Alberto Preti, Lavorare con Fiorenza

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Alberto Preti

Lavorare con Fiorenza

 

Molti studenti ed ex-studenti delle scuole secondarie conoscono Gianni Sofri, a lungo professore di Storia dei paesi afro-asiatici nell'Università di Bologna, non tanto per i suoi studi su Gandhi, l'India o la Cina, quanto per i manuali scolastici di geografia che ha scritto, diretto, pubblicato come autore/redattore/collaboratore della casa editrice Zanichelli. Ma nel libro in cui racconta quella sua ricca esperienza di lavoro (Nota 1), Sofri ricorda che negli anni Novanta (in realtà, si era alla fine degli anni Ottanta) elaborò per il proprio editore il progetto di un manuale di storia destinato all'ultimo anno delle scuole superiori. Materia sua, dunque, ma pensata con un taglio innovativo, avendo presente innanzitutto l'esigenza di offrire a quegli studenti sguardi nuovi, tematiche originali, sintesi ragionate di alcuni temi nodali, per una migliore preparazione dell'esame di maturità. «Avrei voluto – scrive Sofri – ridurre la storia dei fatti […] a una cronologia ragionata, sufficientemente ampia […]. Il grosso della trattazione, invece, doveva essere affidata a capitoli di carattere tematico, dedicati ciascuno a un problema esaminato a partire dal presente, ma cercandone le radici in un passato dalla cronologia variabile», in ragione della diversa lunghezza dei "gomitoli" tematici che dal presente si possono dipanare, andando alla ricerca, se non proprio di una origine, quanto meno di un ragionevole punto di partenza. Gomitoli o matasse di diversa lunghezza, a seconda che si affrontino temi di storia politica o del lavoro, di storia delle religioni, della salute o del tempo libero.
Per un intreccio di ragioni personali e professionali, Sofri non riuscì a scrivere quel libro, il cui nucleo centrale avrebbe dovuto articolarsi in capitoli tematici, ciascuno della lunghezza di 15-20 pagine. Se ne accorse quando, avendo scritto un capitolo di prova sul tema «Viaggiare»  un argomento originale per un contesto manualistico, e che rivelava la passione dell'autore per l'intreccio storico-geografico – risultò arduo, pressoché impossibile, ridurre le 80 pagine di cui consisteva alla dimensione standard prevista. In realtà, sono sicuro che Gianni Sofri ci sarebbe riuscito ma, come si è detto, questioni diverse si affollarono attorno a quella "falsa partenza". Di quel capitolo, Gianni ricorda una «ardita» citazione finale del Viaggio intorno alla mia camera, di de Maistre, e io soprattutto il paragrafo che traeva spunto da Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, di Robert Pirsig. In ogni caso, essendo destinato a un manuale per il quale era prevista la collaborazione di specialisti di diversi ambiti o settori storiografici, quell'interessante capitolo di prova non poteva neppure essere usato come modello da offrire agli studiosi che intendeva coinvolgere. Conservo poche carte di quell'impresa in cui fummo coinvolti, Fiorenza Tarozzi ed io. Erano anni nei quali muovevamo i primi passi con la videoscrittura, e i testi che avevamo allora elaborato e raccolto furono affidati a supporti ormai illeggibili dai programmi informatici correnti. Non ho più trovato il dattiloscritto, chiamiamolo ancora così, di quel capitolo di prova, che probabilmente ho restituito all'autore, e che giace, inedito, in qualche cassetto della sua casa strapiena di libri. Ed è un peccato.
Fu allora – era la primavera del 1989 – che Sofri mi chiamò, insieme con Fiorenza, e ci chiese se eravamo interessati a prendere da lui il testimone e portare a termine un progetto avviato nel segno dell'incertezza. Perché noi due? Le nostre storie corrono a lungo in parallelo. Siamo stati entrambi allievi di Aldo Berselli nella seconda metà degli anni Sessanta. Sofri, suo assistente e docente di Storia dei paesi afro-asiatici, nella vecchia Facoltà di Magistero dell'Università di Bologna, teneva per noi i seminari a complemento del corso. Con lui scoprimmo le riviste politico-culturali della nuova sinistra italiana e i testi sociologici e storici della cultura critica americana. All'inizio degli anni Settanta, prima Fiorenza, poi io (che avevo fatto nel frattempo il servizio militare) rientrammo all'università come "borsisti" e poi "contrattasti" – come si chiamavano allora i "giovani di bottega" – e i contatti con Sofri erano continuati e si erano approfonditi. Aveva dunque deciso di ricorrere a noi come ad antichi studenti e ora più giovani colleghi contemporaneisti, di cui si fidava. Ma lo fece, credo, anche per un'altra ragione che gli era nota, e che ha a che fare con il rapporto di amicizia e colleganza che mi legava a Fiorenza.
