virtuale della Certosa di Bologna (http://certosa.cup2000.it/2/index.php), ogni alunno ha potuto apprendere e trascrivere la biografia di uno dei partigiani caduti e le informazioni sulle circostanze della sua morte.

            A questo punto del lavoro, che si è svolto nel periodo in cui nel corso di storia venivano trattate la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, l’attività curricolare e il laboratorio hanno incrociato un’ulteriore attività, prevista, indipendentemente dalle altre, fin dall’inizio dell’anno: l’incontro della classe con un ex partigiano del luogo (tutti gli anni l’ANPI locale organizza questo incontro con le classi terze della scuola secondaria di primo grado).

            È stata questa la circostanza in cui l’esperienza ha raggiunto - senza che ciò fosse preordinato -  il suo culmine: gli alunni infatti, dopo aver ascoltato il racconto del testimone, gli hanno chiesto, nome per nome, se conoscesse le persone di cui avevano in mano la vicenda biografica. Trattandosi nella maggior parte dei casi di persone del luogo, il testimone, entusiasta delle conoscenze già in possesso dei ragazzi, ha potuto in molti casi rispondere affermativamente ed aggiungere ulteriori particolari sulla vita e sulla personalità dei caduti, arricchendone le figure soprattutto dal lato umano («Correva in bicicletta»; «Era bravissimo a giocare a calcio»). Al termine dell’incontro ogni alunno singolarmente e la classe nel suo complesso avevano sperimentato come segni sul territorio, storia e testimonianza viva siano legati da un orizzonte di senso che non li esclude, ma anzi appartiene a ciascuno.

            Questo a mio parere è un uso delle nuove tecnologie che arricchisce effettivamente le possibilità didattiche dell’insegnante, che le utilizza per uno scopo preciso e non perché «Ci sono e quindi vanno usate» (Nota 1). Gli insegnanti vengono spesso tacciati di inadeguatezza, di non essere “al passo coi tempi”. Ma per essere al passo con i tempi devono forse rinunciare alle proprie capacità critiche e non denunciare che ciò che talvolta viene propagandato come innovazione - le Lim - non è altro che la riproposizione della vecchia lezione frontale, con il digitale al posto dell’ardesia? Non dico che la Lim non possa essere utile, perché di lezioni frontali si fa ancora ampio uso e le classi sono sempre più numerose e qualcosa che le incanti sarà sempre utile, ma desidererei che a fianco degli stanziamenti per l’acquisto di questi strumenti almeno altrettanti ne venissero fatti per il mantenimento e potenziamento degli ormai obsolescenti - loro sì - laboratori informatici.   

 

NOTE

Nota 1 Su questo punto si veda l’illuminante intervista di Marina Boscaino ad Antonio Calvani, ordinario di Metodi e Tecnologie educative, in «Pubblico giornale», 22 dicembre 2012, p. 8. Torna al testo

 

Questo contributo si cita: P. Zagatti, Scordiamoci la didattica laboratoriste, in «Percorsi Storici», 1 (2013) [http://www.percorsistorici.it/numeri/numero-1/titolo-e-indice/rubriche/paola-zagatti-scordiamoci-la-didattica-laboratoriale]

Questo contributo è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia

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Maria Paola Morando

Epoche e immagini. Letture. Il Novecento - Tamara de Lempicka (Nota 1)

 

