Home

Come mostrano i dati dell’American Bureau of the Census, dal 1880 al 1930 circa 2.300.000 emigranti inglesi, scozzesi e gallesi entrarono negli Stati Uniti (quasi 1.100.000 tra il 1880 e il 1900; circa 1.200.000 nei primi tre decenni del XX secolo). In questo periodo, quindi, il movimento dei lavoratori britannici attraverso l’Atlantico fu sostenuto e massiccio.
Il presente contributo focalizza l’attenzione sulla fase precedente l’effettiva partenza degli emigranti e sui modelli di emigrazione che essi seguirono. Si basa su interviste raccolte durante l’era della Grande depressione dai ricercatori del Federal Writers’ Project e a partire dagli anni Novanta del Novecento dallo staff dell’Oral History Office del museo di Ellis Island di New York. Queste testimonianze gettano luce sulle motivazioni che spinsero gli emigranti a partire, sui principali fattori su cui si basava la loro decisione, sulle speranze che nutrivano prima della partenza e sulle strategie che concepirono prima di compiere un passo che avrebbe trasformato le loro vite e quelle delle loro famiglie. I resoconti rivelano anche l’esistenza di un legame internazionale tra le sponde americana e britannica. Tale legame fu cruciale nel fornire (principalmente attraverso lettere) informazioni di primaria importanza sulla disponibilità di lavoro e sostegno finanziario essenziale (attraverso le rimesse) a coloro che stavano pensando di emigrare o a chi era rimasto in patria.
Le testimonianze del Federal Writers’ Project e di Ellis Island provano che non è possibile fornire una sola spiegazione per un fenomeno complesso come l’emigrazione e che le ragioni degli emigranti per partire furono molteplici e inclusero fattori sia strutturali che personali. Allo stesso tempo, le interviste svelano che le difficili condizioni economiche degli emigranti e le fosche prospettive in patria furono le prime motivazioni alla base della partenza. Le testimonianze chiariscono anche che il richiamo dell’America giocò un ruolo cruciale nel processo decisionale degli emigranti prima della partenza.
Le interviste del Federal Writers’ Project e quelle di Ellis Island mostrano come gli emigranti fossero persone attive e razionali che soppesarono attentamente i vantaggi e gli svantaggi dell’emigrazione e pianificarono con cura il trasferimento in modo da minimizzare i rischi e massimizzare i benefici per le loro famiglie. In effetti, nonostante la traversata atlantica negli ultimi decenni del XIX secolo fosse divenuta un’impresa molto più individuale rispetto al passato, la realtà affettiva ed economica in cui gli emigranti continuarono a vivere rimaneva quella della famiglia.

 

Parole chiave: emigrazione, Gran Bretagna, Stati Uniti, 1880-1930, storia orale

 

Profilo

Mario Varricchio ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia all’Università di Edimburgo (2012) con una tesi dal titolo From the Mother Country: Oral Narratives of British Emigration to the United States, 1860-1940. È professore a contratto di Lingua inglese all’Università di Padova. È membro del Scottish Centre for Diaspora Studies e fa parte del comitato editoriale della rivista italiana di storia orale Memoria/memorie. Si occupa delle esperienze degli emigranti britannici in America e specialmente dei loro resoconti di prima mano, sia scritti che orali. Ha pubblicato saggi su storia orale, migrazione di ritorno e storia dell’emigrazione britannica negli Stati Uniti. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Introduction: The Other Side of Leaving e A Different Memory of Scotland: Family and Society in Valerie Miner’s The Low Road, entrambi in Mario Varricchio (ed.), Back to Caledonia. Scottish Homecoming from the Seventeenth Century to the Present (John Donald, Edinburgh 2012), e Golden Door Voices. Towards a Critique of the Ellis Island Oral History Project, in «Oral History Forum d’historie orale», 31 (2011).