Si sa che, nella stagione dell'apprendistato – specie in ambito universitario – ognuno va alla ricerca della propria strada, nella consapevolezza che il proprio futuro (che, all'epoca, mi appariva piuttosto incerto) dipenderà in gran parte dalla solidità delle basi scientifiche e culturali che si vengono costruendo, e dalla rilevanza dei percorsi di ricerca prescelti. Fiorenza era partita dalla tesi di laurea sulla Società Operaia di Bologna negli anni Settanta e Ottanta dell'Ottocento, nella transizione cioè dall'originario modello paternalistico, che caratterizzava quelle forme associative, all'orientamento socialista, per passare poi a studiare il fascismo delle origini (il I e il II Fascio di combattimento costituiti a Bologna fra il 1919 e il 1922). Io muovevo dall'argomento resistenziale – che periodicamente ritorna nella mia attività di studio – e mi ero spostato sull'Ottocento (la figura di Quirico Filopanti nella democrazia risorgimentale), ma senza una direzione di marcia forte e sicura. Il professor Berselli ci coinvolgeva nelle attività didattiche e, in parte, in quelle di ricerca, lasciandoci discretamente le briglie sul collo, quasi a voler saggiare la nostra capacità di cavarcela da soli. Questa condizione, il comune stato di precarietà, l'apprendistato svolto in anni segnati da dinamiche, tensioni, conflitti ideologici acuti nella società civile, nel mondo della politica e anche nel contesto universitario, hanno cementato da subito la nostra colleganza trasformata in amicizia, e questo grazie anche – forse soprattutto – a due tratti particolarmente positivi del carattere di Fiorenza: la sua generosità e la sua concretezza. Da un lato, la sua attitudine a spendersi per gli altri, a collaborare, a non tirarsi indietro rispetto a un progetto, a una domanda, alla necessità di ricorrere alla sua competenza sui temi diversi che veniva via via studiando e approfondendo. Dall'altro, la sua capacità di uscire fuori dalle situazioni ingarbugliate, apparentemente di stallo, semplicemente rimettendosi a camminare alla ricerca della direzione giusta, della buona soluzione; sottraendosi sempre al rischio della paralisi e della frustrazione generata da una cattiva gestione dei problemi. Della sua generosità e amicizia – mi sia consentito di scriverlo qui, dato che è difficile per me tenere separate le riflessioni "oggettive" sul lavoro svolto insieme da quelle personali su oltre quarant'anni di amicizia e di consuetudine – ho avuto prove concrete da subito, in un periodo di difficoltà (in cui facevo i conti anche con un cambio di stagione della mia vita) da cui sono uscito grazie anche al sostegno attivo di Fiorenza, proprio su quel terreno di lavoro che ero stato tentato, allora, di abbandonare.
Che cosa volesse dire lavorare con lei lo scoprii un poco più tardi quando – era il 1976 – Berselli ci propose di collaborare con lui a una ricerca, preliminare a un convegno di studi sulla storia delle città e delle loro articolazioni (urbanistiche, sociali, amministrative), promosso dall’Istituto per la storia di Bologna, insieme con il Comune e con la Regione Emilia-Romagna: ricerca voluta per sottolineare le ragioni storiche che stavano alla base della legge sulle nuove articolazioni urbane (i quartieri), destinata a incidere profondamente sul rapporto fra cittadini e amministrazioni locali, a partire proprio dall’esperienza bolognese, pionieristica e virtuosa. La ricerca, sotto la direzione di Achille Ardigò, produsse un ricco volume bibliografico, la cui sezione storica era curata, per le tre grandi epoche storiche, da Guido Achille Mansuelli, Gina Fasoli e Aldo Berselli. A differenza dei suoi colleghi, che produssero bibliografie più selettive, Berselli ci coinvolse suggerendoci di "gettare larghe le reti" e di cogliere l'opportunità di studiare bene, ampliandone i termini cronologici, la storia contemporanea attraverso il filtro ampio della storia della città e del "fenomeno urbano". Fu allora che cominciò quella che sarebbe diventata una consuetudine nel nostro "lavoro in coppia": ritrovarci nello studio di Fiorenza – più spazioso e funzionale del mio – per stendere e aggiornare il progetto, discutere i criteri, suddividerci i compiti; poi, dopo i necessari soggiorni di studio nelle biblioteche, fare il punto della situazione, confrontando i risultati del lavoro svolto, riportati in tante schede bibliografiche in cartoncino accuratamente compilate a mano. Allora si faceva così. Discutevamo affinità e differenze, valore dei testi, articolazione e modalità di costruzione del nostro lavoro a quattro mani. Ne scaturì un saggio bibliografico di quasi un centinaio di pagine (Nota 2), nel quale (curiosamente, a riprenderlo in mano oggi), dedicammo uno spazio maggiore alla stagione preliminare allo sviluppo dei centri urbani e della loro centralità (dal Settecento all'unificazione) rispetto a quello dedicato alla stagione successiva, che andava dalle trasformazioni urbanistiche tardo-ottocentesche al fascismo. Ma il saggio rifletteva anche lo stadio aurorale degli studi di storia urbana sull'età contemporanea, che proprio in quegli anni cominciavano a prendere corpo.