Il presente contributo inizia un percorso didattico di cultura visuale articolato in più parti, volto ad illustrare immagini particolarmente rappresentative di un’epoca storico-culturale e destinate a reagire con l’immaginario collettivo a noi contemporaneo.
Concentrare lo sguardo, riconoscere l’immagine come emblematica: un processo che non è strettamente definitorio perché mette in moto anche la soggettività; poi allargare i cerchi concentrici delle conoscenze, includendo correlazioni e i contatti tra le persone, i fatti, gli oggetti, il pensiero, cercando di spiegare i motivi della fascinazione esercitata dall’immagine. È forse un embrione di educazione allo sguardo?
L’esperimento si può provare di fronte ad un dipinto della pittrice Tamara de Lempicka (v. Autoritratto e My Portrait).
Linee semplificate, taglio diagonale, un soggetto che nella pittura dei primi trent’anni del Novecento non era mai apparso: una donna (elegante!) che guida un’automobile dal colore luminoso, che sa di non passare inosservata nonostante lo sguardo noncurante.
Quello che vediamo sono due toni di colore variati nella loro luminosità tramite i rilievi fortemente evidenziati, ma soprattutto il paradosso di un’immagine immobile che suggerisce il senso del moto veloce, del dinamismo: l’osservatore ha il tempo di contemplare l’immagine bloccata, definita da netti contorni, senza poter allontanare dalla mente la sensazione della velocità. La pittrice non si serve della frammentazione dell’immagine o della divisione dei tocchi di colore per alludere alla mobilità, eppure abbiamo la sensazione che l’automobile stia passando; siamo inchiodati dall’attimo eterno in cui gli occhi gelidi della figura femminile si sono fissati nei nostri e, distrattamente, fugacemente, ci hanno incatenato.
Siamo nel 1929 e la figura rappresentata è quella della pittrice Tamara de Lempicka, che si ritrae a bordo di una Bugatti nel momento culminante della sua maturazione come artista. Appare come una donna che ha un piglio dominatore sul mezzo meccanico che tanto contribuisce a darle un’aria di sfrontata eccezionalità; l’immagine infatti fa eco all’esaltazione della velocità futurista, ma ne ha trasformato il vitalismo in controllo, supremazia, dominio.
Tamara Gurwik-Gorska è una transfuga. Nobile polacca, nata a Varsavia nel 1898, russa per aver sposato Tadeusz Lempicki nel 1916, si è allontanata dalla Russia prima che fosse troppo tardi per non compromettere il suo futuro, portando con sé nell’esilio parigino, oltre all’allure aristocratica mai dismessa neanche nei tempi più difficili, un marito viziato e annoiato e diversi gioielli e pellicce. Pur nelle ristrettezze causate dall’abbandono dei beni e dalla scarsa propensione al lavoro del marito Tadeusz de Lempicki, la futura pittrice non aveva dimenticato il fasto delle più esclusive residenze imperiali, con le loro feste e le loro prestigiose collezioni d’arte e, inoltre, le vacanze con la nonna negli hotel più eleganti e alla moda di tutta Europa; aveva quindi mantenuto un tenore di vita consono alla propria estrazione sociale.