Il termine gastarbajteri, traslitterazione dal tedesco Gastarbeiter (lavoratore ospite)era ed è tuttora usato in serbo-croato per definire gli emigranti economici di medio-bassa qualifica.
Nel 1963, dopo accesi dibattiti all’interno del Partito comunista, la leadership jugoslava decise di legalizzare l’emigrazione dei lavoratori che, fino a quel momento, era proibita. Se questa decisione, da un lato, mirava a risolvere le difficoltà economiche che la Jugoslavia stava attraversando, e in particolar modo alti tassi di disoccupazione e crescente debito estero, dall’altra, permettendo ai propri cittadini di lavorare per il capitalismo occidentale, metteva in dubbio la fedeltà del titoismo ai principi del marxismo.
Il compromesso tra queste due istanze contrapposte venne trovato nell’affermare che i lavoratori continuavano ad essere parte della classe lavoratrice jugoslava durante la loro permanenza all’estero, la quale doveva configurarsi come temporanea ed essere seguita dal ritorno a casa. In accordo con queste premesse, la definizione ufficiale dell’emigrante economico era “radnik na privremenom radu u inostranstvu”, ossia “lavoratore temporaneamente impiegato all’estero”.
Il presente contributo intende ricostruire sinteticamente le politiche adottate dal governo jugoslavo per favorire il ritorno e il reinserimento dei gastarbajteri in Jugoslavia. Spiegando come queste misure inizino a delinearsi nei tardi anni Sessanta per assumere un crescente peso politico ed economico dopo la crisi energetica del 1973-1974, l’attenzione sarà rivolta all’indagine degli eventi ed attori, sia interni che esterni, che ne influenzarono l’implementazione e gli esiti negli anni Settanta ed Ottanta. Volendo dimostrare che la politica jugoslava per il ritorno dei gastarbajteri fallì nei suoi obiettivi, attenzione sarà rivolta anche alle conseguenze di questo fallimento, non solo per quanto riguarda il ritorno e il reinserimento dei gastarbajteri ma, più in generale, lo sviluppo economico e sociale della società jugoslava.

 

Parole chiave: emigrazione, emigrazione di ritorno, Jugoslavia, 1969-1991

 

Profilo

Sara Bernard è dottoranda in Storia dell’Europa sud-orientale all’Università di Regensburg, dove lavora ad un progetto sul ritorno in patria dei lavoratori jugoslavi emigrati all’estero negli anni Settanta ed Ottanta. Studia i processi migratori, il loro influsso sulle identità, le relazioni tra Stato e società nella ex Jugoslavia.
Ha pubblicato fra gli altri: Developing the Yugoslav Gastarbeiter Reintegration Policy. Political and Economic Aspects (1969-1974), Centre for Southeast European Studies, Working Paper No. 5 (2012), http://www.suedosteuropa.uni-graz.at/en ; Emigrazione, reti e coscienza di appartenenza: il caso dell'emigrazione serba prima e dopo la dissoluzione della Jugoslavia, in A. D’Alessandri, A. Pitassio (a cura di), Dopo la Pioggia. Gli Stati della ex Jugoslavia e l’Albania 1991-2011, Argo, Bari 2011.