Fu solo l'inizio. Certo, ognuno di noi seguiva anche percorsi di ricerca individuali, ma finimmo per lavorare insieme in varie altre occasioni. Fiorenza cominciò a battere altre piste, dalla storia sociale (a partire dalla storia della sanità) a quella delle donne, ad approcci plurali che tenevano insieme lo sguardo antropologico, la storia culturale e quella politica, come nel caso del rito della cremazione o della vicenda storica del tricolore. Ma i nostri percorsi, pur diversificandosi via via, mantenevano sempre i punti di contatto di un'attenzione rivolta alla storia della società che si combina con la storia della politica e delle idee, spesso legate a un territorio o a territori ben precisi e circoscritti: storia (anche) locale, insomma, senza alcun complesso di inferiorità; convinti come siamo sempre stati della sua enorme vitalità, a patto di scandagliarla avendo ben presente la storia più ampia in cui si viene a calare. E così vennero gli altri lavori comuni: non somma di contributi individuali di ricerca, ma costruiti insieme, pazientemente, a tavolino, e scritti spesso a quattro mani: una scrittura nel corso della quale il gioco consisteva anche nell'alternarsi a "dettare" e a scrivere a macchina, anche per dare ai testi quella maggiore uniformità stilistica che scaturiva dal confronto continuo sulle nostre diverse concezioni formali, e dalle conseguenti, necessarie mediazioni.
Fu così la volta dell'indagine sui periodici conservati nelle biblioteche dell'Emilia-Romagna, preliminare a una stagione di studi sui giornali come fonte storica (Nota 3). E ancora, la ricerca, condotta insieme con Alessandro Albertazzi, sulle politiche sindacali e del lavoro negli indirizzi politici del Pci e del Psi fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta (Nota 4); la relazione sull'evoluzione delle forze politiche democratiche e della sinistra liberale a Bologna negli anni di Depretis, presentata al XXVII convegno della Società storica toscana (Nota 5). Vennero poi il lavoro per il numero monografico del Bollettino del Museo del Risorgimento di Bologna, sul ruolo che gli ex-combattenti del Risorgimento ebbero nell'Italia postunitaria (Nota 6); l'omaggio reso ad Aldo Berselli attraverso la raccolta e ripubblicazione di alcuni suoi studi sui rapporti fra "centro" e "periferia" (Nota 7); fino all'ultimo saggio scritto insieme, sugli universitari bolognesi che combatterono nella prima guerra mondiale (Nota 8): un primo test attraverso materiale documentario in gran parte inedito, che ci aveva soddisfatto, e che ci eravamo ripromessi (Fiorenza, sempre piena d'iniziativa, me lo aveva amichevolmente imposto) di riprendere e portare a compimento.
Ma non è stato solo il lavoro di ricerca a cementare quell'attitudine a lavorare insieme. Entrati all'università come borsisti, Berselli ci aveva dapprima affidato, come era consuetudine, le attività didattiche seminariali che integravano il corso monografico a beneficio degli studenti più interessati alla materia (non erano in gioco crediti formativi, allora). Dopo queste prime esperienze ci aveva coinvolto sempre più nel lavoro didattico, facendoci partecipare, anno per anno, tematica per tematica, e in forme via via più autonome, all'ampia raccolta e organizzazione del materiale documentario che avrebbe costituito parte integrante del programma dei corsi. Fu così che si vennero costruendo e allargando, sotto la sua guida, le nostre competenze storiografiche, in un'attività che talora si intrecciava, ma più spesso scorreva parallela alle nostre più specifiche attività di ricerca.
Conservo ancora parte di quelle, spesso, poderose raccolte di fonti e brani di autori, che riproducevamo e rilegavamo sommariamente (con l'aiuto di Vittorio Monti, bidello e tecnico prezioso nella piccola comunità dell'Istituto di discipline storiche e giuridiche), per metterle a disposizione degli studenti, ovviando a croniche carenze editoriali per quel genere di strumenti, e specie per alcune tematiche, non ancora adeguatamente studiate, o comunque "pensate" in funzione didattica. Preparavamo, Fiorenza ed io, tutto quel materiale, che richiedeva a noi settimane di ricerca e di studio: tre volumi di dispense sulla mafia nella storia d'Italia per il corso del 1981-82, in cui avevamo raccolto, con le opportune notazioni introduttive, fonti che andavano dalla relazione Bonfadini e dai testi di Franchetti e Sonnino del 1876, fino alle relazione storica della Commissione Antimafia del 1973, passando attraverso Le lettere meridionali di Pasquale Villari, L’Italia qual è, di Francesco Saverio Merlino, gli scritti di De Felice Giuffrida e Napoleone Colajanni, le testimonianze di antichi "servitori dello Stato" nella lotta alla mafia, come Antonino Cutrera e Cesare Mori, e altri testi ancora, fino a I Ribelli, di Hobsbawm.