Fu proprio la sua educazione artistica, dote necessaria alle fanciulle altolocate dai tempi di Baldesar Castiglione, insieme al possesso di una visione cosmopolita della vita e alla conoscenza aggiornata dei fatti artistici, a fornirle la possibilità di inventarsi un lavoro-non lavoro, come quello della pittura, che le consentisse anche di procurarsi un reddito senza sconfessare la propria condizione e che anzi si alimentasse proprio dalla frequentazione degli ambienti selezionati e di prestigio che sentiva come propri.
In un contesto difficile per le donne artiste, che a Parigi solo dal 1897 avevano avuto la possibilità di frequentare l’insegnamento ufficiale, l’Ecole des Beaux-Arts (con il suo celebre Prix de Rome), e che erano molto numerose (benché la storia dell’arte le abbia trascurate e continui a farlo), Tamara de Lempicka riuscì ad ottenere una visibilità molto elevata ed una notevole fortuna di mercato. Quali i motivi per cui è diventata l’icona di un fenomeno come l'Art Déco?
Molte donne artiste sue contemporanee sono rimaste nell’alveo del dilettantismo, loro malgrado; per altre si è reso necessario collocarsi all’ombra di un uomo importante, dal rapporto col quale sono spesso state stritolate, professionalmente o psicologicamente; altre ancora, dopo l’età giovanile, hanno lasciato le ambizioni di porsi nel mondo dell’arte da protagoniste.
Tamara de Lempicka volle gestire individualmente il suo apprendistato artistico. Non fu attiva, ad esempio, nell’ambito dell’Union des femmes peintres et sculpteurs, fondata nel 1881 per rivendicare l’apertura di spazi per il riconoscimento dell’attività artistica al femminile.
Mentre la sorella si iscrisse all'Ecole Spéciale d’Architecture, lei frequentò i corsi gratuiti dell’Académie de la Grande Chaumière; in seguito passò all’Académie Ranson, dove era docente il pittore simbolista Maurice Denis. Anche l’attività di copia, dalle opere del Louvre o da riproduzioni, venne praticata per allenare l’occhio e la mano. La svolta tuttavia arrivò con il 1921, quando Tamara diventò allieva di André Lhote e contemporaneamente compì un viaggio in Italia, offertole da una vicina di casa, Ira Perrot, la sua amante.
L’incontro con Lhote fu determinante, e già dal 1922 la Lempicka iniziò ad esporre.
Lhote era stato scultore prima di darsi alla pittura, e dal 1912 aveva cercato di conciliare la pittura cubista con la pittura di impronta classica, avendo Ingres come punto di riferimento basilare; ciò corrispose alla perfezione con la propensione della pittrice a mescolare antico e moderno: cosicché ella poté iniziare a maturare una forma espressiva molto personale, caratterizzata da una forte deformazione e dalla tendenza all’ingigantimento dei volumi.
Del simbolismo di Denis nulla era rimasto: né il colore delicato e piatto, né la semplificazione della figura, né la spiritualità; spira al contrario in questi dipinti lo spirito moderno, appena percorso da una vena di voluttà (v. Portrait of Ira P. e Portrait of Mrs. M.).
L’insieme di tali caratteristiche ed il colore smaltato steso in superfici lucide e quasi metalliche sottilmente accordate sulla base dei toni freddi fanno pensare alle opere del Bronzino, che Tamara studiò nei suoi soggiorni italiani; le pose invece ai suoi amati manieristi, in particolare al Pontormo.
Siamo tuttavia distanti anni luce da una semplice ripresa o da una semplice citazione: il rapporto della Lempicka con i suoi riferimenti pittorici è di assimilazione. Bronzino fornisce elementi all’estetica della pittrice, così come altri spunti anche più contemporanei. Il Bronzino è uno strumento, così come lo sono stati i giocattoli russi, il cubismo russo-francese, le scenografie di Diaghilev, le icone, l’arte manierista, il ritorno all’ordine franco-italiano, l’arte da museo e la fotografia di moda, la copia dall’antico e dal manifesto pubblicitario, la tecnica fotografica filtrata dalle sperimentazioni pittoriche, coi tagli sghembi e angolati dell’immagine. Così come è abituale per la Lempicka conversare usando termini in lingue diverse, così succede nella pittura. Il linguaggio è reso aristocratico ed originale dalla combinazione creativa di elementi densi di connotazioni.
Tutto consiste di un’unica materia, tutto ciò che viene dipinto dalla Lempicka appartiene alla stessa sostanza volumetrica e cromatica che conferisce un’atmosfera di astrazione alle cose rappresentate. La semplificazione portata nella figurazione dalle avanguardie, in primis dal cubismo, è congeniale a queste immagini, così bloccate ma nello stesso tempo permeate di modernità, tanto da costituire sia la testimonianza di una temperie culturale e di uno stile di vita, quanto un modello elevato di riferimento per le signore del suo tempo (tutte le figure infatti appaiono come mannequins).  Ancora oggi, poche variazioni sono state apportate alle pose nelle foto di moda o pubblicitarie.
Tamara de Lempicka fu l’interprete di un gusto che si era precisato col maturare del suo stile pittorico, il gusto Déco. Il Déco ricevette una consacrazione tramite l'Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industrielles Modernes, tenutasi a Parigi tra l’aprile e l’ottobre 1925; infatti questo stile fu preponderante nelle arti applicate, sostituendo alla linea flessuosa dell’Art Nouveau le forme geometriche, le linee spezzate, i motivi a zig zag. Nell’ambito della pittura è innegabile la sintonia della Lempicka con questo che, più che uno stile, ebbe le manifestazioni e l’estensione di una moda (v. Sharing Secrets).
Dal punto di vista personale, con gli anni Venti era iniziato il periodo più sregolato e più movimentato della vita della pittrice.
Approdata a Parigi nel 1918, madre di una figlia, Kizette, ritratta più volte pittoricamente, la Lempicka aveva iniziato assai presto a frequentare una schiera di amanti di entrambi i sessi, alimentando accuratamente la propria fama di donna perversa ed eccentrica, una specie di mito dei “folli anni Venti” parigini. L’uso di cocaina, le notti trascorse nei locali parigini, le frequentazioni artistiche sempre più intense e noncuranti dei ritmi familiari l’avrebbero condotta al divorzio nel 1928.
Molti episodi significativi risalgono a quegli anni.
Tra i più aneddotici, l’incontro con Marinetti, in un locale, in cui decisero di andare ad incendiare il Louvre. L’impresa si concluse al commissariato, come riferisce la principale biografa della Lempicka, Gioia Mori, dove i due andarono a recuperare l’automobile, rimossa a causa di una sosta vietata; poi quello dell’incontro con D’Annunzio ed il soggiorno della Lempicka al Vittoriale, nel 1927, documentato dal diario della governante pubblicato nel 1977, in cui le due “vecchie volpi” si studiarono a vicenda. D’Annunzio vide in lei una nuova preda, mentre la pittrice, che non era certo un’ingenua, ambiva a catturare l’immagine del poeta per farne uno dei suoi icastici ritratti maschili e, forse, per sfruttarne la notorietà. L’incontro però non portò ai risultati sperati.