Negli ultimi anni c’è stata una significativa ripresa di interesse delle scienze sociali per la dimensione storica degli aspetti politici e istituzionali dei movimenti migratori, tra cui le politiche migratorie. Solitamente, queste ultime sono analizzate dal punto di vista dei paesi di destinazione. Quindi, l’analisi storica delle politiche migratorie quasi sempre si traduce in storie delle politiche di immigrazione. Questo lavoro si propone di invertire tale approccio per indagare la nascita e la configurazione delle politiche migratorie dal punto di vista delle partenze. Esso si propone di esplorare la storia delle politiche di emigrazione adottate in Italia nel periodo che va dall’Unità d’Italia fino alla prima guerra mondiale. In particolare, l’obiettivo è quello di individuare l’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti delle partenze dei suoi cittadini, delle procedure adottate per regolamentare queste partenze e dei motivi che hanno spinto l’Italia all’adozione di queste norme. La natura della problematica oggetto della ricerca così come i suoi interrogativi di fondo, verranno affrontati ricorrendo a un approccio ispirato a quello della sociologia storica. In particolare, si intende adottare la metodologia proposta dalla sociologia degli eventi che offre una linea di ricerca su cui è possibile far convergere l’analisi storica e quella sociologica. Secondo il quadro metodologico e analitico fornito dalla sociologia degli eventi, per il nostro lavoro di analisi si tratta di capire, in primo luogo, come e perché il processo di costruzione dello stato italiano struttura il fenomeno emigratorio. E, infine, come e perché le politiche emigratorie e l’emigrazione stessa, influenzino la costruzione dello Stato italiano. Per condurre questo lavoro di analisi, in accordo con l’approccio della sociologia degli eventi, si utilizzeranno le cronologie degli eventi e la riflessione storica prodotta sugli eventi in questione. Per l’analisi e la ricostruzione della cronologia degli eventi, come ad esempio le partenze dall’Italia, saranno utilizzate fonti statistiche e metodologie quantitative. Lo scopo è quello di una appropriazione selettiva delle metodologie analitiche causali standard (ACS) per meglio combinare i vari registri causali e ritmi temporali, pur includendo strategie esplicative tradizionali in una cornice più ampia, di tipo evenemenziale.

 

Parole chiave: emigrazione, Italia, 1860-1914

 

Profilo

Mattia Vitiello è dottore di ricerca in Sociologia dei processi d’innovazione del Mezzogiorno presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli ed è ricercatore all’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali – Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR – IRPPS. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni relative ai fenomeni migratori, in particolare alle condizioni di vita degli immigrati nei paesi d’accoglienza, ai processi di integrazione, alla relazione intercorrente fra sviluppo e migrazioni.

Il fascismo degli esordi non aveva una propria politica migratoria e andò avanti in sostanziale continuità con i governi liberali, con la cosiddetta politica “a vista”. Mussolini, ancora alla fine del 1925, sembrava rassegnato all’ineluttabilità del fenomeno e riteneva che l’emigrazione fosse «una necessità del popolo italiano» necessaria per contenere l’esuberanza demografica, sebbene depauperasse il paese di elementi attivi. In questo senso, non avendo strumenti per regolare un esplosivo mercato del lavoro interno aggravato dalla smobilitazione dell’esercito, incoraggiò iniziative volte a fondare colonie per emigrati italiani in diversi paesi del Sud America, a incominciare da Colonia Regina, oggi Villa Regina, nell’Alta Valle del Rio Negro (Patagonia) che rappresentò un «modello» fascista di emigrazione pianificata replicato negli anni successivi, e può essere considerata la prima delle cosiddette “Città del Duce”. Emissari del fascismo, personalità politiche, militari e diplomatici varcarono l’oceano e viaggiarono nei paesi latino-americani per studiare e proporre ipotesi di colonizzazione. Tra essi Ottavio Dinale, ex anarco-sindacalista, giornalista del «Popolo d’Italia» e confidente del Duce, inviato al Plata pochi giorni prima della marcia su Roma per riorganizzare i Fasci di combattimento. Dinale, nei suoi due soggiorni in Sud America, si dedicò anche alla elaborazione di originali progetti di emigrazione, conservandone traccia nel proprio archivio personale, progetti che trovarono anche l’assenso di Mussolini.
Sulla base di fonti di prima mano, documenti di archivio inediti e stampa d’emigrazione, l’autore ricostruisce un quadro di diversi progetti di insediamento di famiglie italiane, soprattutto di ex combattenti, in Argentina, Uruguay, Paraguay e nell’Oriente Boliviano.

 

Parole chiave: fascismo, emigrazione, America Latina, Ottavio Dinale, anni Venti e Trenta

 

Profilo

Pantaleone Sergi ha insegnato Storia del giornalismo all’Università della Calabria ed è presidente dell'Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea e del Centro di ricerca sulle migrazioni dell’Università della Calabria. Si occupa di storia del giornalismo, di storia dell’emigrazione e di storia della criminalità organizzata, temi su cui ha pubblicato saggi e volumi, tra cui Patria di carta. Storia di un quotidiano coloniale e del giornalismo italiano in Argentina (2012); Destino Uruguay, 2 voll. (2011); Stampa migrante. Giornali della diaspora italiana e dell’immigrazione in Italia (2010); Gli anni dei Basilischi. Mafia, stato e società in Basilicata (2003).