Nel 1983-84, con attenzione all'interesse crescente per la storia urbana di cui si è detto, il corso monografico fu dedicato a "Espansione urbana, sviluppo industriale, movimento operaio in Europa nei secoli XIX e XX", e qui la ricca antologia di testi e fonti che avevamo raccolto e che riempiva tre fascicoli di dispense divenne – e questo ci gratificò parecchio – il "testo-base" di quel corso monografico. Le tre dispense (rispettivamente, sui "caratteri generali", su "casi di studio" e sulle fonti) offrivano agli studenti, a fianco dei testi monografici inclusi nel programma, un ricco ventaglio di prospettive e di autori in una materia ancora relativamente "nuova", come la storia urbana, attraverso gli scritti di Caracciolo e Insolera, De Seta, Sori, Carozzi, Mioni, Asa Briggs, e le "fonti" di Engels, Luzzatti, Pasquale Villari, Sturzo, Labriola, Mussolini; seguendo sempre, sotto la guida di Berselli, il criterio didattico di offrire un ventaglio ricco di proposte, tale da porre gli studenti a contatto con lo status quaestionis, tematica per tematica, offrendo loro gli strumenti per acquisire una prima, non superficiale competenza nella materia.
Ricercatori (ché tali eravamo nel frattempo diventati) e studenti avevano sgobbato per costruire e studiare un corso monografico di larga prospettiva? Nulla andava perduto, naturalmente, ma l'anno successivo si voltava pagina e si cominciava da capo, con un tema nuovo e diverso. Qualche volta Berselli si concedeva una maggiore sintonia con il filone principale dei suoi interessi di studio, come nel caso del congresso di storia del Risorgimento su Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli stati preunitari alla caduta della Destra, del novembre 1984. Berselli tenne la relazione su Amministrazione e ordine pubblico dopo l’Unità (Nota 9), e tutti e tre ci mettemmo a lavorare freneticamente, fra settembre e ottobre, per preparare le nuove dispense. Gli studi storici sul tema erano ancora limitati, e non potevamo proporre ai nostri studenti studi troppo specialistici di carattere giuridico-istituzionale. Quella volta dovemmo fare una ricerca ancora più approfondita e lavorare soprattutto sulle fonti, dedicando maggiore spazio alle note introduttivo-interpretative. Ne scaturirono tre fascicoli suddivisi cronologicamente, che coprivano un ampio periodo, dagli anni preunitari alla seconda guerra mondiale, e che si vennero allargando tematicamente dal nesso amministrazione/ordine pubblico al tema dell'amministrazione della giustizia e, in una quarta dispensa, al rapporto fra ordine pubblico e classi sociali in Italia nella prima metà del Novecento. Dall'iniziale spunto di ricerca di ambito ancora risorgimentale era dunque nato un corso di lezioni, particolarmente innovativo per la Facoltà di Magistero, che si poneva in sintonia con nuovi filoni di studio di storia delle istituzioni, ma che, ancora una volta, non rinunciava a dialogare con gli stimoli che provenivano dall'attualità politico-sociale del nostro Paese. Era aperto in quegli anni il dibattito  sulla cosiddetta "legge Cossiga" del 1980, sulla legge sui "pentiti di terrorismo" del 1982, e di lì a poco (1986) sarebbe entrato in vigore  nell'ordinamento penitenziario l'art. 41bis, sul "carcere duro per i mafiosi". Il dibattito più acceso sulla nuova accezione dello "Stato di polizia", sulla "militarizzazione dello Stato" si era ormai esaurito e degli "anni di piombo" restavano solo drammatici colpi di coda. Era dunque il momento opportuno per riflettere su quel nesso storico "società-polizia-esercizio della giustizia", con minore spirito di parte e maggiore lucidità di sguardi.
La riforma del Concordato fra Stato italiano e Chiesa cattolica – ma anche, con uno sguardo attento alla società civile, la diffusione del movimento di Comunione e liberazione in particolare tra i nostri studenti  costituì invece lo spunto per il corso dell'ultimo anno di insegnamento di Berselli (il 1985-86), su "La Chiesa nella società italiana dal Concordato alla Costituzione", e per l'ultima dispensa che preparai insieme con Fiorenza, e che intrecciava, ancora una volta, studi e fonti. Ma in quegli anni di lavoro didattico producemmo per gli studenti, sempre per ovviare alla povertà dell'offerta da parte dell'editoria scolastico-universitaria, altre raccolte di fonti in forma di dispensa e di carattere più generale, non connesse  a specifici corsi monografici: fonti che coprivano l'arco cronologico proprio di quell'insegnamento di Storia contemporanea («dal 1870 ai giorni nostri») oppure ambiti più definiti (ad es. «L’Europa degli anni Trenta»), utilizzate in base alle diverse esigenze didattiche. Tutto questo, naturalmente, passava attraverso la discussione preliminare dei criteri di scelta con Berselli, che lasciava a noi buoni margini di autonomia nell'individuare i testi, nella stesura delle note introduttive e di contesto, nella