Il 1925, anno topico, che ricorre spesso nella cronaca e nella storia, denso di fatti essenziali e limite iniziale del fascismo regime, è l’anno in cui si verificò una mostra personale della pittrice in Italia, organizzata in base all’accordo con il conte Emanuele Castelbarco per il 28 novembre. Con la mediazione di Marinetti, quindi, arrivarono a Milano trenta dipinti e diciotto disegni, che vennero esposti nella galleria Bottega di Poesia di Castelbarco.
Questo episodio è di grande interesse perché la critica, e in particolare Ugo Ojetti, credette di poter accostare la pittura di Tamara a quella dei pittori Ubaldo Oppi e Felice Casorati in base al comune superamento dello sregolamento delle avanguardie; sta di fatto che le somiglianze tra la pittura di Casorati, qui presa ad esempio, e quella della Lempicka, nonostante qualche analogia, non sembrano avvicinarsi molto. È utile confrontare i rispettivi Concerto, del 1924 (v. Concerto) e il Il ritmo, del 1925.
L’impianto geometrico di Casorati, di ascendenza pierfrancescana, mostra tutt’altra concezione rispetto a quello tutto basato sulle masse ed i volumi, e giocato più in superficie, della Lempicka. Nulla ne Il ritmo fa pensare al realismo magico, o forse solo il particolare della figura che suona. L’insieme può essere accostato più coerentemente alla tematica delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, più prostitute in ozio che nudi plastici analizzati nei loro movimenti. Probabilmente Ojetti basava le sue osservazioni sull’idea sintetizzata da Cocteau alla fine della prima guerra mondiale nelle parole: rappel à l'ordre (ritorno alla figurazione, al realismo dell’immagine) (v. Rythm).
Il pubblico italiano comunque poté meglio rispecchiarsi nel ritorno all’ordine autoctono, piuttosto che in quello della Lempicka che era costituito principalmente dal gruppo di Novecento. Mentre incalzava l’arte di regime, la semplicità e la nobile quotidianità di Novecento, oltre che tenere appartati i pittori da ogni tipo di celebrazione, proponeva una quieta e rispettosa riscoperta delle radici pittoriche dell’arte italiana. In questi anni il gruppo era in formazione, ed attendeva la mostra rivelatrice che sarebbe arrivata nel 1926, e della quale fu incubatrice e curatrice Margherita Sarfatti. L’evento fu accuratamente preparato dalla Sarfatti, che aveva intravisto la possibilità di individuare un vero e proprio movimento artistico.
Erano gli anni cruciali del consolidamento del regime fascista; anche l’arte avrebbe così, nelle sue intenzioni, partecipato alla costruzione di una nuova età.
In Novecento, niente di impudico: le donne non sono maliarde dagli occhi annegati nell’ombra, né la linea delle loro labbra è atteggiata alla seduzione. Sono donne che appartengono ai borghi italiani, che esprimono un riserbo semplice e un silenzio casto: più eredi delle donne di Degas che delle matrone o delle sfingi di Baudelaire. Niente più ricorda l’avanguardia, né le sequenze storico-artistiche più manieriste od estetizzanti.
Tamara de Lempicka invece negli anni Venti dipinge nudi sinuosamente aggressivi; al posto delle crocchie di capelli annodate sulla nuca, tagli “alla maschietta”. Se le donne di Il ritmo non fossero nude, vestirebbero abiti da charleston.
Altri dipinti ritraggono nudi femminili più esplicitamente erotici: La bella Rafaela, Andromeda, in cui le superfici levigatissime, le geometrie, non intaccano la carica sensuale di quelle forme slanciate e mollemente atteggiate: l’abbandono è decadente, il segno preciso e netto è “moderno”! E purtuttavia un dipinto come quello dedicato a Rafaela costituisce una riedizione moderna delle veneri sdraiate che costellano la pittura del Cinquecento e del Seicento. Moderni sono lo scorcio sapiente, la distribuzione delle luci e delle ombre e il taglio dell’immagine (v. La belle Rafaela).
La trasgressiva sensualità della pittrice permette un’ultima considerazione riguardante la coincidenza della sua immagine con quella delineata da Valentine de Saint-Point nel suo Manifesto della donna futurista del marzo 1912.
Questo documento, che riprende e precisa il disprezzo per la donna enunciato da Marinetti nel manifesto Contro l'amore e il parlamentarismo del 1915, mette l’accento sulla mortificazione che la cultura ha esercitato sulla componente virile presente nella donna. «È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini; essa è composta solo di mascolinità e di femminilità» afferma la Saint-Point. E aggiunge: «ciò che manca più alle donne come agli uomini è la virilità. Ecco perché il Futurismo, con tutte le sue esagerazioni, ha ragione [...]. Ogni donna deve possedere non soltanto delle virtù femminili, ma delle qualità virili; altrimenti è una femmina. E l’uomo che ha soltanto la forza maschia, senza l’intuizione, non è che un bruto».
Il corollario di queste affermazioni riguarda poi la guerra, il superomismo, la distinzione delle epoche umane in eroiche e passatiste, «annegate in sogni di pace». È da notare che i primi dipinti di Tamara furono firmati “Monsieur Lempicki”, tanto da trarre in inganno il critico Woroniecki.
Gli anni Trenta vedono consolidare la fama della pittrice; all’orizzonte c’è un nuovo matrimonio, ma anche un periodo di depressione; infine un nuovo espatrio, alla volta degli Stati Uniti, quando, nel 1939, la guerra incombe sull’Europa. Beverly Hills, New York, sono le località che la accolgono e quando il marito muore, nel 1962, la pittrice si trasferisce prima a Houston, poi nella sua villa a Cuernavaca, in Messico. Una produzione pittorica più malinconica, a tratti di soggetto religioso, che si era affacciata già a partire dal 1933, si fa più intensa. Lo stile non ha più la forza, l’energia di un tempo.
Tamara de Lempicka morì nel 1980, e per molto tempo la sua pittura venne ricordata in relazione ad un’epoca e ad un costume ormai trascorsi. Oggi possiamo tornare ad osservare questo “caso” artistico come anticipatore del patto tra estetica e comunicazione tra mondo artistico e moda, che dagli anni Ottanta del Novecento è diventato dominante. Fenomeno nuovo, a quei tempi, anche per il tenore del messaggio e per la sua amplificazione. L’immagine dalla quale siamo partiti – l’autoritratto in automobile – apparve nel luglio 1929 sulla copertina della rivista di moda Die Dame (Nota 2) che si pubblicò in Germania dal 1911 al 1943, a sancire la perfetta coincidenza, nell'estetica della pittrice, tra moda e pittura.