 

La migrazione antifascista ligure tra le due guerre seguì percorsi antichi e nuovi, lungo tradizionali mobilità regionali e direttrici prettamente politiche, legate a identità popolari del territorio.
All’inizio degli anni Venti il flusso spontaneo di sindacalisti e militanti del biennio rosso seguiva vie già battute dalla comunità. Se tra i pionieri vi fu chi scelse la via delle Americhe, la maggior parte dei liguri optò per la via di fuga più praticabile negli anni dell’europeizzazione dell’emigrazione italiana: la vicina Francia. Il Sud-Est francese accolse antifascisti meno inquadrati e militanti più sfuggenti all’organizzazione partitica, in particolare anarchici. Dalle campagne dell’Imperiese si ricalcavano mobilità di prossimità verso il Nizzardo, dove giungevano anche contadini della Lunigiana mescolati ai flussi toscani.
Con la promulgazione delle leggi fascistissime, anche in Liguria si determinò un flusso politico organizzato dai partiti. Quadri sperimentati e militanti inquadrati nei partiti marxisti delle città operaie della Grande Genova e del Savonese erano inviati in zone politicamente strategiche, come Parigi o nelle regioni ad alta concentrazione italiana e ligure, Marsigliese, Var, Costa Azzurra.
Queste dinamiche varie determinarono differenti modalità di installazione, che si delinearono soprattutto negli anni Trenta, quando la mutata congiuntura italo-francese aprì la strada ai ricongiungimenti familiari. Nel Sud-Est i liguri si inserivano in una colonia immigrata antica, caratterizzata da un comunitarismo localistico e nostalgico. Qui la propaganda patriottica del regime all’estero aveva una certa influenza sui connazionali, assieme ad una politica locale tradizionalmente conservatrice e xenofoba. Tutto ciò incise sui comportamenti degli immigrati, spinti a mantenersi poco visibili e ad assimilarsi rapidamente. È in questa regione che molti liguri si impianteranno in maniera definitiva e l’antifascismo immigrato finirà per confondersi nella memoria della resistenza francese.
Nelle regioni di nuova immigrazione ligure come Parigi, gli esuli si mescolavano e disperdevano in altre reti regionali preesistenti e strutture antifasciste europee, acquisendo un’identità politica internazionalista ed una comunitaria nazionale, fondata sull’appartenenza antifascista, mentre in privato rimanevano forti i legami con il paese d’origine. È da questi centri che si determinerà all’alba della guerra un’emigrazione politica di ritorno, che getterà le basi della resistenza organizzata in tutta la Liguria.

 

Parole chiave: antifascismo, fuoriuscitismo, partiti politici, Liguria, anni Venti e Trenta

 

Profilo

Emanuela Miniati ha conseguito la Laurea specialistica in Strumenti e metodi della ricerca storica presso l’Università degli Studi di Genova ed è dottoranda all’Università di Genova e all’Università Paris X Nanterre con un progetto di ricerca relativo all’emigrazione politica italiana in Francia tra le due guerre mondiali. Si occupa di antifascismo, migrazioni e scritture popolari ed è collaboratrice dell’Archivio Ligure della Scrittura Popolare. Fra le sue pubblicazioni: Lettere dall’esilio. Famiglie antifasciste in Francia durante il regime, in F. Caffarena, L. Martinez, (a cura di) Scritture migranti. Uno sguardo italo-spagnolo, FrancoAngeli, Milano 2012; L’epurazione in fabbrica: il caso della Cokitalia di San Giuseppe di Cairo (1945-46), in «Quaderni Savonesi», 19 (2010); La rottura dei legami familiari nelle lettere dei fuorusciti, in «Storia e Problemi Contemporanei», 52 (2009).

Console Debug Joomla!

Sessione

Informazioni profilo

Utilizzo memoria

Queries Database