disposizione dei materiali all'interno delle dispense. I nostri orizzonti di conoscenza e d'interesse si venivano così ampliando con lui, anno dopo anno, alla prova della didattica universitaria. Non replicammo, più avanti, divenuti titolari di insegnamento, quelle pur preziose esperienze: era mutata l'organizzazione interna con la nascita dei dipartimenti ed erano divenute più vincolanti le norme sulla riproduzione dei testi a stampa; inoltre, la riforma dei cicli universitari aveva generato corsi di laurea costituiti da insegnamenti di durata più breve e più specifici o definiti sul piano tematico. E cresceva la possibilità di reperire fonti sul web. Come ho scritto, conservo buona parte di quei materiali alla cui preparazione ci dedicavamo con entusiasmo. L'intendimento con cui Berselli ci metteva al lavoro sulla didattica era quello di spingerci a fare esperienza di diversi ambiti del sapere contemporaneistico: ne potevano scaturire, ne sarebbero scaturite nuove idee, e nuove, motivate opzioni di ricerca. Un approccio formativo basilare e "generalista", dunque. Qualcuno lo potrebbe considerare un metodo di lavoro dispersivo. Io e Fiorenza no, e non ci siamo mai pentiti di averlo praticato.
Dovrebbe ora apparire chiaro il motivo per cui Gianni Sofri si rivolse a Fiorenza e a me perché prendessimo nelle nostre mani il testimone del progetto «Percorsi di storia contemporanea». C’è da aggiungere che, oltre a condurre le esperienze di lavoro di squadra (e soprattutto in coppia) di cui si è detto, ci interrogavamo anche noi, in quegli anni, sui manuali di storia e sul loro uso. Non ne traemmo mai conclusioni radicali (il loro rifiuto o la prospettiva di un rovesciamento della gerarchia tradizionale degli eventi, di un passato "da smascherare", di una storia vista solo dal basso), ma certo ci ponevamo il problema della struttura dei manuali, divenuti, fra gli anni Settanta e Ottanta, sempre più ampi per potere ospitare, sia pure sinteticamente, i temi e gli approcci della nuova storiografia, in materia di storia sociale, economica, delle culture, del nesso fra geografia e storia, dell'iconografia storica, fino alla storia quantitativa oppure alla psicostoria e altro ancora. Mentre cominciava a manifestarsi, anche da parte della scuola, l'esigenza di manuali "più leggeri"; esigenza a cui l'editoria scolastica era sensibile, come testimoniano gli scambi epistolari che avemmo negli anni successivi con la direzione editoriale della Zanichelli. D'altro canto riflettevamo sulla sacrosanta necessità che gli studenti dei corsi di Pedagogia e di Lingue e letterature straniere della Facoltà di Magistero, in cui allora insegnavamo – corsi di laurea rivolti prevalentemente alla formazione dei futuri insegnanti  conoscessero la storia generale; ma osservavamo la diffusa difficoltà, per quanti non avevano avuto una solida formazione di base nella materia, ad avere un approccio logico e critico, e non esclusivamente e inutilmente mnemonico, allo strumento che di quella conoscenza doveva essere il mediatore: il manuale appunto. E nelle nostre esperienze di didattica seminariale e integrativa avevamo talora provato a scomporre e ricomporre tematicamente, insieme con gli studenti, quei testi, a seconda degli interessi o dei bisogni che emergevano, e ci eravamo resi conto dell'opportunità didattica – specie per studenti che non erano specialisti di storia – costituita da questo approccio, che consentiva anche di metterli in contatto con una storia diversa da quella nella quale molti di loro si erano imbattuti nei loro percorsi scolastici: coacervo di uomini, fatti, idee, date e dati, che avanza inesorabile nel tempo, troppo incoerente e complesso per essere compreso. E anche, in ultima analisi, inutile.
Accettammo volentieri la proposta di Sofri e dell'editore Zanichelli, il cui progetto era del tutto corrispondente a quella nostra esigenza didattica. Anzi, ci offriva spunti nuovi che si proiettavano al di là dell'età contemporanea e dei temi consueti dei manuali di storia, dalla permanenza dell'antico (patrimonio storico, ma anche linguistico, modelli culturali) al tema del viaggio, di cui si è detto, dalla storia del tempo libero alle trasformazioni del paesaggio, al rapporto fra natura e cultura. Il progetto però, elaborato da Sofri tre anni prima, non era stato pensato per l'università né per l'ultimo anno delle superiori, bensì per il primo biennio di quelle scuole, in vista dell'avvio di una riforma degli insegnamenti, che sarebbe stata affidata nel 1988 alla Commissione Brocca, e che avrebbe aperto la strada all'estensione dell'obbligo scolastico fino al 15° anno di età. La destinazione a questa fascia scolare ne accentuava il carattere sperimentale giacché – come scriveva Sofri in una bozza dattiloscritta del progetto – con la riforma quegli anni sarebbero divenuti potenzialmente «terminali» (almeno per una quota di studenti), ed era quindi importante che un manuale di storia contemporanea per il nuovo biennio privilegiasse «la formazione complessa rispetto all'informazione», stimolando la «discussione su problemi e valori», nell'intento di formare «persone consapevoli», e non (piccolo strale destinato agli innovatori radicali della didattica della storia) «caricature di storici professionali».