 

NOTE:

Nota 1 Le immagini dei quadri di Tamara de Lempicka a cui si fa riferimento nel testo sono visibili sul sito www.delempicka.org introducendo nel campo search il titolo del quadro indicato a fianco del link nel presente articolo. Torna al testo

Nota 2 L’aneddoto riguardante l’incontro tra la direttrice di “Die Dame” e la Lempicka è riportato in G. Mori, Tamara de Lempicka: Parigi, 1920-1938, Giunti, Firenze 1994. Torna al testo

 

BIBLIOGRAFIA:

G. Almansi, Tamara de Lempicka: fatale, glaciale, in «Art e Dossier», 71 (1992), pp. 15-18

G. Mora, Tamara de Lempicka: Parigi, 1920-1938, Giunti, Firenze 1994

G. Mori, Lempicka, Giunti, Firenze 1994, inserto redazionale allegato a «Art e Dossier», 87 (1994)

G. Mori, Tamara de Lempicka, Giunti, Firenze 1999

G. Mori, Un’artista poliglotta, in «Art e Dossier», 226 (2006), pp. 12-19

G. Mori (a cura di), Tamara de Lempicka, Skira, Milano 2006. Catalogo della mostra tenuta a Milano dal 5 ottobre 2006 al 14 gennaio 2007

 

SITOGRAFIA:

www.delempicka.org

www.atlantedellarteitaliana.it

www.exibart.com

 

Questo contributo si cita: M. P. Morando, Epoche e immagini. Letture. Il Novecento - Tamara de Lempicka, in «Percorsi Storici», 1 (2013) [http://www.percorsistorici.it/numeri/numero-1/titolo-e-indice/rubriche/maria-paola-morando-epoche-e-immagini-letture-il-novecento-tamara-de-lempicka]

Questo contributo è coperto da licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia

 

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