Originariamente il progetto del manuale prevedeva un'articolazione in tre parti più un inserto di illustrazioni e documenti. Una prima parte di storia generale, «essenzialmente nozionistica», doveva fornire gli elementi conoscitivi di base. La seconda, la più originale, si sarebbe articolata in 14 temi scelti a partire da problemi dell'oggi, trattati in «forma narrativa», ma lasciando spazio alla problematicità ed evitando di usare un linguaggio da specialisti. Poiché il taglio delle prime due parti era sostanzialmente eurocentrico, la terza avrebbe dato spazio alla storia di culture e civiltà extraeuropee. Il testo sarebbe stato di circa 600 pagine. Il progetto era stimolante: profili tematici, alcuni consueti, altri più insoliti per un manuale, ma tutti, nei nostri intendimenti, capaci di tenere insieme la "storia generale", letta, capitolo per capitolo, attraverso lenti diverse. Altro elemento caratterizzante: la scrittura avrebbe offerto spazio a brani letterari, giacché la rappresentazione del passato offerta dagli scrittori è spesso più efficace di quella prodotta dagli storici e si offre sicuramente a utili riflessioni, storiografiche e didattiche. Per vari motivi non riuscimmo a procedere speditamente finché, nel 1994, Sofri decise di rinunciare definitivamente all'impresa e di affidarcene la realizzazione. Nel frattempo – oltre al caso esemplare del saggio sul «Viaggiare», scritto da Sofri e di cui si è fatto cenno – altri contributi cominciavano a pervenire: testi di valore, ma spesso di dimensioni maggiori del previsto e non sempre adeguati, nel linguaggio utilizzato, all'età dei destinatari.
Nel 1994, vista la rinuncia di Sofri e alla luce di un vero proprio ultimatum dell’editore, ci rimboccammo le maniche, Fiorenza ed io, e decidemmo di portare a termine il progetto, che intanto aveva cambiato target e, in parte, fisionomia. I mutamenti avvenuti negli ordinamenti scolastici per il biennio non erano in sintonia con il manuale progettato; inoltre, i contributi ricevuti dagli studiosi coinvolti potevano essere più opportunamente destinati a studenti dell'ultimo anno dei licei. Insomma, il testo si veniva trasformando in uno strumento integrativo dei manuali in adozione, pensato soprattutto in funzione della preparazione dell'esame di maturità. Questo lo rendeva più simile, per linguaggio e approccio, ai testi utilizzati anche all'università. Il che agevolò il nostro lavoro.
Il primo nodo era quello dei 14 capitoli tematici, il cuore del testo, per i quali una parte degli autori era già stata individuata. Avevamo ricevuto i capitoli su «Religione e religioni»  nel quale Ottavia Niccoli tracciava una sintesi del percorso storico-religioso dell’Occidente dalle riforme cinquecentesche alla religiosità tardo-novecentesca  e sulle «Trasformazioni del paesaggio». Qui, il collega modernista Giovanni Ricci muoveva dai paesaggi rurali europei della metà del Settecento, per giungere al degrado ambientale di anni a noi vicini. Mantenemmo per questa parte l'impianto originale, anche per ciò che concerneva le collaborazioni di Roberto Balzani («Le idee di fondo» e un nuovo capitolo su «Gli europei»), Fabio Levi («La guerra»), Marino Sinibaldi («Gli italiani») e Anna Maria Tagliavini sulla storia delle donne e della famiglia. Portammo in squadra, grazie alla tenacia di Fiorenza, il collega Fulvio Conti, che scrisse i capitoli sulla dislocazione del potere mondiale, sul lavoro, sul tempo libero. Fiorenza mise a frutto i suoi studi di storia sociale in un bel capitolo sulle «Minacce alla vita», in cui riuscì a raccogliere, facendoli dialogare tra loro e in un contesto cronologico che abbracciava l’Ottocento e il Novecento, la storia delle malattie, dell'evoluzione terapeutica, dell'igiene privata e pubblica, fino alla condizione sanitaria di fine Novecento, tenendo insieme, nel testo e nei documenti, l'approccio storico-sociale e quello antropologico. Io scrissi il capitolo sulla politica. Dei contributi originariamente previsti, rimasero fuori dalla redazione finale dal volume, quello sul viaggio, di cui si è detto, e altri due pregevoli testi che conservo nella forma dattiloscritta: uno di Albano Biondi – tragicamente scomparso di lì a poco – sulla complessità del concetto di cultura e sul suo rapporto con la natura; l'altro, scritto da Silvio Paolucci  apprezzato autore di manuali di storia e di strumenti didattici per la scuola  sulla permanenza dell'antico (dalle tracce materiali al linguaggio in tutte le sue stratificazioni): un contributo pionieristico sulla rilevanza sociale del patrimonio storico-artistico e sulle opportunità didattiche che esso offre. Entrambi saggi di grande interesse, ma appunto saggi: non inscrivibili, per mole e per linguaggio, nel testo che stavamo preparando. Con nostro rammarico, non potemmo pubblicare anche due corposi contributi, rispettivamente sulla Cina e sul Giappone, di Maria Clara Donato: i due testi erano senz'altro appropriati, per il linguaggio e per la scelta e l'organizzazione dei contenuti, ma nell'accelerazione imposta al completamento del volume non potemmo garantire gli altri, essenziali contributi che avrebbero dovuto costituire la terza parte, quella extraeuropea. Così dovemmo rinunciare a tutta la sezione, e ai due saggi sull'estremo Oriente.
Modificammo anche la prima parte, quella della "storia generale", e decidemmo di trasformarla in una cronologia ragionata, corredata da sintetiche presentazioni e da brevi medaglioni biografici scritti dall'amico Ugo Berti, seguendo la nostra propensione per un manuale "diverso" ma anche "leggero", che a quel punto ben s'incontrava con la strategia dell'editore, deciso a contenere i costi, data la fisionomia di testo integrativo che il "nostro" manuale andava assumendo; un libro la cui futura collocazione nel mercato dei testi scolastici si profilava incerta. Non ci distaccammo granché dal progetto in termini quantitativi: nelle 134 pagine di quella sezione raccogliemmo parecchie informazioni, organizzate, all'interno di capitoli "cronologici", per aree geo-politiche e con uno spazio dedicato, capitolo per capitolo, ai temi della cultura, della scienza e della tecnica. Fu il lavoro più lungo condotto insieme con Fiorenza e il suo studio era diventato la nostra redazione. Lavoravamo ancora in maniera tradizionale, con tante schede, discutendo inclusioni ed esclusioni, limandoci a vicenda il linguaggio, che doveva essere il più possibile oggettivo-espositivo, senza lesinare mai i controlli incrociati alla caccia di errori. Un lavoro necessario, giacché ci ha consentito di alleggerire i capitoli della parte tematica da un sovraccarico di dati e di date, rendendone più agevole la lettura. Un lavoro – mi sia consentito di dirlo sorridendone un poco – che ha messo alla prova la nostra amicizia e la qualità della nostra colleganza, consolidando entrambe. Un lavoro per il quale attingemmo molto all'esperienza di apprendistato all'insegnamento della storia, di cui ho fatto cenno in precedenza. Un lavoro che quasi certamente non avrei portato a termine da solo. E forse neppure Fiorenza. Ma insieme, sì.
Con l'aiuto della redazione editoriale, completammo la parte tematica – che dovemmo ridurre a 13 capitoli – con brani antologici di testi e documenti e con qualche immagine in bianco e nero, per quelle necessità di bilancio di cui si è detto: brani e immagini scelti, naturalmente, in stretta connessione con i testi. Ci impegnammo a inserire nei testi quei brani d'autore – letterari o saggistici – che avrebbero potuto rendere più varia, interessante, efficace l'esposizione. Ma forse non siamo riusciti a farlo nella misura che il progetto inizialmente prevedeva. Ordinammo la successione dei capitoli tematici in forma un poco più tradizionale rispetto all'idea di partenza: prima i testi sulla politica mondiale, le idee di fondo della contemporaneità, la politica, la guerra; poi quelli sull'identità europea e su quella italiana; quindi i temi delle religioni, della storia delle donne, della famiglia, della salute, del lavoro e del tempo libero; per concludere con il capitolo sulle trasformazioni del paesaggio.
Ne uscì (era il 1998) un testo sobrio (Nota 10), ma, credo di poter dire, accurato e, grazie al valore degli autori dei diversi capitoli, ricco di spunti, informazioni, elementi di riflessione; con molti argomenti originali rispetto alla manualistica corrente, pur in un libro di 380 pagine (anziché le 600 previste inizialmente): comparativamente snello, come desideravamo che fosse. Non so quante copie di quel manuale siano finite fra le mani di insegnanti e studenti degli ultimi anni delle superiori. A noi parve utile per consentire anche ai nostri studenti "non specialisti", vale a dire, in primo luogo, delle Facoltà di Scienze della formazione e di Lingue e Letterature straniere dell’Ateneo bolognese, di accostarsi in modo nuovo alla storia contemporanea. Ne abbiamo avuto numerosi riscontri positivi. Lo abbiamo aggiornato, per una riedizione del 2004, poi, come tutti i testi (e soprattutto come tutti i manuali didattici) anche questo ha concluso il suo ciclo, non ultimo per effetto dei cambiamenti intervenuti nei nostri insegnamenti. Ne ha scritto Gianni Sofri: «A me piacerebbe anche solo che questo libro avesse contribuito a diffondere l'idea di un possibile diverso modo di insegnare la storia» (Nota 11). Piacerebbe anche a me. E senza dubbio anche a Fiorenza.

 

NOTE:

Nota 1 G. Sofri, Del fare libri. Mezzo secolo da Zanichelli, Zanichelli, Bologna 2013. Torna al testo

Nota 2 A. Preti, F. Tarozzi Musiani, Classi sociali, istituti amministrativi e vita cittadina nell'Italia moderna, in A. Ardigò (a cura di), Borgo città quartiere comprensorio, FrancoAngeli, Milano 1977, pp. 115-211. Torna al testo

Nota 3 L. Moreschi, S. Neri, A. Preti, F. Tarozzi, Periodici regionali conservati nellle biblioteche degli enti locali dell'Emilia-Romagna. Censimento delle testate, in Regione Emilia-Romagna, Giornali biblioteche archivi, II, I materiali dell'esperienza, s.n.t. (ma: Bologna 1979), pp. 149-306. Torna al testo

Nota 4 Cfr. S. Zaninelli (a cura di), Il sindacato nuovo. Politica e organizzazione del movimento sindacale in Italia negli anni 1943-1945, FrancoAngeli, Milano 1981, pp. 549-716. Torna al testo

Nota 5 A. Preti, F. Tarozzi, Democratici e progressisti a Bologna negli anni di Depretis, in Sinistra costituzionale, correnti democratiche e società italiana dal 1870 al 1892, Atti del XXVII Convegno storico toscano (Livorno, 23-25 settembre 1984), Olschki, Firenze 1989, pp. 43-107. Torna al testo

Nota 6 A. Preti, F. Tarozzi (a cura di), Con la guerra nella memoria: reduci, superstiti, veterani nell'Italia liberale, «Bollettino del Museo del Risorgimento», Bologna, a. XXXIX (1994, ma: 1995). Torna al testo

Nota 7 A. Berselli, Studi su federalismo, regionalismo, autonomie (1946-2004), a cura di A. Preti e F. Tarozzi, Patron, Bologna 2010, pp. 240. Torna al testo

Nota 8 A. Preti, F. Tarozzi, Voci di soldati della Prima Guerra Mondiale. Dall’Archivio Caduti del Museo de Risorgimento di Bologna, in G. Angelozzi, M.T. Guerrini, G. Olmi (a cura di), Università e formazione dei ceti dirigenti. Per Gian Paolo Brizzi, pellegrino dei saperi, il Mulino, Bologna 2015, pp. 563-581. Torna al testo

Nota 9 Pubblicata negli atti del LII congresso di Storia del Risorgimento italiano: Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli stati preunitari alla caduta della Destra, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1986, pp. 165-211. Torna al testo

Nota 10 A. Preti, F. Tarozzi, Percorsi di storia contemporanea, Zanichelli, Bologna 1998. Torna al testo

Nota 11 G. Sofri, Del fare libri, cit. p. 29. Torna al testo

 

Questo contributo si cita: A. Preti, Lavorare con Fiorenza, in «Percorsi Storici», 5 (2017) [http://www.percorsistorici.it/numeri/]

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